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Adele e il Mare – Origami EP

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Adele e il Mare non è una donna sognante e marinaia, ma una band di tre ragazzi milanesi che scegliendo questo nome d’arte hanno trovato il modo di dipingere il grigio della loro città natale attraverso nuovi colori. Si descrivono genuini e credono che la musica sia una via con il quale esprimere emozioni interiori nascoste, e per preservare questa loro spontaneità hanno deciso di fare tutto da soli: sono arrangiatori, musicisti, produttori e fonici di loro stessi. Insomma una band completamente Do It Yourself, e tanto di cappello!

Origami è il viaggio di Adele e il Mare, un viaggio intimo e profondo descritto dal suono di cinque tracce. Si parla di strade, intese come decisioni e vie da affrontare in “Camminerai”, brano che inizia con un fantastico giro di batteria picchettato e che alla fine ti lascia un senso di speranza misto sofferenza. In “Novembre” il lato nostalgico di Simone (frontman e chitarrista) inizia a scorgersi, e si racconta attraverso metafore fatte di colori e parole sospese nell’aria. Un po’ come un bimbo intento ad afferrare un palloncino che fluttua nell’aria, un palloncino colorato, un palloncino troppo alto per lui, un palloncino che purtroppo potrà solo guardare volare via. Dopo “Novembre” seguono “La Pioggia è Finita” e “L’involontario Sogno di Enea”, ed anche qui direi che l’immagine del bimbo con il palloncino è esaustiva, in quanto l’argomento centrale che lega un po’ tutte le tracce sono le cose che non tornano, le cose che se ne vanno via così, sospese. Chiude il tutto “Domani”, un brano che lancia un messaggio di speranza al mondo, ricordando a tutti che anche se oggi il cielo è grigio è scuro, ci sarà un domani più limpido e chiaro.

Gli Adele e il Mare si descrivono come una band Indie-Rock, ma a me sanno più di Indie-Pop e mi ricordano tanto i Velvet, specialmente il brano “Dolevo Dirti Molte Cose”. Non so se a loro possa far piacere o meno questo mio accostamento, ma comunque sia è ciò che il loro suono e soprattutto i loro testi mi hanno ricordato.

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Sigur Rós – Kveikur

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Questa recensione non è assolutamente semplice. Ho dovuto ascoltare Kveikur, l’ultimo disco dei Sigur Rós, uscito praticamente un anno dopo Valtari, almeno sette volte in giorni diversi e momenti diversi, prima di potermi avvicinare al foglio di Word. E ho letto in giro cosa se ne pensasse per capire se ero io che non coglievo certe sfumature o se semplicemente tra i fans e tra gli esperti non ci fosse un po’ di sano servilismo. Come a dire: questi sono dei grandi, non possono che sfornare l’ennesimo capolavoro. “La sferzata Rock degli Islandesi”, “Dopo aver indagato il cielo eccoli che scandagliano l’inferno”. Ne ho lette veramente per ogni colore, ma ancora adesso non riesco a districarmi tra la mole di informazioni raccolta e l’impressione diretta che ne ho io all’ascolto. “Brennisteinn” semplicemente non sembra farina del loro sacco: la struttura è molto più canonica, le singole componenti (e soprattutto la batteria), sembrano prese da un qualsiasi gruppo indie-rock che non si scula nessuno o quasi. Manca quella sensazione di artificio elettronico comandato dall’uomo, quella sacralità di ogni movimento melodico a cui ci hanno abituato con i lavori precedenti. Persino la voce di Jonsi non sembra più la stessa. “Hrafntinna” è semplicemente debole e fortuna che “Ísjaki” e “Yfirborð” sembrano riportarci in un universo sonoro più noto e sicuro, per quanto il ritornello della prima suoni troppo troppo Pop. Anche “Stormur”, non fosse per una tendenza danzereccia che proprio non è da loro, potrebbe essere un bel brano, ma, davvero, sono le percussioni a essere strane in questo disco. E non ci trovo niente di terreno, non sento il tentativo di un’esplorazione del basso, dell’infernale, dell’interno, in contrapposizione ai voli pindarici ed eterei precedenti. Sento una patina Indie-Pop che stride con le mie aspettative. Solo la title-track, “Kveikur”, sembra confermare la lettura di chi sente una virata Rock nel disco. Più industrial, a dire il vero. E anche un industrial piuttosto malato e visionario. “Rafstraumur” è scontata, “Bláþráður” è sintetica, “Var”, invece, è meravigliosa, la prosecuzione ideale dell’ “Ég anda” che apriva Valtari. Ce l’hanno lasciata lì, al fondo, come la promessa di un ritorno, come a dire che questa era una prova, una parentesi, un esperimento e che torneranno. Senza farsi schiacciare dai loro stessi strumenti, senza bisogno di appigli pulsionali e scansioni ritmiche così rigide, senza dare l’impressione di essersi persi nei confini netti di strofa-ritornello.

