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Le Storie – Vieni Con Me BOPS

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Forse suona un po’ anacronistico questo primo album dei romani Le Storie, ma ha dalla sua un atteggiamento quieto e pacato, privo (per fortuna?) di pretese rivoluzionarie. Sta al suo posto, ben delineato e non vuole strafare. Ligabue, Ruggeri, Rats sono solo i primi nomi che mi vengono in mente per descrivere quello che è un classico tuffo negli anni 90, un tentativo (direi anche riuscito) di suonare Rock in Italia, senza sfoderare i nervi implacabili dei Ministri o senza seguire onde latineggiati alla Negrita. Una via facile certo, ma non per questo così fuori dal tempo e innaturale.

“Guardando in Cielo” ci fa intuire che quando riabbassiamo gli occhi puntati verso l’alto, vediamo una lunga e deserta highway americana (e questa fuori moda non ci andrà mai). E nonostante gli incastri vocali forzati e l’assolo eccessivo (non è l’unico purtroppo) il pezzo si salva dignitosamente. “Uomini di Niente” paga il suo tributo alla grande musica popolare italiana, guarda indietro fottendosene delle tendenze. Racconta con meticolosità la vita di mare in un testo che sembra estrapolato dagli antichi archivi dei Nomadi, “Sfido Dio con le stelle e il sole”, la canzone sembra dalla rima sempliciotta ma mantiene alta la dignità, certo il finale stride un po’, forse più perché inatteso che per altri motivi. Il temporale che anticipa “Lontano” è invece solo presagio di una semplice e bella canzone, ben arrangiata nonostante qualche eccessivo fasto tecnico e suoni di chitarra che (si questi ora si!) suonano anacronistici.

In fin dei conti se volete liriche illuminate, canzoni graffianti, carisma da poeti decadenti questo non è il disco per voi, ma se vi accontentate di buone e semplici storie e di un buon esercizio di rock’n’roll all’italiana, siete nel posto giusto.

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Audio Magazine – Audio Magazine BOPS

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Che bella la musica spensierata. Pronta a strapparti un sorriso già dalle prime note e tenertelo stampato in faccia anche solo per una timida mezz’ora. Una serata sulla spiaggia, un falò, vento del Sud, una chitarra e una musica che suona nell’aria più che nelle mani o nelle bocche.
I romani Audio Magazine sono ciò di cui ha spesso bisogno la canzone italiana: un’onda anomala, positiva che ci trasporta su una riva incantata dove la fiesta è appena iniziata. I ragazzi servono un cocktail fresco di Reggae (che forse paga il suo tributo più al revival salentino che alle terre jamaicane) e melodia Pop (ma che più Pop non si può), senza mai scadere però in retorica o facili costumi. E allora “Toda la Vida” e “Sono Qui” sono brani estivi che mi piacerebbe davvero sentire dalle gracchianti casse dei lidi, mentre “Cambierò” azzarda un sound più moderno e aggressivo che mescola alla perfezione le voci di Andrea Cardillo e Francesco Carusi (ok, inutile nasconderlo: è vero che la timbrica di quest’ultimo ricorda Marco Masini?).
Fuori dall’isola felice “Un Sole Spento”, malinconica conclusione che ci riconsegna alla triste realtà. Forse questa potevano risparmiarcela, in un EP tutto fiesta e costume da bagno la ballatona stona e fa da “guastafeste”. Ma non facciamo gli schizzinosi: in un paesaggio stracolmo di nuvole, un EP così rimane un raro raggio di sole che fa risplendere tutti i denti che sfoderiamo al suo ascolto.

