Maria Petracca Tag Archive

Fast Animals and Slow Kids 15/11/2014

Written by Live Report

Al solo pronunciare la parola “Alaska”, la mia immaginazione produce visioni che hanno a che fare con paesaggi glaciali ed ameni, terre brulle e vette alte, freddo, ghiaccio, ma anche silenzio e luoghi di quiete. L’Alaska dei Fast Animals and Slow Kids, nella sua versione live, è invece tutta un’altra storia. Sarà anche ghiaccio quello che esce dalle loro chitarre, ma è ghiaccio che scotta, e ben lo confermano i cuori incendiati che se la sono data di santa ragione sotto il palco scatenando il delirio. Merito di chitarre, batteria, percussioni aggiuntive, basso, e del frontman Aimone Romizi, instancabile campione di salto sul pubblico.

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Sono state due ore di mani e piedi in aria, di individui volanti, capitati sul palco per caso ed arrivati chissà da dove, improvvisatori di salto sul pubblico anche loro, mentre i FASK continuavano la loro performance, aggiungendo casino al casino e suonando, oltre ad  Alaska, alcuni pezzi tratti da  Hybris (“A Cosa ci Serve”, “Maria Antonietta”, “Troia”) e Cavalli (“Copernico”).

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A chiusura di tutto, sono queste le serate che danno risposta agli enormi quesiti che ci attanagliano nel corso della nostra esistenza. E la risposta è che non esiste una risposta. Le cose accadono e basta, il perché sono tutte cazzate. Le cose accadono e ci siamo noi, piccoli o grandi a seconda dei giorni, a doverle affrontare. A volte ne usciamo campioni, a volte ne usciamo presi a calci in culo. Tutto sta nel come affrontare tutto. E se dovesse capitarti l’assurda domanda: “qual è il senso di tutto”, stai tranquillo che non esiste un senso. Esistono però momenti, o giorni (a seconda della botta di culo che ti capita), in cui qualcosa dentro di te si muove, qualcosa ai limiti della rabbia e a confine con la gioia. Che sia odio o che sia amore chi se ne frega. Se qualcosa si muove vuol dire che sei vivo, e finché sei vivo sei sempre in tempo a cambiare musica. Nessuna esistenza è sprecata se hai ascoltato la musica giusta.

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Swans 9/10/2014

Written by Live Report

Era di certo uno degli eventi musicali più attesi il mini-tour degli Swans di Michael Gira e lo dimostra il sold-out al circolo degli artisti di Roma. A Torino il concerto si è tenuto al’Hiroshima Mon Amour, il 9 ottobre. Alle dieci e mezza, puntuale, comincia lo show. Gli Swans si palesano in tutta la loro grandezza con due ore e mezza di concerto interrotto solo da brevissime pause. Due ore e mezza di inquietudine e violenza emotiva, di fronte alle quali non tutti riescono a resistere; c’è chi sente la necessità di assumere dosi massicce di caffeina, chi si lascia tentare dall’annuncio di Michael Gira circa l’imminente fine del concerto e lascia prematuramente il campo di battaglia, senza sapere che il live sarebbe durato ancora una buona mezz’ora. Anche Cristiano Godano (o il suo sosia n.1, nel caso avessi preso un abbaglio) ad un certo punto si dissolve varcando l’uscita prima della fine.

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Un concerto che ha messo a dura prova in molti, tranne loro, gli Swans, che dopo più di due ore di ritmi serrati si sono schierati davanti al pubblico con una nonchalance degna di nota; hanno ringraziato, senza mostrare cenni di stanchezza o cedimento, con addosso addirittura la voglia di scherzare, quando Gira per la presentazione della band conferisce ad ognuno un nome italiano, di un musicista o del tutto anonimo, riservando per sé stesso quello di Cicciolina.

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Ma tralasciamo gli aspetti di contorno, e concentriamoci sulla musica di questi “Cigni” selvatici, più neri che bianchi, dai toni scuri e oscuri, autori di una musica ricca di tormento, capace di rimanere ferma, immobile, costante, ossessiva per un lungo periodo, per poi esplodere all’improvviso (si pensi che solo l’introduzione del concerto dura più di dieci minuti, prima che la band al completo si manifesti sul palco). E quando parlo di esplosioni, parlo di momenti in cui tutto si accentua e diventa estremo (penso soprattutto al ritmo incalzante della doppia batteria), pur mantenendo un inspiegabile equilibrio tra le parti. I momenti di deflagrazione sono anche quelli in cui Gira accenna una sorta di danza, con movimenti delle braccia che ricordano proprio quelli di un cigno.

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Un’esibizione che richiede una certa dose di preparazione psicologica e concentrazione per l’ascolto (gli occhi di Michael Gira ne sono l’emblema, restano chiusi per la maggior parte del tempo), alla quale in molti non erano preparati. Un concerto, però, non è certo un corso di preparazione all’ascolto; un concerto è il momento più vero e reale per addentrarsi nel mondo di un artista, per capire quanto sia autentico e vicino nella realtà all’idea che trasmette di sé, nonché la prova del nove per le nostre sensazioni ed emozioni che si evidenziano durante l’ascolto digitale. E dopo questo spettacolo non c’è più niente da fare, se non affermare che gli Swans sono stati sé stessi, dall’inizio alla fine.

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Ponda – Vinavil

Written by Recensioni

0882 è il prefisso telefonico di quella parte della provincia di Foggia che ha a che fare con santi, laghi salati, isole al largo del mediterraneo e piccoli borghi ad alto consumo di Birra Peroni. La 0882 Fam è quella invece citata sulla copertina Vinavil, ultimo disco di  Ponda, un lavoro autoprodotto, registrato e missato dove capita, prodotto grezzo e genuino, come specificato sul retro della copertina. Vinavil, la colla vinilica che tutti almeno una volta nella vita si sono spalmati sulle dita per poi tirarla via, come una pelle che ormai non ci appartiene più; Vinavil, l’adesivo universale inodore, che poi in realtà un odore ce l’ha, e credo sia rimasto impresso nella mente di molti. I riferimenti al Sud ed alla Puglia in particolare sono tanti, a partire già dall’“Intro”, dove a tratti fa capolino l’inconfondibile voce di Lino Banfi; ma l’elemento distintivo principale  di questo prodotto made in Sud è l’utilizzo del dialetto come forma espressiva nella quasi totalità del disco, cosa che caratterizza enormemente il lavoro ma che rischia di renderlo incomprensibile al di fuori del territorio locale. Tuttavia questo non sembra essere un problema per Ponda, che per la sua musica ed i suoi testi sembra non aver bisogno di sottotitoli.

Il disco scorre, e score bene; dalla prima all’ultima traccia (“Roosh Roosh”) Ponda crea un flusso, un unico fiume di suoni senza interruzioni, dove però trova comunque il modo, tra uno scratch ed un finto inserto pubblicitario di promozione del disco, di cambiare ritmo e “musica”. I racconti sono quelli di una terra in cui chi resta, e resta per fare musica, tra milioni di difficoltà da superare, ha anche l’arduo compito di confrontarsi con chi gli chiede “ma quando la finisci”?  Un disco semplice, nell’eccezione buona del termine, senza troppi fronzoli, “genuino”, per prendere in prestito le parole di Ponda; un disco che parla di vita vissuta, in un territorio difficile, in un posto dove a detta di molti non si produce musica, ma i fatti di tanti dimostrano il contrario.