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Deerhunter – Monomania

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E’ uscito da pochi giorni il quinto album Monomania dei Deerhunter, band statunitense di Atlanta, formata dall’amato Bradford Cox, Moses Archuleta, Josh Fauver e Lockett Pundt. Il genere di questo lavoro è incasellato nel Noise Rock, ma più in generale possiamo inserirlo nella categoria Indie-Rock. La lunga attesa tra il precedente e l’attuale opera avevano fatto sperare in qualcosa di memorabile. Speranza presto sfumata per i fan.
Il titolo dell’abum Monomania ci introduce in un ascolto che a tratti diventa realmente ossessivo e maniacale con i suoni grezzi e distorti dal mood garage, mentre in altri momenti è in grado di cullarci in sound più rilassati. Le tracce di Monomania sono 12 e l’ascolto scorre fluido tra gli inizi noise/garage di “The Leather Jacket” e “Neon Junkyard”e i brani meno pesanti, più simili a ballad, come “The Missing” o “Nitebike” che intervallano l’album dandogli quella giusta alternanza di atmosfere che non annoiano l’ascoltatore.

Chiare le influenze, dichiarate anche dalla band, dei Ramones e degli Sonic Youth in primis, ma ad un ascolto più attento si scorgono anche piccole somiglianze con i R.E.M. e forse, a mio parere, anche lontanamente alle atmosfere degli Smashing Pumpkins. Un disco in cui si evince la decisione e l’immediatezza di suoni e testi, non ancora del tutto maturi e profondi, come invece ci si sarebbe attesi da una band di rilievo del settore come loro. I Deerhunter dicono bye bye alle sfumature psichedeliche che abbiamo trovato negli album precedenti e lasciano le canzoni ad uno stato grezzo e meno raffinato.

Un album tutto sommato interessante seppure sia purtroppo lontano dallo splendore e dai fasti di Halcion Dygest (2010) che probabilmente è quello che possiamo considerare il vero album icona dei Deerhunter, vista la grande trasversalità degli apprezzamenti ricevuti. Un disco, Monomania, che piacerà molto agli amanti del Noise e del Garage, ma non troverà troppi consensi in chi si aspetta il proseguo della storia del gruppo che si era così ben improntata nel 2010.

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The National – Trouble Will Find Me

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Pubblicare nuovo disco non sempre può confermare all’eccelso una nuova fase o al meglio una nuova direttrice sonora da far poi intendere agli accaniti fan sempre pronti a discreditare il loro beniamini ad ogni passo;  il quintetto dell’Ohio, The National, ci provano a rimboccare le identità del loro essere musicisti di tendenza, compongono e solidificano il loro sesto disco per la 4AD e lo mettono al giudizio degli ascolti, e subito si nota che la tendenza generale della tracklist è che tutti gli arzigogoli di contrasto, quei sogni disturbati e visioni troppo farcite da parafrasi sono quasi scomparsi per fare posto ad un groove molto, ma molto più rivolto su sé stesso, che si guarda dai piedi alle ginocchia e che apre forse un nuovo corso degli Americani..