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Selton – Saudade

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Che storia da film che hanno vissuto i Selton. Quattro amici brasiliani che si trovano per caso a Barcellona e finiscono per fare un gruppo da strada, al Parc Guell, a suonare i Beatles. Un produttore di MTV Italia li scopre e li invita a Milano, a registrare il loro primo disco, Banana A Milanesa. E, da lì, centinaia di concerti, un mucchio di collaborazioni, l’abbraccio deciso all’italiano nel secondo disco SELTON, e, finalmente, questo terzo, multiforme disco.
Premettiamo che per ascoltare i Selton ci vuole l’anima leggera (citando un loro vecchio brano). Bisogna sapersi far trascinare dalla levità del quartetto, che è sempre in bilico tra una dolcezza malinconica e una malinconia dolce. Non fraintendete: i Selton si divertono, e parecchio, e sanno anche far divertire. Sono ritmati, solari, estivi (ma, come dicono loro, di “un’estate perenne, sottile”). Però il cinismo li uccide. Quindi rilassatevi e lasciatevi viaggiare.
Dicevamo: un disco multiforme. Ed è il pregio più grande di questo episodio della loro discografia, insieme alla loro solita grande sensibilità pop, quella vera, quella bella.
Si va (per l’appunto) dal pop carioca di “Qui Nem Giló” al cantautorato più canonico di “Passato Al Futuro” (con un testo di Dente), facendo slalom tra brani festosi e uptempo (“Piccola Sbronza”), pezzi che sembrano arrivare dall’America dei diners stile Frankie Valli & The Four Seasons (“Un Ricordo Per Me”, o la più elettronica “Across The Sea”), esperimenti funk (“Ghost Song”) e progressive-pop (“Vado Via”), episodi più riflessivi e sospesi, quasi sognanti (“Eu Nasci No Meio De Um Monte De Gente”).
Quest’ultimo brano, poi, mette la firma in calce a tutto il lavoro: “Ho preso la chitarra e d’improvviso sono andato / A cercare il mio posto nel posto sbagliato / Sono nato in mezzo a un sacco di gente / […] / Di tutto quel che ho visto c’è una cosa che ho notato / Siamo come farina in un sacco bucato”. È il meticciato, il vivere sparsi, ma allo stesso tempo il sentirsi a casa, potenzialmente, ovunque. È questa, secondo me, la grande forza dei Selton, che giocano con la nostalgia e la bellezza del viaggio, con la malinconia e l’allegria, con il sorriso burlone e le sopracciglia tese, con semi di musica rubati al vento dai quattro angoli del mondo conosciuto. Saudade è un bel disco, un disco da fischiettare. Un disco leggero, forse non imprescindibile, ma di certo gustoso. Dategli una chance.

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The Strokes – Comedown Machine

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Avremmo potuto dire – per non crearci nemici subdoli e seguitare a vivere felici – “un colpo al cerchio e uno alla botte”, come giudizio su questo ultimo disco dei The Strokes, un “tutto sommato” o “benaccio” che magari sarebbe bastato per liquidare con falsità benevole quello che invece si dimostra un fallimento sonoro che cova sotto le oramai ceneri di questa band una volta propulsiva di nuovi stimoli alternativi; ma siamo onesti fino in fondo,  Comedown Machine è un vuoto a rendere che esplora cose vecchie e senza fondo, chiaramente ricco di quel marchio di fabbrica fatto di chitarre avviluppate, voci in falsetto o  roche e tutte quelle ingegnerie strutturali di arrangiamenti che hanno fatto la fortuna del gruppo, ma per convincere gli ascolti che è tutto “nuovo” ce ne corre, e Casablancas pare andare senza bussola, creando una linea d’ascolto che non convince se non addirittura scivola via come olio sulla pelle.

I Newyorkesi – dopo dischi ottimi di buon garage informale, alternativo – scadono nel trascurabile, farciscono una tracklist che pompa avidamente funk, classic-disco, schizzate di testa e refrain innocui da lasciare tutto fermo come se il disco non accenni a partire nel suo senso orario; undici brani e una dose davvero impressionante di paraculaggine che fa anche spocchia e fanatica autorevolezza, ma è solo una macchina col motore ingrippato che arranca, fatica e suda a tenere banco anche per un solo minuto che sia un minuto.

Avremmo voluto amare questo disco, anche con tutte le nostre forze, ma i The Strokes non hanno più quel suono di tendenza di una volta, la ruggine creativa avanza a dismisura e non bastano assolutamente i fragori elettrici di “All The Time”, l’inconsistenza disco che balla dentro “Welcome To Japan”, lo sculettamento glossy di “Partners In Crime” e i campionamenti civettuoli che tormentano “Happy Ending”, siamo all’opposto estremo dei grandi dischi della loro storia musicale, peccato, un’altra ottima band che si perde per sempre ed un disco che viene voglia – ma poi lo si fa – di lasciarlo lì senza toccarlo.