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Gelfish – Hungry

Written by Recensioni

Sarà che sono le tre di notte. Sarà che non sto per andare a dormire. Sarà che mi sono appena svegliata dopo tre ore di sonno. Sarà che sono le tre di notte, sono affamata (hungry) e sono anche folle, ma non quella sana follia che tanto acclamava il buon vecchio Steve Jobs. Sono follemente incazzata. Ed è per questo motivo che sono attratta da questo titolo: Hungry, e decido di scegliere i Gelfish come colonna sonora di quest’alba anticipata, di questo risveglio forzato. Hungry (letteralmente affamato  e Angry, la sua pronuncia, letteralmente arrabbiato, per l’appunto) – Ep d’esordio della band di Pescara – arriva infatti a stuzzicare, amplificare ed infine esorcizzare le sensazioni di incazzatura cosmica del momento. Sulla copertina del disco, disegni essenziali su uno sfondo total black, un bambino riccioluto rimane a guardare la rabbia che viene fuori da un televisore vecchio stile. Ci rimane davvero allora così poco? Ci resta solo restare a guardare questa rabbia uscire dagli schermi delle nostre esistenze ed invadere le nostre case, le nostre vite, i nostri pensieri?

Premo play ed il suono rauco di un basso, subito raggiunto dalla batteria, introduce  “Inside the Everything”, pezzo potente che fa tanto affidamento su voce ed effetti vocali nel tentativo di far valere il concetto di rabbia che è filo conduttore dell’intero disco. Ed proprio l’utilizzo che si fa della voce uno degli aspetti più ricorrenti in tutto l’Ep. Infatti “No Power No Resposability” segue la stessa scia della precedente “Inside the Everything”, anche se chitarre e distorsioni hanno un ruolo maggiore.  “Night of the Living Dead” alterna parti più cariche di ritmo a parti più lente, un’antitesi che rievoca il concetto di vita e morte del titolo. “Arkham Asylum” chiude il disco, e lo fa in una maniera perfettamente in linea con i pezzi precedenti, senza apportare particolari variazioni o colpi di scena.

Hungry è il disco d’esordio dei Gelfish, un esordio che a mio parere non stupisce particolarmente, ma che ha comunque i presupposti per diventare qualcosa di più accattivante, basta forse solo arrabbiarsi per il motivo giusto e nel modo giusto.

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Kaleidoscopic

Written by Interviste

Ciao ragazzi, cominciamo dall’inizio. Chi sono i Kaleidoscopic, e cosa hanno a che vedere con quell’apparecchio ottico capace di generare svariate forme geometriche grazie ad un sapiente gioco di riflessioni?
Kaleidoscopic sono un gruppo rock di Arezzo composto da Fabio Meucci, Marco Ciardo, Francesco Magrini e Francesco Mazzi. Il nostro nome, che ha poco a che fare con il concetto di psichedelia tanto di moda in questo momento, è nato dal nostro bisogno di poter suonare musica senza dover necessariamente rispettare alcun “genere” o “filone”. Di fatto Onironauta, il nostro disco, è il prodotto delle molteplici influenze e sfaccettature che ci caratterizzano. Crediamo che sia vario e non facilmente etichettabile, vogliamo pensare che nel far musica ognuno debba essere libero come lo siamo stati noi nel creare Onironauta. Kaleidoscopic, in questo senso, era il nome più adatto perché crediamo i nostri pezzi abbiano forme, colori e sfaccettature diverse uno dall’altro.


Il vostro album d’esordio ha il suggestivo titolo Onironauta, traducibile con “sognatore consapevole”. C’è anche un significato nascosto dietro al titolo che avete scelto? Quale?

Per dare un indizio direi che c’è un percorso d’ascolto che tocca temi di vita comune, che vengono raccontati dall’aspetto superficiale fino ad uno stato di introspezione più profondo. L’Onironauta è il protagonista che compie un viaggio per ogni singolo aspetto, riuscendo a coglierne il vero significato e a vivere l’insieme delle sfaccettature della vita come esperienza anche interiore. Il percorso lo si può intuire facilmente ma è un segreto (ride ndr)


Il vostro album è un cocktail di sonorità oscure e rumorose, a tratti epiche, senza dimenticare ritmo e melodia. Quanto è stato influenzato il sound da Nicola Manzan (Bologna Violenta), che ha lavorato al disco come produttore artistico e arrangiatore? Come sarebbe stato Onironauta senza Bologna Violenta?

Nicola Manzan è un musicista professionista che abbiamo conosciuto suonandoci insieme. Da lì è nato un profondo sentimento di rispetto, ammirazione ed amicizia che ci ha condotto ad incrociare le nostre strade lavorando insieme. Nicola ha notevoli capacità in fase di arrangiamento e un gusto musicale che ci ha entusiasmato: insieme a lui siamo riusciti a mantenere un “tiro” costante in tutti i pezzi e a lavorare in funzione del risultato finale. Di fatto abbiamo imparato a guardare una canzone nella sua omogeneità, musica e testo, che devono uscire come una cosa sola. Abbiamo messo da parte virtuosismi lavorando esclusivamente sull’atmosfera e il messaggio che ogni singolo brano avrebbe dovuto trasmettere e il risultato ci ha entusiasmato: crediamo che Onironauta sia un buon disco e quantomeno era quello che volevamo, come lo volevamo. Nicola non ha stravolto nulla ma ci ha aiutato a indirizzare il disco nella giusta direzione. Del resto abbiamo imparato più in un mese di lavoro con lui che in molti anni a suonare in un garage. Un esperienza che ci ha lasciato tantissimo, dal punto di vista artistico e soprattutto umano. Onironauta senza Nicola? Sarebbe uscito ugualmente, molto simile ma sicuramente.


Per l’esordio avete scelto (su indicazione di Manzan) di passare alla lingua italiana. Qual è stato il vero motivo di questa scelta? Quanto questa è da ritenersi una necessità per essere apprezzati dal pubblico della penisola visto che in pochi sono riusciti a crearsi un buon seguito puntando su altri idiomi o sullo strumentale?

La scelta di cantare in italiano è stata una nostra esigenza appoggiata, in primis, dallo stesso Nicola. Arrivati al punto dove eravamo sarebbe stato impossibile trasmettere certi concetti, messaggi senza l’utilizzo della nostra lingua. Vogliamo che la gente possa ascoltare e magari riflettere anche solo un secondo su quello che vogliamo dire, cosa che sarebbe stata impossibile cantando in inglese. Siamo un gruppo che fa rock ma che vuol suonare per trasmettere un qualcosa, non cerchiamo e non abbiamo mai cercato di far canzoni con l’intento di mettere allegria attraverso versi senza contenuto, canticchiabili e magari rendendoli “danzerecci” con una buona base musicale. Quello lo lasciamo ad altri. L’ intento dei Kaleidoscopic è tutt’altro e pensiamo che ascoltando Onironauta, il nostro impegno in questa direzione, sia chiaro.