Trouble Will Find Me si avvicenda all’orecchio con un incedere strisciante, che si apre piano piano prima di sfoderare il suo animo scuro, quel bel fangoso che tanto piace alle devozioni di un certo post-rock riletto in chiave indie, una dimensione sgranata che è languida come un tramonto d’amore, come una improvvisazione d’animo dopo una mezzanotte pensierosa; undici tracce volutamente sfocate, nebbiose e tardo romantiche – in certi aspetti – ma che seguono il loro andare fluente, la loro crescente struttura per una volta tanto lontana dai voleri forzati delle aspettative; poche orchestrazioni e nulli gli avvitamenti distorti, la stupenda voce baritonale di Matt Berninger fa da collante tra il sound sempre tenuto sui toni in minore e le atmosfere ricercate delle settime alte “I Should Live In  Salt” o nelle incursioni fool che “Don’t Swallow The Cap” semina nel suo passaggio; un disco che distilla tabù personali ed intimità “Demons” come protegge l’ossessione delle illusioni “Graceless” per portarle poi a sospirare in un febbrile ma sedimentato patos di sintetizzatore insinuante “Heavenfaced”.

I The National non sono più ragazzini di quartiere, sono maturi e hanno voglia di sperimentare, andare oltre il consueto costrutto, e questo nuovo lavoro di certo non sbalordisce, ma ha un suono dell’anima che – senza tanto confondersi – è rassicurante e mette in pratica quello che forse non riusciamo più a comprendere, persi e  distratti come siamo.

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Sabina Caruso – Senza Remore

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Sabina Caruso è una cantautrice siciliana che dal 2009 porta in giro la sua musica, vincendo premi, concorsi (Epidaurock, Indie Contest ecc) e collaborando anche con l’artista visiva Tiziana Contino, curatrice del video “Senza Remore” e della copertina dell’album. Insomma l’arte a tutto tondo per una musicista che si diverte a raccontare le sue esperienze ma anche quelle che appartengono ai racconti di chi le sta accanto, come farebbe una brava scrittrice, infatti, Sabina si guarda attorno e racconta la realtà e i suoi sentimenti, le ansie, le gioie e le pressioni della sua vita.

Senza Remore invece è il suo primo lavoro discografico, uscito nel febbraio 2013, composto da nove brani, il cui primo singolo è “Senza Remore” da cui traspare  il mondo musicale di questa cantautrice che si definisce schizofrenica e spontanea, con una voce vera, senza fronzoli, sincera e di impatto con il graffiato che qualche volta compare. Il Rock quindi è la via maestra nei suoni distorti e graffiati, ma anche nella forza contenuta in tutti i racconti di questo album, anticipato dal brano “Non ho Tempo”. In questo lavoro Sabina Caruso canta e suona la sua chitarra accompagnata da Daniele Grasso alle chitarre e all’elettronica, e Giusy Passalacqua alla batteria. Dal vivo invece la situazione cambia, infatti la giovane cantautrice siciliana, che studia anche Legge e lavora in un’agenzia turistica, sul palco canta, suona la chitarra, le percussioni e la tastiera, supportata dal bassista Michele Musarra, dal batterista Giovanni Amato, dal chitarrista Livio Rinaldi e dalla special guest Vincenzo Di Silvestro al violino e synth.Insomma una donna e una musicista che non perde tempo, infatti tra un annetto potrebbe anche uscire il suo secondo album dato che ha già in cantiere una settantina di brani nuovi di zecca, ed è interessante il suo pensiero: le canzoni esistono prima che noi le creiamo, semplicemente scelgono da chi essere scritte… adesso, meritano di essere ascoltate.

L’unico consiglio importante che mi verrebbe di dare per migliorare la promozione di quest’artista è quello di ampliare e creare degli spazi per ascoltare Senza Remore gratuitamente. A discapito di quello che molti dicono, secondo me, l’ascolto gratuito di un album è già di per sé un’ottima promozione nel marasma musicale odierno, proprio perché stimolerebbe a un ascolto integrale e più attento, in più sarebbe già un’ottima opportunità per farsi conoscere ed apprezzare da un pubblico più vasto che poi potrebbe comprare l’album, i gadget e i biglietti dei concerti. La fase di promozione musicale è molto cambiata rispetto per esempio agli anni settanta ma l’ascolto gratuito e il tanto girare potrebbero essere una parte  del segreto del successo odierno.