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Àlia –Ària Ep BOPS

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Le atmosfere di  lana, l’amore arrivato al punto di arrivo, le varie sfumature della poesia e i rimandi culturali a poeti ed eventi storici, costruiscono a forma d’arte l’ep Ària , del progetto musicale Àlia, dietro il quale c’è il bergamasco Alessandro Curcio (voce, cori, chitarra elettrica) e Giuliano Dottori (chitarra elettrica, basso, pianoforte, tastiere, rhodes, batteria, e anche produttore e chitarrista degli  Amor Fou).                                          

Un lavoro di cinque brani, che vagano tra pennellate di New Wave, Post Rock, Jazz, grazie alla tromba di Roberto Villani, e soprattutto di poesia cantata, quasi sussurrata, senza sovra-eccessi, ma solo quel che serve, quel che è indispensabile all’arte, che è il tutto e non il mezzo. Gli strumenti, poi, sono il collante, il cielo, la terra, l’aria di questo mondo musicale, quasi perfetto se non fosse per l’emozione che emana, che non fa parte del non plus ultra.                                                                     
Una poesia musicale non facile da costruire e che dovrebbe essere sempre il desiderio di ogni compositore, ma purtroppo così non è, e quando questo connubio esiste nella sua bellezza non si può far altro che dedicargli un plauso e un attento ascolto.

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The Crazy Crazy World Of Mr. Rubik – Urna Elettorale (The Crazy Crazy Crisi) BOPS

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Il punto di questo (simpatico) Urna Elettorale (The Crazy Crazy Crisi) dei tre The Crazy Crazy World Of Mr. Rubik è l’indecisione. TCCWOMR suonano filastrocche ironico-grottesche immerse in un rock rarefatto, dalle ritmiche sincopate, quasi di stampo World Music, ma non riescono a stupire quanto dovrebbero. Le canzoni potrebbero essere sbarazzine, ma in alcuni casi s’allungano troppo (non è questione di minutaggio). C’è della carica critica nelle liriche, soprattutto quelle più sensate, ma non abbastanza da farne un disco “d’opinione”. Ci vedo, in controluce, tutta una visione d’insieme che tenta di mostrare il non-senso delle cose (“Parababè”, “Sebele”), ma secondo me non è sfruttata al massimo. Tecnicamente ci si mantiene sul semplice, basando tutto su chitarre crunchy, percussioni saltellanti e suoni/rumori d’atmosfera (e questi due elementi costituiscono la parte più interessante del disco, nascosta in introduzioni, code, incisi, deviazioni varie). Le voci potevano essere migliori, ma in un lavoro del genere (Rock sospeso, Elettronica minimal) fanno ciò che devono.
In ogni caso, Urna Elettorale riesce a regalare, qua e là, qualche soddisfazione: la title track si lascia ascoltare con facilità, e qualcosa rimane incastrato nelle orecchie a solleticarci la fantasia anche in altri episodi (“Cambiamo Forma”, “È Tempo Di…”).
Urna Elettorale è un po’ come quell’amico che abbiamo tutti: indeciso, incostante, ma con quella faccia simpatica che non ci permette di ignorarlo quando lo becchiamo per strada.

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ILA & The Happy Trees – Believe it

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Roba da donne. E se questo significa bel timbro, bella musicalità e bell’intonazione, sia in italiano che in inglese, allora sì, è roba da donne. Sono l’ultima che si metterebbe a fare un discorso da femminista, anche se le femministe sono molto punk, ma per come è andato il mondo, soprattutto passato, nel quale le donne musiciste (sorelle, mogli e madri dei grandi geni) sono state messe nell’angolo per il troppo grande ego dei loro uomini, e degli uomini in generale, allora sì, penso che il mondo si sia perso, se non qualcosa di necessariamente grande, almeno qualcosa di bello. E Believe It, il nuovo album di ILA & The Happy Trees, lo è.