Quanto è importante il testo e la sua comprensione all’interno dei vostri brani e quanto è rilevante nella musica contemporanea?

Il testo ha un’importanza fondamentale perché è tramite questo che possiamo comunicare chiari concetti ma è solo grazie agli altri strumenti che queste parole possono impattare sul lato più profondo dell’animo umano creando la musica appunto. Si può comunicare anche solo con le note ma le parole durante un concerto possono essere un grande aiuto per entrare in contatto con il pubblico. Oggi come sempre nella musica le parole sono usate con una importanza molto variabile. Più che altro c’è da dispiacersi di come proprio nei generi più ascoltati e con audience colossali non si usino le parole per parlare di cose più profonde ribelli o nuove. Solite situazioni, falsi problemi e ultimamente sempre più spesso false soluzioni. E pensare che con la musica si potrebbe cambiare il mondo…


C’è qualche aneddoto o curiosità riguardante Onironauta che vi va di raccontare?
Durante la composizione di Onironauta ne sono successe tante di cose. Le migliori la sera: finite le sessioni di registrazione Nicola Manzan ci allietava, fino a notte fonda, con canzoni di cantanti neomelodici (di cui è un grande fan). A forza di ascoltare ci siamo appassionati anche noi e, tutt’ora, ci informiamo e ci scambiamo  brani, cercando di rimanere sempre aggiornati sui nuovi tormentoni. Vi diciamo solo che Fabrizio Ferri è davvero il nostro nuovo idolo.


Racchiudere le note dentro generi e definizioni è feticismo da giornalisti più che strumento utile alla comprensione dei brani. Come descrivereste la vostra musica senza usare paletti come Noise, Alt Rock, Stoner o simili?
Come già dicevamo la nostra musica è essenzialmente rock, un rock caratterizzato da suoni duri e distorti. Ci piace aver sempre ben presente una certa energia, soprattutto live, da poter convogliare verso il pubblico. Gli alti volumi e dosi massicce di sudore sono due cose che ci caratterizzano. La nostra musica non fa parte di niente e non è di nessuno, è libera come lo siamo noi, ognuno può ascoltarla e trovarci dentro quello che più gli piace o non piace.


Il Tour promozionale di Onironauta ha ormai toccato diverse tappe. C’è un’esibizione live che ricordate particolarmente? C’è un elemento al quale date maggiore importanza nelle vostre esibizioni live?
Sicuramente per essere una band emergente con poco seguito, al momento, come è logico che sia abbiamo fatto diverse date che, ognuna per motivi diversi, ci ha davvero caricato. Quindi una data che ricordiamo in particolare non c’è, ci teniamo solo a ringraziare tutte le persone che ci hanno permesso di poterci esprimere e tutte quelle che lo faranno in futuro, perché i Kaleidoscopic come mille altri gruppi validissimi hanno bisogno di poter suonare live davanti a delle persone. Fare dischi è stupendo ma la band vera e propria si riesce ad apprezzare solo quando è sopra al palco, secondo noi. Per quanto riguarda le performance cerchiamo sempre di dare il 150%, cercando di far arrivare al pubblico il messaggio che vogliamo dare, come detto precedentemente. Per noi non fa differenza suonare davanti a 10,100,1000 persone, è di vitale importanza che la gente sia attirata da quello che diciamo e che riesca a rimanere attenta durante la nostra esibizione. È la cosa che più ci rende contenti.


C’è un brano del vostro disco che ho trovato di una bellezza disperata e straziante. Da dove arriva “Sensitivo”?
Sensitivo è un pezzo che sento molto vicino. Parla di come un uomo quando si ferma ad osservare la realtà della vita finisca per accorgersi della sua assurdità e di impulso ne reclami una ragione. E’ da questa disperazione che può e deve nascere la voglia di esplorare il lato più profondo della nostra coscienza per dare il giusto senso a tutto e tornare a vivere da soddisfatti padroni del proprio destino. Ma nulla può essere appreso se non tramite i sensi . Usarli è il miglior modo per cogliere e capire l’assurdità del sistema in cui viviamo e di conseguenza le menzogne che ci circondano.


Siamo alla fine dell’intervista, vi ringrazio, e per concludere vi chiedo di parlarci dei vostri progetti futuri.
I nostri progetti futuri sono poter riuscire a suonare Onironauta il più possibile in giro perchè, come dicevamo, la dimensione live è troppo importante per una band emergente. In seguito vedremo cosa ci riserverà il futuro.

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La tradizione che rivive al suono di una chitarra.

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Two Fates – /tree

Written by Recensioni

Chi crede che il Fato abbia a che fare con l’essere sottoposti a volontà ignote che appaiono casuali  quando in realtà non lo sono, ma guidano il susseguirsi degli eventi secondo un ordine non modificabile, sarà d’accordo con me che probabilmente non è un caso nemmeno il fatto che il destino dei Two Fates, duo elettro-acustico composto da Loredana Di Giovanni (LorElle) e Giuliano Torelli (Tiresia), li abbia portati a percorrere insieme la strada della musica. Probabilmente non credono nemmeno loro alla casualità dell’evento, vista la scelta del nome del gruppo. Il loro primo EP porta il titolo di /tree, un albero che affonda le radici nella terra della conoscenza e nell’esperienza in ambito musicale, ma che ha le fronde e lo sguardo rivolti verso un cielo ed un futuro ricco di sperimentazioni. Più che di un albero, si tratta di una foresta di suoni, capace di evocare le atmosfere magiche e surreali che ruotano attorno al mondo della Natura. Tecnicamente, il segreto di questa moltitudine sonora, sta nell’utilizzo della Two Fates’ Machine, una “macchina” assemblata dallo stesso duo, che senza l’utilizzo di basi precostituite, permette di registrare al momento stesso dell’esecuzione le varie parti che compongono i brani e di assemblarle in tempo reale. È chiaro quindi che l’ascolto di /tree possa assumere ancora più valore durante le esibizioni live.

L’evocazione al mondo della natura e all’alone di mistero che l’avvolge è chiara già dalle prime tracce del disco, “Blu” e “Verde”; la prima, del colore del cielo, si eleva sempre più in alto verso una serie di inquietudini in un crescendo sia di tonalità che di suoni che si vanno aggiungendo man mano; la seconda invece si lascia trasportate principalmente dalla voce di LorElle e si compone di suoni che richiamano atmosfere decisamente più calme. Con “My Story Is not My Destiny” subentra la lingua inglese; la protagonista è ancora la voce di LorElle che traccia la melodia sulla quale si articolano i suoni elettronici caratteristici del duo. “Il Sogno, l’Addio” è il brano che meglio esprime le caratteristiche principali dei Two Fates, dal richiamo a dimensioni surreali, alla predominanza dell’Elettronica, alla realizzazione di testi di un forte impatto emotivo, (che in altri pezzi perdono però di intensità), alla forte presenza vocale della cantante. “It’s the Rain”, secondo brano in inglese è ancora una chiara evocazione alla Natura, che avviene stavolta in modo palese introducendo suoni come quello della pioggia al quale si intrecciano le sonorità elettroniche caratterizzanti il duo. “Sangue”, il brano a chiusura del disco, si differenzia dal resto con l’introduzione di un ritmo “spagnoleggiante” portato avanti da chitarre acustiche.