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Marydolls – La Calma

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Dolcezza monolitica e giugulare espansa, una “fabbrica di membrane oscure” per una serie di incredibili attimi di elettrica santità. Tutto questo nel secondo album dei bresciani Marydolls che hanno poi la sfrontatezza di chiamarlo La Calma alla faccia della gradevole sensazione. Un disco che pesa sia di suono che di lirica, una condizione sonora che fa fuoco attraverso un profondo smarrimento di luce, disco che attraversa i Verdena come un raggio di laser e li infilza nelle provocazioni della sintomatologia malata del Grunge, undici tracce che tra pomposità amperiche e pugni riflessivi di “umanità semplice” scardinano e sconvolgono qualsiasi volontà a mettere in moto un minimo sindacale di pace interiore.

Il trio in questione mette in primo piano una buona dose di genialità nel non ricadere nei copia incolla che spesso il genere mette come tranello, usa  malinconie e scatti d’ira con gli stessi pesi dell’intensità emotiva, spinge su pedaliere e ritmi con l’urgenza di chi è padrone assoluto della naturalezze elettrica e s’innesta nelle impennate della propria personalità rock come una forza scura e impenetrabile; sfarzo micidiale nelle trombe che si sposano alla perfezione con le intemperie di chitarra elettrica “Non mi Passa”, tagliente nella speranza di sperare che monta piano piano “A Piedi Nudi”, sfacciati con i demoni Nirvanici che si agitano in “Animale”, “Tangenziale”, come affittuari del caos Pumpkinsiano “A Testa in Giu”, una tracklist perfetta, di gran gusto che regala anche gioielli acustico/elettrici tribali che raggelano il sangue sia per la strisciante tristezza di violoncello nella strepitosa “Luna” che nel  ricordo dei fantasmi erranti dei Ritmo Tribale che dondolano tra “Docce” e “La Calma”.

Disco assolutamente da non perdere, non solo perché tra le trame si muovono nomi come quello di Nicola Manzan, ma anche perché questa matassa  esplosiva presagisce con certezza, un di sicuro ed imminente capolavoro. Qua la mano!

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Please Diana – L’inevitabile

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Questo gruppo ha il mio nome e non sarò buona solo per questo piccolo particolare che comunque fa sorridere, infatti il significato del nome Please Diana rimane ancora sconosciuto. Che si tratti di un incitamento nato in sede prettamente sessuale di una coppia inglese, del riadattamento di una frase contenuta nella canzone “Open Fire” dei Silverchair,del ricordo della canzone di Paul Anka o di un accostamento laborioso e nonsense rimane pur sempre un bellissimo nome! I Please Diana nascono nella valle Umbra ai piedi della città di Assisi nell’estate del 2011 da un’idea del batterista Federico Croci e del bassista Alessandro Nardecchia, successivamente si uniscono al gruppo i chitarristi Marco Sensi e Filippo Bovini e la ciliegina sulla torta è la cantante Gloria Bianconie non solo perché io sia anche una donna ma perché in alcuni contesti musicali una giovane voce femminile ci “azzecca” al mille per mille.

Tutti questi elementi si concretizzano con il primo album L’inevitalile,uscito nel 2013,che contiene dentro di se i tre brani che hanno formato il loro primo demo del 2011: “Sospiro” brano melodico e molto orecchiabile nelle sue atmosfere alternative, che in “Cambiamenti” diventano certamente più rock anche se il testo si fa più intimo e personale, e “Quel Posto Che Non c’è” ultimo brano sia del demo che dell’album interessante per i suoi paesaggi certamente malinconici. Il primo demo contenuto nel primo album formato complessivamente da dieci brani, per un totale di circa quarantadue minuti, che viaggiano in atmosfere un pochino più rock come in “Non Chiedermi Perché”, “Istanti”, “Anima e Ragione” e in “Lasciandomi Svanire”, o più acustiche come l’interessante “Boreale” o la bellissima e malinconica “Posso Sentirti”.