Ila è una cantautrice genovese, inizia a suonare a 17 anni, nel 2004 esce il suo primo singolo Penso Troppo, nel 2007 il suo album completo Malditesta, nel 2011 Little World, dopo due ep, e finalmente nel 2012 esce Believe It. L’album si muove tra l’italiano e l’inglese (e come lei stessa dice “se sapessi dieci lingue penso che le userei tutte”) senza perdere significato, precisione e atmosfere che vanno dal cantautorato italiano più melodico, a quello d’oltre oceano per certi versi più country, con qualche soffio dark e ambient. Il mondo d’appartenenza è quello acustico, in cui la voce e la chitarra (l’ukulele e la kalimba) di Ila vengono accompagnati dalla batteria e percussioni di Teo Marchese, dalla chitarra acustica, il banjo e l’ukulele di Lorenzo Fugazza edal basso e dai cori di Paolo Legramandi. Inoltre ospiti speciali del disco sono il cantautore italo-brasiliano Franco Cava e la violoncellista svedese Katy Aberg.

Tante persone, tanti colori e tante esperienze che si incontrano per un album per certi versi solare, dove protagonisti siamo tutti noi, con i nostri sentimenti, le nostre paure, ma con una grande voglia di credere in qualcosa, di fare tanto e di lavorare per cambiare ciò che ci sta stretto. Come si legge sul sito della cantautrice “Questo è un disco che potrebbe infastidire i più cinici”, semplicemente per le atmosfere belle e soprattutto propositive che quest’album emana. Con le sue dodici canzoni che senza dirlo esortano ogni giorno a trovare tre cose belle che sono accadute. Un esercizio che faccio costantemente e che mi aiuta, e aiuterebbe tutti, ad allontanare il grigiume che opprime questa vita frenetica. “Believe it è così: all’inizio non riesci a capire cos’è quella sensazione che le dodici canzoni ti lasciano addosso”, ma ci vuole davvero poco per innamorarsi di Ila e della sua musica, che dopo un paio di ascolti diventa familiare, come il prendersi un caffè al bar con vecchie amiche, ricordando le risate dei tempi passati, o come la musica lasciata andare sotto a fotografie  che imprimono i momenti più belli di una vita.                                                  
Insomma, una musica che lascia addosso belle sensazioni e belle emozioni, che non va tanto spiegata ma soprattutto ascoltata e vissuta, ogni giorno.

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Leon – Come se Fossi Dio

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Personaggio indubbiamente controverso e fuori dal tempo questo Leon. Diretto come una freccia puntata in fronte, nudo sia in copertina che nella sua musica e spudoratamente egocentrico già dalla prima uscita discografica. Dopotutto come si può ignorare la spavalderia del titolo Come se Fossi Dio? Ma il ragazzo valdostano, nato tra la solitudine delle sue montagne e vari goccetti di alcool, ha sempre mirato verso l’altro e non ha mai abbassato la guardia. E cita pure il latino: ”si vis pacem para bellum: guerra alla mediocrità, al politicamente corretto, al conformismo del gregge”. Onore alla causa e alla forza di volontà. Il risultato? Buono, un esordio distinto, ben delineato e personale. Non di certo un capolavoro di innovazione ma un gran bel gesto di personalità. Anzi un gestaccio, in faccia a tutti coloro a cui piace vincere comodo.

Pop violento e sanguinante già dalla title track che apre le danze. “Come se Fossi Dio” è carnale e profana, sensuale e blasfema. Regna dal primo istante una verace fisicità, uno spogliarello di fronte a tutti. Pregi e difetti amplificati sotto un costante martello elettropop. E il lavoro dietro le quinte merita un’ovazione, carezze ruvide del produttore Pietro Foresti, gemma oscura e incredibilmente versatile, al lavoro tra gli altri con Valeria Rossi (si quella di “Tre Parole”!), Scomunica e Tracii Guns (L.A. Guns). L’anima più dark e violenta nel ragazzo aostano viene dunque da subito sprigionata grazie ai meticolosi arrangiamenti. “Bellissima” avvolge con la sua intro comoda per poi infrangersi in uno specchio rotto: visioni distorte e realistiche si accavallano e si scontrano tra la bellezza e l’anoressia: “tra la pelle e le ossa c’è nulla, come il vuoto che è in me”, canto disperato a corpo libero.