Se di esordio vogliamo parlare (anche se questo è il loro primo EP, il duo è impegnato da anni nel mondo della musica, durante i quali ha privilegiato maggiormente le esibizioni live) quello dei Two Fates è sicuramente degno di nota. Un buon inizio che inizio non è, vista l’esperienza di entrambi i componenti. Comunque sia andata, mi voglio fidare del proverbio che dice chi ben comincia è a metà dell’opera. Per la seconda metà dell’opera, non possiamo far altro che aspettare il loro prossimo lavoro.

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Nicola Manzan (Bologna Violenta)

Written by Interviste

Sta girando l’Italia in lungo e in largo per il tour legato al suo ultimo album. Si porta dietro un’esibizione live dal forte impatto emotivo. Dopo aver partecipato al concerto tenutosi a Torino, era inevitabile porsi delle domande su Uno Bianca. A domande fatte, Bologna Violenta (Nicola Manzan) risponde. Eccovi serviti.

Ciao Nicola, cominciamo dal principio. Com’è nata l’idea di Uno Bianca? Voglio dire, in Italia purtroppo si sono verificati un gran numero di fatti di cronaca nera. Come mai la scelta degli avvenimenti legati proprio ai fratelli Savi?
La scelta è ricaduta su questi fatti perchè si sono svolti in larga parte a Bologna e provincia (per quanto la banda abbia operato anche lungo la costa adriatica fino a Pesaro). Volevo fare un disco su Bologna, un po’ come era successo nel 2005 con il mio primo album. Lì era più una questione di istinto, di sensazioni trasformate in musica, filtrate attraverso l’immaginario dei film poliziotteschi degli anni Settanta (ma con sonorità moderne, ovviamente). Qui il lavoro è stato diverso, sentivo il bisogno di raccontare Bologna, ma volevo farlo partendo da una storia vera che secondo me ha sconvolto e cambiato sotto molti aspetti la città di Bologna e le persone che ci vivono.

Ti sei dovuto documentare molto per la realizzazione di questo album? Di che tipo di materiale ti sei servito per poter riscrivere in musica questa storia? Hai trovato difficoltà nel reperirlo?
Ho cominciato ad interessarmi a questa storia una decina di anni fa e quando mi sono messo al lavoro per scrivere e registrare il disco mi sono reso conto di avere parecchio materiale utile senza dover impazzire per reperire molte altre informazioni. Tengo anche a precisare che il mio intento è sempre stato, fin dall’inizio, quello di “sonorizzare” i peggiori crimini della banda, quindi la cosa fondamentale per me era capire come si erano svolti i fatti per poter poi creare una sorta di sceneggiatura che sarebbe diventata la struttura del pezzo. Quindi mi sono concentrato più che altro sulla ricerca di libri o documenti con fonti attendibili che raccontassero cos’era successo (o cosa si presume possa essere successo) e poco altro. Non mi è mai interessato affrontare tutte le questioni e le ipotesi riguardanti le azioni della banda (qui le teorie si sprecano), per me l’importante era mettere in musica dei momenti di follia e terrore.

Nelle tue esibizioni live di Uno Bianca la musica è accompagnata da immagini, scritte e video  essenziali, molto diversi da quelli che accompagnano le esibizioni dei tuoi precedenti pezzi. Una formula che aiuta a descrivere i fatti e a meglio comprendere la tragicità degli eventi, senza però far passare in secondo piano la musica. Più che un concerto i tuoi live sono una sorta di esperienza multisensoriale dal forte valore emotivo. Ci racconti com’è nata l’idea di un live di questo tipo?  
Devo innanzitutto dire che avrei voluto avere i visual anche per i tour precedenti, ma alla fine per un motivo o per un altro (a dire la verità sono tantissimi fattori messi insieme) non sono mai riuscito a mandare in porto questo aspetto dei live. Per questo disco, però, la questione “visual” non poteva essere ignorata. Non a caso anche nel disco si trova una guida all’ascolto in cui vengono raccontati i vari episodi, dando così la possibilità all’ascoltatore di poter capire cosa stia succedendo a livello musicale. Quindi ho deciso di creare un video per ogni pezzo del disco, ma non volevo fare dei videoclip veri e propri (anche perché le immagini di repertorio non sono comunque moltissime), mi interessava più che altro raccontare attraverso poche immagini, poche parole e alcuni simboli ricorrenti (come i flash degli spari e le croci). Se non ci fossero i visual penso che nessuno capirebbe cosa sto facendo durante i concerti, i pezzi sarebbero fini a se stessi e ci sarebbe addirittura il rischio che venissero ascoltati con le stesse “intenzioni” di quelli dei dischi precedenti, dandone una interpretazione grottesca e quindi sbagliata. I video della seconda parte del concerto (i cui suono appunto pezzi presi dai dischi precedenti) sono addirittura spesso più truci di quelli di Uno Bianca, ma tutto sommato vengono vissuti con più leggerezza dalla gente.

Uno Bianca è stato oggetto di critiche per una sbagliata interpretazione dei tuoi intenti; se ne è parlato molto sul web. Te l’aspettavi una cosa del genere? Cosa hai pensato quando hai letto l’articolo in questione su “Il Resto del Carlino”?
Ho pensato che a questo mondo non c’è proprio speranza… L’articolo (quello che ho condiviso su Facebook è solo uno dei tre usciti anche sul cartaceo) è stato scritto dopo essere stato un’ora al telefono con uno dei loro giornalisti a cui ho spiegato per filo e per segno tutto di me, del mio progetto e di quello che ho fatto nella vita, giusto per non lasciare delle zone d’ombra. Però niente da fare, evidentemente avevano già deciso tutto prima di contattarmi e nonostante io abbia mandato il disco alla redazione del giornale, è palese che l’articolo fosse in pratica tutto già scritto prima ancora di contattarmi. Come è palese che nessuno ha ascoltato gli mp3 che ho mandato. Questi articoli poi hanno sollevato degli strascichi di polemiche molto fastidiose, a dirla tutta. Io ho solo raccontato in musica una storia, ma evidentemente questa cosa non si può fare. Davvero non capisco.