Un lavoro, questo dei Please Diana, che si muove quindi nelle più classiche atmosfere alternative indie rock italiane con le sue bellissime chitarre e l’impasto sonoro che crea suggestivi momenti musicali. Il timbro vocale di Gloria, come dicevo prima, appare molto consono per il contesto in cui ci troviamo anche se certe volte appare abbastanza statico. Infine i testi esplorano naturalmente tutte le sfere più che della vita direi dell’animo umano, con le sue sofferenze e i suoi pensieri a volte malinconici. In sostanza un album bello da ascoltare soprattutto quando si ha qualche pensiero per la testa, utile per esplorarlo e capire se stessi anche se talvolta non ci si riesce nemmeno. Un gruppo da tenere sottocchio e sostenere in questo difficile mondo musicale italiano.
https://soundcloud.com/pleasediana/sets/linevitabile-2013

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North – Differences EP

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Inizia la primavera e a dispetto di una copertina fatta di cime innevate quello che ci voleva per caricarsi e prepararsi a uscire dal letargo di un inverno troppo lungo erano proprio canzoni come quelle contenute nell’Ep Differences dei marchigiani North. Pierfrancesco Carletti (voce, chitarre), Giuseppe Gaggiotti (chitarre), Andrea Monachesi (basso) e Gabriele Tomassetti (batteria) propongono sette pezzi, semplici, freschi ed estivi come una limonata a bordo piscina in pieno agosto. Passando tra richiami a Canadians e Weezer, attraverso tutto l’Indie delle tre decadi ormai trascorse, scelgono un suono pulitissimo ed elettrico, fatto di melodie orecchiabili, chitarre e ritmiche essenziali, classico cantato in inglese e uno stile immediato e senza troppi fronzoli o complicati artefici sonici. Nella loro elementarità sembra di intravedere la stessa ingenuità dei gruppi punk dell’esplosione flower italiana, quando la voglia di suonare e di farsi sentire era tanta e “fanculo se non siamo troppo fenomenali”. Proprio come loro i North fanno esattamente quello che sanno fare senza cimentarsi in esagerazioni inutili che potrebbero sfociare in ridicole manifestazioni di ingenua incapacità. La loro bravura sta proprio in questo. Da pochi elementi, senza strafare, tirano fuori pezzi sorprendenti e melodie sublimi, tanto che sarebbe inutile citare, distinguere o elevare sugli altri uno qualsiasi  dei sette pezzi che compongono la tracklist. Da “New Life” a “Free as You” passando per “A Song For Your Boyfriend” tutto si ripete senza sosta, tutto è uguale a se stesso e se la cosa non depone certo a favore dell’originalità, certamente non dispiacerà niente di questo Differences a chi và solo in cerca di belle canzoni Indie (chiamatele come vi pare), merce tanto banale quanto rara in questi tempi di magra.

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Loveless Whizzkid – We Were Only Trying To Sleep

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Eccellente esordio per i catanesi Loveless Whizzkind, bel frastuono ed intimidatorio indie-rock in nove tracce “We were only trying to sleep” che suggerisce essenze elettriche diafane, a tratti spalmato da psichedeliche Beckiane “Jassie’s Disappeared”, “Cousin Lizard” con i Pavement come portafortuna e il broncio scazzato di una certa wave, un piccolo brivido lungo la schiena che si conficca nella spina dorsale a mò di spillo alternative.

Un lavoro che vive tutto sulla spontaneità dell’ispirazione dei tre musicisti coinvolti, la glabra e nuda bellezza di melodie storte e di suggestione che, al di fuori di una spigolosità espressiva, sanno modulare una estetica slegata da tante “strizzatine d’occhio”, una fulminante e corrosiva list che fa battere le mani per tanta baldanza fresca e stilosissima; se vogliamo usare parole che più vanno a catturare l’immaginazione di questa band potremmo dire “una grezza e devastante maturità sonante” che solo in un esordio brucia tutto, è già grande e pronta per palchi d’ascolto allargati e per creare una personale linea guida nell’affollatissimo circuito indipendente italiano. E non si può non essere sottoposti brillantemente alla compiutezza di questi brani, scorrevoli e diretti che non disattendono nemmeno la più audace espansione in certi ambiti brit “Lovely Ball Of Snot” come nelle slabbrate sensazioni garage di “Hail To The “Lil” Gorilla”, praticamente tutto il minimo indispensabile per un ascolto a tutto gas e con l’argento vivo sotto i piedi.