“Immagini” è visiva e semplice, più naturale nell’arrangiamento e con elettronica rilassata che si mette un momento in disparte per creare tappeti volanti e sollevare in aria la canzone meno fisica del disco, vicina alle splendide ballate dei Depeche Mode. “Profughi” è l’episodio che finalmente ci porta a sentire più vicini gli echi dei tanto attesi Subsonica e di quella sana elettronica anni 90 di cui andavamo tanto fieri. Gli argomenti scomodi ritornano prepotenti nell’adulazione alcolica di “Nel Gin” e in “Ego te Absolvo”, sarcastica visione di un prete pedofilo. Non ci sono mezze misure, Leon qui suona davvero spavaldo, svergognato: “tocca qui con mano cos’è la trinità”. Mandiamo a quel paese i puristi e apriamo gli occhi.

Il disco si conclude con due chicche: la versione francese della sensuale “Wicked Game” di Chris Isaak e un remix bello tamarro di “Nel Gin”, opera di Nedagroove. Forte e orgoglioso Leon chiude il sipario di un disco a volte un po’ poco focalizzato e ancora disperso tra argomenti e suoni lontani. I muscoli possono rilassarsi, il primo sforzo è stato comunque premiato. Speriamo però che gli occhi non si chiudano e anzi che la vista migliori, in modo da osservare i dettagli a distanza. Sempre più lontano dalla schifosissima mediocrità.
http://www.youtube.com/watch?v=H6RIPMSXWDk

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Andrea Nardinocchi – Il Momento Perfetto

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Questo disco ha due anime: la prima è pop, italiano, che più classico non si può, con i testi dai congiuntivi sbagliati (“sembra che ho”) e le rime alternate, mi fai sorridere quando mi fai incazzare, perditi con me, le lacrime sanno di sale, insegnami ad amare, ecc. – niente di male in questo: è evidente che sia un progetto costruito con l’intenzione di sfondare (e con questo non intendo dire che Andrea Nardinocchi non ci creda, anzi, si sente, sottesa, una certa – e profonda – necessità espressiva).
L’altra anima è ciò che rende Il Momento Perfetto un lavoro interessante: la produzione (impeccabile). Il disco si snoda tra un’elettronica morbida, ritmica, cool, e un R’n’B come non ce n’è molto in Italia. La voce di Nardinocchi, anche se a tratti ricorda, nell’uso, un più famoso Marco Mengoni, è un ottimo fil rouge per queste costruzioni di samples, synth, campioni, che fanno di Il Momento Perfetto un prodotto più internazionale di quanto si possa pensare.

Il disco è tutto qui, tra qualche featuring (Marracash, Danti dei Two Fingerz) direttamente dal mondo dell’hip hop italiano che Nardinocchi frequenta spesso, episodi più mossi (“Le Labbra Screpolate, “Tu Sei Pazzo), singoli strappa-mutande (“Un Posto Per Me, dove la “necessità espressiva” di cui parlavo sopra emerge parecchio, e la sanremese “Una Storia Impossibile), tracce più sperimentali (“Il Momento Perfetto”, “Confondersi), aerate stanze d’amore e rimpianti (“Bisogno di te”, “Amare Qualcuno), flirt swingati (“Con Uno Sguardo), strani incroci di sintetizzatori gonfi e pianoforti (“Come Stai).
Per apprezzarlo dovete saper sopportare: la musica sintetica; le canzoni d’amore; le voci che escono dal cuore, e soffrono, e fanno soffrire; la lentezza intrinseca che un prodotto del genere si porta dentro. Se ce la fate, Il Momento Perfetto è un disco che vale la pena ascoltare, più e più volte, magari in dolce compagnia…