Questa è una domanda personalissima, o forse no. Nelle tue produzioni musicali ti sei quasi totalmente discostato dal concetto di “canzone”. In Uno Bianca i testi sono quasi del tutto assenti. Tuttavia ho sempre avuto difficoltà a scollegare totalmente la tua musica dalle parole, perché non immagini la quantità di parole che viene fuori dalla mia penna dall’ascolto di Bologna Violenta. Come la mettiamo con questo aspetto della tua musica?
Eh… bella domanda… Penso che il tutto nasca dal fatto che sono cresciuto con la musica classica, soprattutto quella sinfonica e da camera (quindi molto poco cantata) e non sono mai stato molto legato ai testi delle canzoni. Mi sono sempre perso nell’ascolto dei suoni più che nel capire il significato dei testi. Quando devo fare musica mia non mi viene mai l’idea di metterci una voce o un testo per così dire “tradizionali”. Non amo cantare (e non riesco a ricordare i testi delle canzoni), ma mi piace mettere delle piccole parti parlate per dare un senso più compiuto a ciò che sto cercando di comunicare (vedi ad esempio “Morte” o “Maledetta del Demonio). Nell’ultimo disco ci sono poche parole, ma c’è la guida all’ascolto che è comunque una parte fondamentale dell’intero lavoro. Come dire, di testi ce ne sono, a volte sono poche parole, ma devo dire che spesso celano dei mondi molto più grandi di quello che può sembrare. Forse è semplicemente perché nella vita tendo ad essere logorroico, quindi nella mia musica cerco di essere sintetico.

Forse è troppo presto per parlare di bilanci, Uno Bianca è uscito da poco e tu sei a metà del Tour di promozione. In ogni caso, te la senti di dirci come sta andando? Si tratta di utopie o di piccole soddisfazioni?
Penso di poter tranquillamente parlare di grandi soddisfazioni. Il disco, pur nella sua complessità, piace molto alla gente e i concerti sono un momento molto forte, in cui il pubblico se ne sta in silenzio per quasi un’ora a guardare con attenzione e a subire la violenza che esce dall’impianto. Spesso a fine concerto scattano dei lunghi applausi a cui non sono davvero abituato e questo mi fa pensare di aver fatto un buon lavoro, che nonostante sia lontano da quello che la gente ascolta normalmente, riesce comunque ad arrivare al cuore di è presente al concerto.

C’è un’esibizione live che più ti ha emozionato finora o alla quale tieni particolarmente?
Questa è una domanda difficile… Ogni data è speciale per molti motivi e devo dire che questo tour mi sta portando anche in posti dove non avevo mai suonato, trovando un forte riscontro di pubblico anche nelle serate nei posti meno tradizionali. Le prime date, quelle all’interno del Woodworm Festival sono state molto impegnative da un punto di vista emotivo, almeno per me, visto che non sapevo assolutamente cosa avrebbe recepito il pubblico e se sarebbe piaciuto il nuovo spettacolo.

Rileggendo una tua intervista di un paio d’anni fa su Rockambula, ho sorriso di fronte alla tua risposta alla domanda “La tua paura più grande?” (Cito:  Ho paura che tutto possa cambiare da un momento all’altro e dover ripartire. Di nuovo (…) Vorrei un po’ di tranquillità). Sei riuscito a trovare la tranquillità che ti eri augurato qualche tempo fa?
Ricordo quell’intervista e ad oggi non mi sembra che le cose siano molto cambiate. C’è da dire che sto lavorando molto, quindi il periodo è assolutamente positivo, ma ho anche capito che quel tipo di tranquillità che ricercavo un paio di anni fa non è ancora così vicino come pensavo. Però molte cose sono cambiate nel frattempo, ho un’idea più chiara di chi sono e di cosa voglio e posso fare nella vita, quindi sono più tranquillo da questo punto di vista. Mi sono anche reso conto che le ripartenze fanno parte della mia vita (e penso anche di quella di molti), quindi ogni volta vado avanti senza pensare troppo al passato o a quello che è stato e cerco di dare il meglio ogni giorno.

Hai già nuovi programmi per il “post” Uno Bianca? Ci sono già dei progetti futuri in ballo?
Ho sempre molte idee che mi girano in testa, e sto anche pensando al “post” Uno Bianca, ovviamente. Attualmente sono impegnato su parecchi fronti, collaborando con vari artisti come arrangiatore, violinista o produttore, quindi tra il tour e questi vari lavori non ho molto tempo per pensare al futuro di Bologna Violenta, ma sto già cominciando a raccogliere materiale per quello che potrebbe essere il prossimo disco.

Grazie mille Nicola. Per concludere, c’è qualcosa che non ti ho chiesto, alla quale ti sarebbe piaciuto rispondere?
Grazie mille a te per lo spazio che mi hai concesso. Tengo solo a precisare che non uso synth e tastiere varie per ricreare il suono degli archi. Faccio delle lunghe session di registrazione in cui registro tutti gli strumenti. Giusto perché qualcuno parla di “tastiere” riferendosi agli archi…

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Bologna Violenta 15/03/2014

Written by Live Report

Il 15 marzo era una data che aspettavo da molto tempo; da almeno due anni infatti (a meno che la memoria non mi faccia brutti scherzi) Nicola Manzan alias Bologna Violenta non si faceva vedere da queste parti. A dare un ulteriore valore a questo week-end si è aggiunta, inoltre, la visita inaspettata in uno special guest ti tutto rispetto con il quale ho il piacere di avere in comune parte del patrimonio genetico, ma questa è un’altra storia. Come spesso accade mi trovavo al Blah Blah, ed il pubblico che animava i portici e l’interno del locale, quella sera, era davvero molto variegato: abbigliamenti “normali” affiancati a look sovversivi da pirata, con comparse sporadiche di chiome dal colore cangiante, dal blu elettrico al rosso vivo.

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Mi sento comunque di dire che il colore predominante era il nero, nella sua variante di nero con borchie. Anch’ io per l’occasione ho deciso di sfoderare il mio finto pellame da combattimento lasciando però le borchie a casa; non avrei mai voluto esagerare con la sobrietà. Tra i look “estremi” che mi circondano, vince il primo premio quello del tizio capellone e cotonato che mi ritrovo davanti durante il concerto, e che per l’occasione ho deciso di ribattezzare “Mufasa” (chi come me ha passato parte dell’infanzia a piangere durante la visione del Re Leone sa di cosa parlo). Il concerto è aperto dai Seitanist, ma l’attesa è tutta per Bologna Violenta che presto si palesa sul palco carico di strumenti accompagnato da Nunzia, carichissima anche lei. Un brevissimo soundcheck  per Nicola, e poi subito si riparte.

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Uno Bianca, l’ultimo album di Manzan, viene suonato per intero, senza interruzione: 27 brani di pura violenza emotiva per raccontare uno dei peggiori fatti di cronaca nera avvenuti in Italia, accompagnati da immagini di repertorio, video di quegli anni e scritte essenziali che meglio aiutano a descrivere i fatti e a comprendere la tragicità degli eventi. Si tratta di video minimalisti, essenziali nella loro forma, di contorno alla vera protagonista che rimane sempre e comunque la musica, che da sola riesce davvero a narrare e ad esprimere tutta l’angoscia, la violenza ed il terrore legato a quegli anni tristissimi. Terminata la performance legata ad Uno Bianca, Manzan procede con alcuni pezzi memorabili tratti dagli ultimi suoi due album; in questo caso i video di accompagnamento alla musica si fanno decisamente più espliciti sia nelle immagini che nei contenuti (Manzan non ti perdonerò mai per avermi fatto assistere alla decapitazione di un toro! Sappilo!). Terminato il concerto, Mufasa ed il suo branco assalgono BV con le loro domande. Io passo a salutare Nunzia nell’area “merch” e subito dopo raggiungo anch’io il mio branco. Mentre mi perdo in un interminabile monologo interiore di cui questo live report è figlio, penso che stavolta Manzan abbia superato sé stesso dando vita non solo and un album degno di nota, ma mettendo in scena un vero e proprio “spettacolo” dal forte valore emotivo, capace di coinvolgere anche i meno amanti del genere; un qualcosa che va oltre un semplice concerto, e che è legato in qualche modo col concetto di Memoria, per non dimenticare ciò che è stato, per fare in modo che non accada più.