Cinquanta minuti di vero talento che, spalleggiati da chitarre multiformi, un cantato densamente “out” e dal rombo di motori rigeneranti dell’irriducibilità indigena al 100% “Blue Butted Baboons”, costituiscono una piccola opera imponente per qualità e quantità, e se poi ci mettiamo dentro la “pazzia” incontrollata di “The Golden Cockroach’s Pinball Song”, la matrice sonica che questo trio vuole imprimere a pelle è inestimabile come un tattoo di un vecchio amore onnipresente.

L’ascolto di questo debutto è una dichiarazione all’estro armonico della sconnessione, una squisita naturalezza che è già realtà fondamentale se si vuole ancora considerare persuasiva la scena “trasversale” cosiddetta indie di testa e dal corpo dinamico.

Strafico!

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Droning Maud – Our Secret Code

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C’è voluto del tempo, c’è voluto il tempo necessario, i Droning Maud registrano ufficialmente il loro disco d’esordio Our Secret Code. Se ricordate le loro precedenti produzioni  Promo (2007) e The World of  Make Believe (2008) cercate di dimenticarle, non vi serviranno assolutamente da esca per l’ attuale lavoro in promozione, negli anni ci sono stati cambiamenti di line up, sperimentazioni sonore e fortunati incontri artistici che hanno dato vita ad una band completamente rigenerata nel sound e nella mente. Adesso è il tempo di Our Secret Code, è tempo di una nuova vita. Hanno conservato quella vena New Wave Post Rock di matrice nettamente britannica, i toni si abbassano e la produzione dei Dronig Maud prende strade Shoegaze con punte avvelenate di elettronica. Poi lo zampino dell’ormai sempre presente Amaury Cambuzat impreziosisce e di molto l’importanza del disco ( prima di questo vengo dall’ascolto di Oslo Tapes quindi le affinità riesco a sentirle tutte nonostante il risultato prenda strade diverse), le soluzioni sanno di freddi paesaggi incontaminati come la musica dei Sigur Ròs se proprio dobbiamo cercare un paragone (e che paragone) plausibilmente valido e preciso, senza dubbio dobbiamo lasciare da parte la musica italiana per entrare a stretto contatto con Our Secret Code. Le chitarre viaggiano incontrastate verso l’ignoto manipolando le menti di chi vorrebbe seguire l’esecuzione con attenzione, le ritmiche (senza basso) dettano tempi degni degli ultimi Radiohead, un continuo picchiare dritto e lineare con improvvise sterzate. La voce si amalgama al tutto giocando molto di squadra, intuizioni elettroniche non fanno mai sentire il vuoto sotto la struttura. Un disco pieno e deciso quello arrangiato dai Droning Maud, la volontà di avere tra le mani un prodotto esclusivo di cui andare fieri senza strani pensieri per la testa.

Un album pulito nei suoni con forti dosi di rock all’avanguardia, pezzi come “Nimbus” rendono molto bene l’idea di un lavoro comunque sia molto variegato nelle soluzioni sonore, uno studio valido e l’esperienza non fanno arrancare mai a fatica i Droning Maud lanciati a tutta velocità. Poi ci sono pezzi come “Ghost” che rendono leggera l’aria intorno, le chitarre girano e rigirano come fossero maledette da una profezia, l’intenzione surreale de Our Secret Code è subito chiara, non lasciare la ragione a chi si dedica all’ascolto del disco. Anche questa volta mi trovo a elogiare una band dai suoni nettamente nord europei, quasi come fossimo a corto di un identità italiana, come se non fossimo in grado di permetterci una propria e definita personalità al di fuori del cantautorato. I Droning Maud conoscono la ricetta della felicità artistica e registrano un album sopra le righe della decenza, maturo e completamente godibile in ogni sua sfumatura. Dieci pezzi che non mi metto qui a citare tutti sullo stesso livello compositivo, voglio invitare all’ascolto ripetuto de Our Secret Code per far cogliere le infinite scelte presenti, più si ascolta e più vengono fuori cose nuove e maledettamente belle. Una band che trova la propria maturità artistica non perdendo comunque l’entusiasmo della prima volta. Un disco che sinceramente ci voleva proprio.