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Jaspers – Mondocomio

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Premessa: ho visto i Jaspers live, un venerdì sera in cui non avevo nient’altro da fare. Ci sono andato conoscendo solo un pezzo loro, Palla di neve, di cui avevo visto di sfuggita il video (orrendo). Il brano in questione, secondo il sottoscritto, è una ballad pallosissima (mi si perdoni l’espressione non propriamente aulica). Capirete quindi il mio stato d’animo nell’entrare nel locale rischiando una rottura di palle infinita, aspettando questo gruppo stranissimo che si maschera per suonare, stile Slipknot de noantri, e poi produce un pop super-italiano, super-melodico. Ero un po’ interdetto, e non sapevo cosa aspettarmi – ma se avessi scommesso, avrei puntato sulla rottura di palle.
E invece i Jaspers mi sorprendono. Una presenza scenica eccezionale. Una bravura tecnica invidiabile. Si lanciano in lunghissimi brani-follia, uno più pazzo dell’altro – e qui la parola chiave è pazzo. Sì, perché poi scopro che i Jaspers (che prendono il nome da Karl Jaspers, filosofo e psichiatra tedesco) hanno una loro missione, una loro ricerca: “chi è il pazzo? Chi esplora la follia o chi si nasconde dietro a mille maschere, in nome di una “normalità” fatta di castrazioni e compromessi?” (parole loro).
Insomma, oltre ad avere (pare) le idee chiare, fanno pure un concerto coi contro-cazzi, e scusate il francesismo. Intensi, coinvolgenti, girano per la sala, si dimenano, e in tutto questo suonano benissimo, ognuno il suo: batterie precisissime, tastiere onnipresenti, chitarre avvolgenti, e poi la genialata finale, le due voci, vero punto di forza di tutto l’ensemble. Si mischiano perfettamente, si rispondono, si inseguono.

Ottimi, davvero.
Poi però torno a casa. E mi ascolto il loro disco. E sapevo, giuro, lo sapevo: sapevo che i Jaspers avrebbero rischiato molto nel fissare quel delirio su un supporto qualsiasi. E avevo ragione.
Il disco, è indubbio, è fatto bene (anzi, molto bene). Ma senza l’impatto, senza la pressione, suona un po’ vuoto.
Cerco di spiegarmi meglio.
I sei Jaspers hanno diversi punti di forza, ma li confondono. Non scelgono una strada, ma diverse, e questo, secondo me, li penalizza. Sono tecnicamente ineccepibili, ma a volte il mettersi in mostra, su disco, annoia. Sono simpatici e tentano la strada dell’umorismo, a tratti demenziale, spesso più teatrale, ma su disco ovviamente perdono tantissimo (sono sempre dell’idea che di gruppi come EELST ne nasca uno su un milione). Tentano, come prima accennavo, le ballad, cercando (e non ne fanno mistero) un’esposizione e un’attenzione mediatica che credono (e giustamente, anche) di meritarsi, ma ne escono maluccio – Palla di neve, dai… sembra una versione degli Io?Drama immersa nell’immaginario posticcio dei Lacuna Coil
E c’è da dire che i Jaspers hanno un curriculum esagerato: hanno studiato al CPM, sono stati formati da Mussida (o chi per lui), hanno vinto una quantità di concorsi, hanno persino fatto un party al Just Cavalli per i 10.000 fan su Facebook (con ospiti di livello, tra cui Lola Ponce e Patrick, che non so chi sia, ma immagino non l’amico di Spongebob). Per cui, cercate di capirmi: sono molto combattuto nel giudicarli, e oscillo tra una passione (controllata) per il progetto e una (non proprio lieve) stroncatura.

Quindi?
Quindi il consiglio è: andate a vederli da vivo. Fatevi trascinare. Non fidatevi dei video, dei singoli, del curriculum, del disco. Immergetevi nel Mondocomio: ma fatelo faccia a faccia coi brutti musi (mascherati) dei Jaspers. Questo è quello che mi sento di dirvi. Poi so già che il disco farà faville in tante delle vostre orecchie, ma dicono che il mondo sia bello proprio perché vario…

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Peanuts 78 – Questione di Gusto