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Antonio Allegro – Black Tuff

Written by Recensioni

“Panta Rei”. Tutto scorre. È questa la traccia iniziale, l’incipit di Black Tuff, il primo album del musicista e compositore Antonio Allegro; un concept che narra i primi trent’anni di vita dell’artista. “Panta Rei”. Tutto scorre. È impossibile non tornare con la mente ai tempi del Liceo, quando la teoria del Divenire di Eraclito mi faceva riflettere sul continuo e perpetuo mutamento delle cose, del loro perenne nascere e morire. Sarà questo moto perpetuo a condurmi verso la scoperta della vita di un uomo, del quale non so nulla, e del quale dovrei sapere molte cose arrivata alla fine dell’ascolto? Racchiudere trent’anni di vita in un disco, lo ammetto, mi sembra un progetto alquanto ambizioso, ma intrigante allo stesso tempo. Lascio il freno della ragione, accelero con l’immaginazione e premo play.

Una chitarra sinuosa che pizzica a tratti le note del Blues, mentre scrosci d’acqua e percussioni le fanno da sottofondo: è questa “Panta Rei”, il vagito iniziale del disco, un’introduzione strumentale che dice già molto sulla qualità di ciò che sto per ascoltare. È da qui che ha origine tutto. Il vagito si trasforma subito in voce possente con “Madness of Metropolis”, pazza come il titolo che si porta dietro, come la metropoli che descrive; è qui che si alternano momenti di lentezza e malinconia Blues a lunghi assoli estremi e deliranti.  Le tonalità Blues si perdono nella violenza emotiva di  “Violence is Cold” che si apre ad un Rock più duro al quale però non riesce a stare dietro con la voce, decisamente più adatta per altre sonorità, come quella di “Like a Jewel”, perfetta negli arrangiamenti e nella melodia malinconica, estremizzata da assoli di chitarra struggenti. “Goodbye” è leggera, come l’ arrivederci di chi parte in punta di piedi per non fare rumore e sente già la mancanza di ciò che ha lasciato dopo il primo passo; è il sassofono che stavolta  entra in campo a dar voce a questa tristezza. Sembra esser questo il sentimento prevalente nel disco (e nella vita di Allegro) a partire da questo momento; in “Come Down” si arrivano a sfiorare sonorità Jazz, mentre un senso di confusione e frustrazione sono accentuati in “I’m Not Here”, dove il suono si frammenta in irregolarità deliranti. “In or Out”, strumentale, è invece di passaggio tra l’inquietudine dei pezzi precedenti e la serenità di “She Saved Me”, ballata d’amore per chitarra e voce, segno di una ritrovata felicità. “Punchinello’s Moonlight”, il chiaro di luna di Pulcinella, è il pezzo strumentale che chiude l’album, o che comincia una nuova storia, in virtù di quella famosa teoria del Divenire, del nascere e morire, per poi magari rinascere ancora.

È stato interessante viaggiare nella musica e nella vita di Antonio Allegro. A volte è stato semplice entrare nei suoi stati d’animo, a volte un po’ meno; sempre e comunque ho trovato una chitarra come valida compagna durante questo percorso. Credo sia la stessa che abbia accompagnato lui durante il suo.

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Gallo de Panama. Il Musical inedito made in Puglia.

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“Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati.”
“Dove andiamo?”
“Non lo so, ma dobbiamo andare.”
Jack Kerouac – On the Road

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Mi arrivano sempre come uno schiaffo in faccia queste parole di Jack Kerouac; uno di quegli schiaffi che non nascono per ferire, ma piuttosto per scuotere gli animi assopiti ed intorpiditi. Partire e non fermarsi, senza sapere esattamente quale sia la destinazione del viaggio, presuppone una massiccia dose di sana follia ed una vagonata di coraggio che a volte è difficile trovare. Eppure sono ingredienti fondamentali per intraprendere un nuovo cammino, per cominciare un nuovo progetto e per capovolgere una volta per tutte il bicchiere anziché limitarsi a decidere se  sia mezzo pieno o mezzo vuoto. Sono certa che i sentimenti sopra descritti siano gli stessi che hanno permesso il viaggio di Maner Brivèl, uno dei protagonisti di Gallo de Panama, il Musical interamente inedito concepito in Puglia, sul Gargano, che nasce grazie ad una fitta rete di collaborazione tra giovani professionisti locali ed alla condivisione delle loro competenze in materia di musica, danza e teatro; non si tratta di una semplice condivisione di passioni e mestieri, ma di una vera e propria sfida a trasformare tutto questo in progettualità per il territorio. A mio avviso, sana follia e coraggio sono anche una prerogativa di chi ha deciso di produrre Gallo de Panama (produzione condivisa che vede come capofila il MAD – Music Art Doing di Mattinata), che ha puntato e creduto alla realizzazione di un Musical interamente inedito per i suoi contenuti, per la sua storia, i testi, le musiche, i costumi, la scenografia e chi più ne ha più ne metta. Era da anni che in Italia qualcuno non si assumeva una tale responsabilità e non rischiava così tanto in nome dell’originalità di un progetto. Prima ancora che ai produttori però, il “Gallo” deve la vita a Michele Bisceglia, autore dei testi, delle musiche, delle liriche e della storia che viene narrata. È prima di tutto nella sua mente che il viaggio di Maner ha inizio.

Figlio di una nota famiglia di armatori bretoni, Maner Brivèl decide, dopo gli studi, di tentare la  sorte provando a misurarsi con il Mare. Dopo aver ottenuto da parte dei suoi finanziatori la possibilità di  navigare a capo di un’ imbarcazione tutta sua, la Luisita, in cambio della promessa economica di creare una nuova rotta commerciale tra la Francia e le Americhe, si imbarca dirigendosi verso Ovest. Comincia così il viaggio di questo moderno Ulisse, che non avrà però nessuna Penelope ad attenderlo al suo ritorno; la bella Lorn’Anne, la donna da lui tanto amata, decide infatti di non seguirlo in questa impresa. Il viaggio sarà ricco di peripezie, avventure ed imprevisti che lo porteranno a Panama, dove da poco è stato inaugurato l’attraversamento del famoso canale. È in questo luogo che Maner diventa l’eroe del popolo locale che lo acclama come “Gallo de Panama” (“Gallo” per via della sua provenienza): la reincarnazione di un loro antico avo e condottiero per la libertà.