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Albedo – Lezioni di Anatomia

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Non riesco mai a trovare una giusta collocazione per la musica bella e interessante in questo ultimo periodo, sono sommerso da “immondizie musicali” a quintalate e non sono capace più di reagire in maniera lucida alle cose. Poi ti capita un disco “diverso” e pensi che non tutto è perduto, che la musica importante ancora riesce a portarsi a galla, non sappiamo bene per quanto tempo però riesce ancora a farlo. Arrivano al terzo disco i milanesi Albedo, ci arrivano in forma smagliante registrando in presa diretta Lezioni di Anatomia uscito per V4V Records con la partecipazione di Inconsapevole Records. Ebbene questo disco suona una bomba. Lo avrete già letto in tutte le altre recensioni già uscite e penserete a qualche mega pompaggio commerciale per cercare di convincere psicologicamente il pubblico, non è affatto così, trovate il modo di sentirli (e di questi tempi basta accendere il pc) e crederete ancora nella sostanza della musica italiana, in fondo c’è qualcuno che si lascia ancora influenzare dalle recensioni? Immaginate un sound molto post rock accompagnato da una voce che canta in italiano, non smetterete mai di ascoltare e poi ascoltare nuovamente Lezioni di Anatomia senza tregua, quasi una dolce lotta per farsi male. I pezzi lanciano brividi in continuazione, bisogna soltanto riuscire a coglierli e collocarli sul pezzo di cuore che si preferisce, un percorso intimo e interiore che ogni ascoltatore può rendere proprio assumendo la musica degli Albedo come alterante sottofondo emotivo. Un disco assolutamente grigio nei colori, non traspare mai la luce, associo malinconia a profondità, la felicità è leggerezza e noi siamo persone profonde. Il resto potrebbe tranquillamente sparire senza lasciare traccia.

Lezioni di Anatomia come dicevamo prima è il terzo disco ufficiale degli Albedo, arriva dopo i precedenti Il Male (2011) e A Casa (2012), praticamente un disco all’anno, in sostanza un percorso continuo e crescente che trova la punta di diamante nell’attuale lavoro, è difficile scrivere musica in questa maniera, è molto più semplice decrescere nel tempo.
Il lavoro è composto da nove pezzi tutti ben legati tra loro, tutti allacciati indivisibilmente come le parti del nostro corpo (difatti una lezione di anatomia),  l’opener “Cuore” è di una bellezza impressionante, la mente viene lasciata da parte e il continuo duello del ragionare col cuore o la testa marca forte il messaggio lanciato dalla canzone. Tanta dolcezza in pezzi come “Dita” e “Polmoni” (non sto più citando i brani in maniera sequenziale), la rabbia sviluppata in “Stomaco” e l’elettronica elegante in “Occhi” e “Pance”. Lezioni di Anatomia rassicura e parecchio la mia situazione di ascoltatore di musica, non pensavo fosse ancora possibile arrivare ad un disco del genere in Italia, fortunatamente gli Albedo ci arrivano al terzo disco, quello decisivo, quello del rischia tutto. Loro hanno giocato benissimo le proprie carte realizzando un prodotto ottimo da mantenere sulla bocca e orecchie di tutti il più a lungo possibile, loro attualmente hanno il merito di aver scritto uno dei migliori album degli ultimi anni, il resto per la gran parte è soltanto merda.

Dimenticavo una cosa fondamentale, Lezioni di Anatomia degli Albedo va ascoltato con un volume altissimo, assolutamente.

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Guarentigia – Dove Vivono Gli Uomini

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Ok, l’italiano (forse) non è la lingua più adatta per scrivere canzoni; perde nettamente il confronto con la musicalità dell’internazionalissimo Inglese. L’italiano è la lingua della poesia, della prosa, della recitazione, dell’opera o, se vogliamo, la lingua del cantautore. Non certo la lingua per eccellenza del rock. Essendo anch’io autore e compositore, mi sono spesso ritrovato a dover scegliere di non usare la mia lingua perché “sporcava” in qualche modo la musicalità della melodia che avevo creato e sono sovente venuto al compromesso (a dire il vero mai troppo sofferto) di scrivere in inglese. Di contro abbiamo una più difficile comprensione da parte della mamma del vicino della porta accanto ma… come scivola bene sulle note!
C’è da dire però che, a differenza mia, molti autori italiani sono invece riusciti a rendere al meglio la sonorità della nostra parola sulla musica, anche in generi musicali come il rock o il punk. Non è questo il caso dei Guarentigia, almeno non per quanto riguarda quello che ho potuto ascoltare nel loro nuovo lavoro Dove Vivono Gli Uomini.