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In questi giorni mi sento vecchio. Saranno i malanni di stagione che ogni anno si accumulano tra le ossa, la testa e la gola. Sarà forse che i miei problemi fino a qualche anno fa erano arrivare pronto all’esame e ora mi ritrovo a pensare a mutuo e investimenti. Forse saranno semplicemente le maledette responsabilità. “Old at heart but I’m only 28” diceva Axl Rose in “Extranged”. E mi sento ancora più vecchio perché una volta lui era il mio idolo e ora per me è solo un fantoccio che ha scritto una manciata di belle canzoni.
Potete capire dunque come il mio stato d’animo non possa giovare troppo di un disco che arriva da una giovanissima band propensa a quel pop tanto fresco da rischiare una prematura data di scadenza, condito di parole da Smemoranda liceale, arricchito da elettronica patinata e chitarre pseudo punk (chiedo perdono a Joe Strummer e Joey Ramone ma ormai a queste storpiature credo siano abituati). “Questione di gusto”, il titolo è inequivocabile e i tre torinesi Peanuts 78 sanno benissimo quali sono i gusti dei ragazzi al giorno d’oggi. E attenzione, niente ma proprio niente di male nell’essere degli spudorati “piacioni” soprattutto se si crede nella musica che si suona. “Se sapessi scrivere come quel buzzurro di Fabio Volo di certo non sarei qui a rompervi i coglioni con Leopardi”, diceva spesso la mia superaccultuarata ma onestissima prof di letteratura. E i brani dei Peanuts sono delle vere bombe da classifica a partire da “Insipido”, un po’ ballata alla Tiziano Ferro, un po’ elettronica da luna park. “Non è possibile” invece percorre strade meno lineari, ritmiche inaspettate vengono però raddrizzate in un ritornello facile e sintetico. Il singolo “Fuori Rotta” che ad una prima orecchiata pare non dare nulla in più al disco, stupisce per la facilità di comunicazione. “In equilibrio” prova a spingere su distorsioni e velocità, si cerca di accelerare ma ci troviamo in un autoscontro e i ragazzi cozzano contro le limitazioni del loro stesso pop.
Un bell’applauso in ogni caso va alla produzione, tutto si incastra alla perfezione. Il prodotto certamente suona preconfezionato, ma almeno non da scaffale del supermercato il cui beffardo destino è sempre il cestone dei saldi. Diciamo che conserva la sua genuinità da bancone del mercato.
Tra gli episodi più riusciti sicuramente spicca “Il re”, che rimanda allo stile frivolo di Cremonini ma degenera in un finale robotico. La cornice non cambia: cameretta stracolma di poster, di collezioni autunno/inverno di Zara e un computer portatile posizionato fisso su Facebook.
“Questione di gusto” non è un album memorabile, ma rimane ben suonato, allegro, fresco, orecchiabile, moderno e ricco di pretese. E consideriamo sopra tutto ciò che i ragazzi sono davvero dei pischelli pieni di futuro e strabordanti di musica pop. Non so se la mia prof avesse ragione, ma se potessi tornare indietro di otto anni e fare un album così un pensierino ce lo farei.

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Walter Pradel e Rondò Anthology – Calma Tempesta BOPS (recensioni tutte d’un fiato)

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Operazione curiosa, quella di Walter Pradel, che mi informano essere un ex-modello la cui vera passione è la musica, qui al secondo disco, insieme a Rondò Anthology (che non si capisce se sia un gruppo, un quartetto d’archi, un altro artista…).
Il disco è prodotto molto bene, e si presenta come un progetto su cui s’è investito parecchio. È un prodotto breve (cinque tracce + relativi strumentali) di un pop classico, gonfio d’archi e pianoforti, una voce pulita (Renga con meno estensione… una specie di Giò Di Tonno), testi che più banali non si può, melodie da bel canto, ogni tanto parte una chitarra elettrica dal sound epico che non si capisce cosa ci faccia là in mezzo.
Poi si arriva alla terza traccia, esplode una batteria elettronica direttamente dal peggior pop radiofonico italiano, e io mi arrendo.
Un disco che può funzionare solo a Sanremo o come regalo a vostra nonna, che apprezzerà di certo (a parte la batteria elettronica: la traccia 3 verrà costantemente skippata).

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