Altra grande protagonista è senza dubbio la musica, che sarà suonata rigorosamente dal vivo e on stage da parte di una band diretta da Angelo Gualano (pianoforte e tastiere), e composta da Pasquale Arena (batteria), Alberto Mione (fiati), Leo Marcantonio (percussioni), Marco Tricarico (basso), Guglielmo Tasca (chitarra) e Luigi Pagliara (chitarra). Nell’intervista all’autore, sotto riportata, c’è qualche anticipazione su ciò che dobbiamo aspettarci circa questo aspetto. Le voci che faranno parlare ma soprattutto cantare i personaggi principali, saranno invece quelle dell’attore foggiano Michele Iorio (Maner) e delle cantanti professioniste Veronica Granatiero (Lorn’Anne) e Cristina Bisceglia (Verano). La regia è stata affidata ad Antonio Torella, storico collaboratore di Giovanni Maria Lori, (già direttore musicale di numerose produzioni della Compagnia della Rancia, famosa società di produzione di Musical); a quest’ultimo è stata affidata la direzione e la coordinazione del casting. Con il coinvolgimento di più di cinquanta figure tra cantanti-attori, ballerini, musicisti, scenografi, coreografi, artisti e tecnici, Gallo de Panama ha tutti gli ingredienti per diventare un “prodotto” all’insegna dell’originalità. Non ci resta che “testarlo” insomma, e a questo punto la curiosità è davvero tanta. Il Musical andrà in scena per la prima volta al Teatro del Fuoco di Foggia, il 29 e 30 aprile 2014. Non so perché, ma credo proprio che ne valga la pena esserci. Ci sarà da divertirsi.

Di seguito riportiamo l’intervista a Michele Bisceglia, autore di Gallo de Panama.

Ciao Michele, ci racconti com’è nato Gallo de Panama? Intendo dire, quando e in che circostanze è stata pronunciata la frase “Ok, dài, facciamolo” che può aver messo in moto tutto?

Ciao e grazie Maria, a te e a tutti i lettori di Rockambula Webzine! Abbiamo deciso di produrre questo Musical circa un anno fa, a cavallo tra marzo e aprile del 2013. Gallo de Panama, questo grande progetto del nostro territorio, nasce dall’incontro tra il sottoscritto, Pasquale Arena e Toni Noar Augello, rispettivamente direttori artistici e fondatori del MAD – Music Art Doing di Mattinata e dei Laboratori Urbani Artefacendo di San Giovanni Rotondo. Da allora, Gallo de Panama si è trasformato in una vera e propria “rete” artistica che abbraccia artisti e collaboratori da nove Comuni dell’intera Provincia di Foggia.

Tu sei l’autore di testi, musiche, liriche e della storia che viene “narrata”, il tutto è completamente inedito. È un progetto al quale lavoravi da molto tempo, una specie di sogno rimasto chiuso in un cassetto troppo a lungo? Oppure è un progetto figlio di un’ispirazione più recente?

Prendendo in prestito le parole dalla tua domanda, credo che Gallo de Panama, inteso come Musical, sia figlio di un’ispirazione più recente. Le musiche sono state scritte in periodi diversi della mia vita a cavallo degli ultimi vent’anni. Ogni brano ha chiaramente subito delle modifiche sui testi per essere adattati alla storia ed ai relativi dialoghi. Tuttavia è dalle musiche che sono partito per “scrivere” i personaggi. La mia sfida stilistica è da sempre stata quella di riuscire a racchiudere nei canonici tre minuti di una Rock song il profilo completo di un particolare caracter. E questo mi ha aiutato tantissimo quando poi mi sono accostato alla scrittura della sceneggiatura. Di fatto i personaggi esistevano già nelle mie canzoni: Gallo de Panama, naturalmente! E poi Lorn’Anne, Zeleste, Ma’Belle Verano, Fida d’Anice e Agathes, come pure alcune location del Musical sono ispirate a dei luoghi descritti e presentati in altri miei brani, come: Isla Pratt, Freakish, Levante e Prigioni. Non mancano momenti più introspettivi, in particolare sui temi delle ballate: “Il Sogno Vive Qui”, “Velata Profumata Essenza”, “Vita Facile”, “Persuade”, “Preghiera”, “L’Uomo e la Perla” e la conclusiva “Musica Migliore”. Parafrasando l’interpretazione che di Gallo de Panama ha dato il nostro regista, Antonio Torella, posso dire che forse c’è un po’ di me in ogni personaggio e mi piace pensare che questa storia “rimetta al proprio posto i pezzi della mia vita”!

In attesa di ascoltarle dal vivo, puoi darci un’anticipazione sulle musiche che verranno eseguite? Che cosa ci dobbiamo aspettare?

Grazie per questa domanda! Parlo sempre molto volentieri di questo argomento. Musicalmente nasco Rock e questo nelle canzoni del Musical si sente, eccome! Angelo Gualano, il nostro direttore musicale ha arrangiato i brani con uno straordinario rispetto nei confronti delle mie versioni precedenti, non tradendo mai lo stile originale. Lavorare con Angelo ti rimette a posto con te stesso, è un uomo ed un professionista davvero in gamba. Gli sono davvero grato! Ha preso per mano la mia musica e l’ha resa più bella. Mi auguro davvero che l’impatto sonoro che i sette musicisti della band presenti sul palco sapranno mettere in campo, possa davvero accattivare tutti.

La regia di “Gallo de Panama” è stata affidata ad Antonio Torella che si è formato alla SDM de La Compagnia della Rancia, famosa compagnia italiana di produzione di Musical. Ci racconti com’è andata?

Antonio Torella è un professionista con un curriculum così! Non lo scopriamo certo noi. A lui va tutta la mia gratitudine per aver accettato di confrontarsi con questo progetto, assumendosi addirittura la responsabilità della regia del Musical. E’ prima di tutto un musicista eclettico e versatile con un caleidoscopio di sensibilità artistiche e umane notevoli. Il suo aiuto è stato fondamentale in tutti gli stadi della produzione ed in particolar modo nella fase di trasformazione della mia sceneggiatura nel copione vero e proprio.

Il Musical può definirsi una vera e propria produzione made in Puglia, e principalmente made in Gargano. Come ha reagito il territorio locale di fronte a questa iniziativa?

Il nostro territorio ha risposto e sta continuando a rispondere in maniera a dir poco sorprendente. Come ti dicevo prima, a Gallo de Panama stanno lavorando più di cinquanta persone: 17 performer (attori/cantanti), 12 ballerini, 7 musicisti e altre venti persone tra coreografi, scenografi, assistenti di produzione e tecnici. Nella produzione sono coinvolte sette associazioni culturali, tra le quali scuole di musical, danza, musica, teatro e arti sceniche. Oltre ad un numero importante di mecenati e sponsor che economicamente stanno sostenendoci, abbiamo raccolto il consenso fattivo di diverse istituzioni pubbliche e di realtà artistiche e culturali importanti della nostra Terra, mi riferisco a FestAmbiente Sud e al LUC – Laboratorio Urbano Culturale “Peppino Impastato”, che sono nostri partner artistici.

Il “Gallo”, a bordo di una nave tutta sua parte della Bretagna verso le Americhe ma il destino lo porta a Panama. Voi dove vi aspettate che arrivi?

Che aspettative avete nei confronti di questo Musical?