Il disco inizia con “Sola”, un brano che già da subito vi farà capire che la band milanese non scende a compromessi con la commercialità del rock radiofonico: la potentissima intro dura infatti ben 45 secondi, tempo dopo il quale qualsiasi discografico che intenda passarvi su Radio Deejay vi dirà che deve arrivare il primo ritornello. Il brano ricorda, soprattutto nei refrain, l’atmosfera e la melodia dei “vecchi” corregionali Timoria. Dopo i 5 minuti abbondanti della prima traccia ci ritroviamo sorprendentemente una piccola intro di percussioni che, prima dell’arrivo delle chitarre di Jacopo Iamele e Daniele Cetrangolo, ci illude quasi che il genere musicale dei Guarentigia sia eterogeneo: e invece no. Rock-on.
La pregevole voce di Luca Bianchino canta poi con estrema rabbia il pessimismo di “Nessuna soluzione”, terza traccia del disco, ritornello della quale richiama il titolo del disco: “se vuoi puoi convincerti che ci sia un mondo migliore, ma di certo non è dove vivono gli uomini“. Particolarmente apprezzabile in questo brano la linea di basso di Roberto Rizzi, ottimamente supportata dalla sua metà ritmica, la batteria suonata da Ivan Visciano. Purtroppo però, anche se a sprazzi intravedo la famosa musicalità delle parole fuse nella musica di cui ho scritto sopra, anche qui incappiamo spesso in sillabe eccedenti e parole infilate a forza nella linea melodica. Intendiamoci, può essere una scelta. Una scelta però che non condivido.
Il disco scivola sugli stessi binari, peggiorando a mio avviso sensibilmente proprio nella quarta e quinta traccia, ma non deludendo tutto sommato le aspettative iniziali. I Guarentigia hanno le idee chiare su quello che dicono e su quello che suonano, questo va detto.

Menziono infine la canzone messa al numero nove nella tracklist, “La patria, la legge”, denuncia alla corruzione e all’ipocrisia della società e di chi ci governa, purtroppo ancora e più che mai molto attuale.
Note molto positive del disco riguardano il suono e la resa strumentale globale: tecnicamente suonato molto bene, ottima scelta sonora e ottima realizzazione in fase di incisione e mix. Gli arrangiamenti non introducono alcuna novità stilistica nel panorama del rock ma fanno egregiamente il loro lavoro di supporto. Unico “appunto”, probabilmente ancora una scelta consapevole da parte della band ma che ancora non condivido, riguarda la presenza della voce solista (il volume un po’ basso, la scarsa brillantezza), forse un po’ troppo “dentro” il mix considerando l’importanza che la band vuole dare a ciò che dicono i testi.
Sul loro profilo facebook i Guarentigia scrivono “Crediamo nella potenza del suono, nella magia delle atmosfere e nel peso delle parole”. Che dire? La potenza del suono c’è tutta, l’atmosfera è apprezzabile ma un po’ contaminata dal trascinarsi delle parole sulla musica. Il peso delle parole, già. Anche quello c’è, francamente un po’ troppo. I testi sono senza dubbio non banali o forse talmente non volutamente banali che risultano il contrario. I messaggi che i cinque ragazzi lombardi fanno passare attraverso le loro canzoni sono però certamente importanti e degni di dibattito e approfondimento. Ma non siamo di fronte a un saggio, a un libro di pensieri e punti di vista sulla società. Siamo di fronte a un disco e personalmente da un disco mi posso anche aspettare un messaggio, ma anche e soprattutto una musicalità che deve esistere nella fusione tra la musica e il verbo e che mi porti a godermi appieno l’esperienza dell’ascolto. Questa musicalità, in questo disco, non l’ho trovata. Se però vi piacciono le intro chilometriche, il rock vecchio stampo Timoria-style, i testi non metricamente impeccabili ma importanti nei messaggi e cantati bene, concedete un ascolto a “Dove vivono gli uomini”.

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