Noi stiamo puntando a fare di questo Musical un ottimo lavoro da ogni punto di vista. La sfida artistica che hanno accettato tutte le persone coinvolte è semplice ma al tempo stesso rischiosa e piena di sacrifici. Gallo de Panama è una storia mai raccontata, non è un brand forte e affermato nel mondo del Musical. Questo, e ne siamo consci dall’inizio di tutta questa splendida avventura, potrebbe essere un limite. Ma stiamo buttando il cuore oltre l’ostacolo perché siamo convinti della bontà della nostra proposta. Mettere in scena opere collaudate permette a chi le allestisce di ispirarsi a canoni stilistici già consolidati evitando di commettere errori. Portare alla ribalta una storia nuova porta in se tanti rischi ma conserva intatto tutto il sapore dell’avventura che è alla base della vicenda umana e personale del nostro protagonista Maner Brivèl. E noi tutti, a nostro modo, siamo dei Maner Brivèl!!! Chiaramente sarà il pubblico e solo il pubblico e tributare o meno il successo di Gallo de Panama.

Grazie Michele. Se c’è una domanda che speravi ti facessi e non ti ho fatto, falla pure, e rispondi se ti va.

Grazie a te nuovamente! Non mi resta che ricordare a tutti che Gallo de Panama – il Musical andrà in scena per la prima volta e in anteprima nazionale il 29 e 30 aprile prossimi al Teatro del Fuoco di Foggia e che i biglietti stanno per terminare. È possibile scegliere i propri posti direttamente dal nostro sito web www.gallodepanama.it oppure chiamando il 328.3231537.  Gallo de Panama, se non insegui i tuoi sogni sei morto!

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Boxerin Club 27/02/2014

Written by Live Report

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Ci sono giorni in cui tentare di programmare la propria vita equivale a mettere in moto una serie di eventi funesti e nefasti  il cui obiettivo è quello di annientare ogni forma di organizzazione, proprio quella volta che hai deciso di fare tutto con calma, e ti sei addirittura spinta a segnare gli appuntamenti in agenda con tanto di “cerchiolino” rosso sull’orario. Ma se al termine di queste peripezie ti ritrovi ad assistere ad un concerto dei Boxerin Club, che arrivino pure tutti gli stravolgimenti di orari e tutte le sfighe del mondo. Siamo al Blah Blah di Torino e la serata non è da birra, ma da amaro. Sono con una delle mie persone preferite ed entrambi, tanto per dare un tocco di originalità alle nostre esistenze, abbiamo mal di gola; la missione è quella di riuscire a mettere qualcosa di forte in circolo bevendo la minor quantità di liquido ghiacciato. Mentre aspettiamo che i Boxerin facciano il loro ingresso e siamo immersi in discorsi metafisici di gossip recenti, ecco che lo vedo, proprio lì, appoggiato al muro, vicino alla consolle: Max Casacci dei Subsonica. Chiedo conferma a chi è con me, sfoderiamo i telefoni e facciamo una rapida ricerca di immagini sul web; ci sembra proprio lui! Tuttavia c’è da dire che entrambi, oltre ad avere lo stesso segno zodiacale e lo stesso ascendente, siamo anche dei miopi irreversibili e vantiamo un numero non trascurabile di figure di merda in merito alla questione “Quello somiglia a…”. Il locale inoltre è molto buio, insomma, non ce la sentiamo di confermare questo scoop; questa però potrebbe essere una buona occasione per lanciare un nuovo giallo capace di annientare una volta per tutte la supremazia di  Jessica Fletcher e della sua Signora in Giallo: quello appoggiato al muro, era o non era Max Casacci? Ai posteri l’ardua sentenza.

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Finalmente i Boxerin Club arrivano, e non appena si posizionano sul palco per me hanno già fatto un miracolo; se i miei occhi architettonici non mi ingannano, il palco/pedana del Blah Blah misura all’incirca 10 mq (ho visto bagni di dimensioni maggiori), nei quali riescono a starci in sei insieme a tutti gli strumenti, che non sono pochi. Chapeau! I Boxerin Club sono di Roma (ce lo ripetono più volte nel corso della serata) e nessuno di loro è mai stato a Torino; questa è la loro prima volta sotto i portici che hanno protetto dalle intemperie per molto tempo il “real” cranio savoiardo di re e regine. La band è arrivata in ritardo e non è riuscita a fare il sound check; il concerto pertanto ci mette un po’ a decollare, i primi pezzi sono  una vera e propria prova del suono. Risolti i problemi tecnici i Boxerin prendono il volo ed è subito fiesta. I brani sono quelli tratti dal loro album d’esordio, Aloha Krakatoa, che il mio collega Lorenzo Centrangolo nella sua recensione definisce freschissimo, dove finalmente possiamo vedere un gruppo (italiano) che evita la trappola dei generi e delle etichette per regalarci undici tracce di variopinta festa sonora, trovandomi pienamente d’accordo. Mentre loro procedono con la loro esplosione di suoni, mi accorgo che senza volerlo ho cominciato a muovermi a ritmo di musica, e non riesco a smettere. I Boxerin ci coinvolgono, ci invitano ad avvicinarci, e noi ci avviciniamo; ci invitano a battere le mani, e noi battiamo le mani; penso però che se ci avessero chiesto di andarcene non lo avremmo fatto così facilmente, Non so perché, ma l’atmosfera che si viene a creare mi ricorda un po’ quella di un concerto degli Honeybird & the Birdies, romani anche loro che io sappia, ma di adozione, provenienti da diverse parti d’Italia e del mondo. Chissà se Boxerin e Honeybird si sono mai incontrati. Quando è il momento di ascoltare “Carribean Town”, mi accorgo che ormai sono in molti a muoversi e a ballare; in tanti hanno lasciato i loro pensieri pesanti a terra e si sono messi a volare insieme a questi ragazzi romani. Subito dopo, quando ormai siamo quasi a fine concerto, qualcuno dello staff passa tra la folla e ci mette in mano fischietti, trombette, maracas ed ogni sorta di strumento musicale, rigorosamente in plastica; ci improvvisiamo tutti musicisti e cominciamo a fare baldoria. Lo stesso soggetto che ha distribuito strumenti in giro per la sala ha in mano un pacco di coriandoli che comincia a lanciare per aria facendoci tornare bambini per un attimo. Ovviamente me ne svuota mezzo pacco in testa, tornerò a casa piena di coriandoli fin dentro le mutande. È quello il tocco finale del concerto, seguito da un ultimo pezzo richiesto dai presenti.

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Al Blah Blah, in alto, più o meno sulla testa dei musicisti, c’è un cartello che riporta una domanda: “c’è qualcuno felice?”. Per me non è mai stata solo una domanda, ma anche una specie di monito, un qualcosa che sta lì, fermo, a ricordare quale dovrebbe essere il fine ultimo di ogni esistenza. Io non so ancora bene cosa sia la felicità. Penso sia qualcosa di effimero, volatile; una parola che si ha il timore di pronunciare per paura che scappi via. Non so nemmeno se a fine serata c’era davvero qualcuno felice, però ho visto tanta gente andar via con un sorriso enorme stampato in faccia, che non è poco.

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