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M83 – Oblivion OST

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L’ultimo disco dei francesi M83, ex-duo (ora più che altro nom de plume del frontman Anthony Gonzalez)di musica elettronica sui generis, è in realtà la colonna sonora del film Oblivion, diretto da Joseph Kosinski (anche co-sceneggiatore e produttore), con Tom Cruise e Morgan Freeman.

Non ho ancora avuto modo di vedere il film, quindi non posso dirvi se la colonna sonora funzioni come accompagnamento drammatico, né quanto sia azzeccata come atmosfere o scelte di mood. È un disco interessante, però: gli M83 creano una colonna sonora “classica”, piena di archi e atmosfere retrò, dove lunghi crescendo elettronici sospesi si aprono in cavalcate orchestrali ritmiche e aperte (il finale di “Tech 49”), in pieno stile hollywoodiano, senza inventare granché ma rendendo epica ogni risoluzione, ogni svolta nel discorso intrapreso. D’altronde lo stesso regista ha commentato la scelta degli M83 in questo modo: “la musica degli M83 mi è sembrata fresca e originale, e grande ed epica, ma allo stesso tempo emotiva, e questo è un film molto emotivo, e mi è sembrata un’ottima scelta”.
Ecco quindi che sintetizzatori e archi si mischiano in soundscapes intriganti (“StarwWaves”), arpeggiatori e ritmiche elettroniche montano cupi qua e là (“Odyssey Rescue”, “Canyon Battle”), misteri s’infittiscono nelle rapide movenze degli alti e nelle esplosioni dei bassi (“Radiation Zone”). E poi terzine d’archi che s’alzano e scorrono incalzanti (“Ashes of Our Fathers”) e cupezze e cori angelici da un altro universo (“Temple of Our Gods”), o firme Ambient in calce, interrotte da poche, parche note di piano (la sospesa “Undimmed by Time, Unbound by Death”).

L’impressione generale è che, come colonna sonora, la musica degli M83 possa funzionare bene, così sospesa tra passato recente e contemporaneità, soprattutto per un film di SF che pare si ispiri ai classici degli anni ’70. Certo, non inventa niente, non c’è un approccio originale al materiale, e nemmeno il gancio che li farà passare alla storia (un tema alla Mission: Impossible, o alla Pirati Dei Caraibi, per fare solo due – piccoli – esempi). Anche la traccia conclusiva, la title track, l’unica cantata (da  Susanne Sundfør, che in alcuni momenti pare Florence Welch), non si muove tanto dal già sentito (anche se è decisamente scritta bene per una colonna sonora, e immagino sia servita per i titoli di coda, che scommetto abbia accompagnato alla perfezione). Sono soundscapes che sembrano spacescapes, quando riescono meglio; quando riescono peggio, invece, assomigliano ad una qualsiasi colonna sonora “di mestiere” fatta da un professionista qualunque di un qualche studio di Hollywood.
Come disco a sé stante non regala molto: forse è troppo “colonna sonora” per funzionare da solo, troppo pieno di ambienti sonori, di tappeti svuotati e poi riempiti, ma con una lentezza parsimoniosa, che così bene s’adatta al grande schermo, ma meno ad un ascolto dedicato. Non mi resta che vedere Oblivion e vedere quanto, di tutto questo, rimane durante il film.

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Perturbazione – Musica X

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I Perturbazione si sono costruiti, nel tempo, una reputazione adamantina e inossidabile: fin dall’ottimo In Circolo (passando per Canzoni Allo Specchio e Pianissimo Fortissimo,  arrivando a quel capolavoro che è il doppio Del Nostro Tempo Rubato) hanno saputo porsi come alfieri del pop indipendente semplice ma intelligente, curato ma diretto, malinconico e simpatico insieme.
Col nuovo Musica X, che esce in allegato col mensile XL, proseguono sul percorso tracciato fin dagli esordi in lingua italiana: canzoni brevi, immediate, di un pop anche radiofonico, orecchiabilissimo, da canticchiare fino alla nausea. Allo stesso tempo continuano a raccontare (e raccontarsi) nel loro distintivo timbro agrodolce, in cui riflessioni quotidiane si mescolano a voli pindarici di carattere più generico, ma sempre con pacatezza, con umiltà.

I Perturbazione danno il loro meglio nelle tracce più intime, quelle dove si mettono a nudo: sono brani emozionanti, in cui ti accorgi di essere quasi imbarazzato dalla loro schiettezza, dal loro candore; poi ti rendi conto di provare le stesse cose, e inizi a sentirti nudo anche tu. Penso a “Diversi Dal Resto”, dove ci raccontano quanto siamo tutti condannati alla banalità, o a “Mia Figlia Infinita”, una canzone d’amore disarmante, sincera, vera, travestita da canzone “di guerra”. Stesso discorso per “Monogamia” o “I Baci Vietati” (con Luca Carboni): sono discorsi che tutti ci facciamo, ma spesso in solitudine, facendo finta che certe cose non ci tocchino; e sentirli espressi con così tanta facilità è liberazione e disagio insieme.
Più generiche e su varie gradazioni di riuscita il resto del disco: la title track, inno sui generis alla musica, vissuta ovunque e comunque; la stramba “Ossexione” (con Erica Mou), litania/filastrocca sull’onnipresenza del sesso nelle nostre vite; la didascalica “Questa è Sparta” (con I Cani), che dipinge un ideale di bellezza senza il quale “si sanguina e si muore”. Discorso un po’ a parte per la conclusiva “Legàmi”, che racchiude un po’ quell’anima del disco che canta di rapporti, di relazioni, di scambi, e per il primo singolo, “Tutta la Vita Davanti”, ennesimo esempio di come alcuni gruppi indipendenti possano competere con il mainstream anche in termini di piacevolezza immediata dell’ascolto (se questo brano passasse ogni mezz’ora su una qualunque radio nazionale, il disco scatterebbe in classifica dopo una settimana o due, al massimo).

Musica X è un disco piacevolissimo, di musica leggera ma bella, scritta bene e suonata con mestiere. È intelligente, simpatico, malinconico, emozionante. È una nuova tappa del percorso dei Perturbazione ed è decisamente all’altezza della loro storia. Si parlava tanto di un cambio di sound (con la produzione di Max Casacci dei Subsonica e con l’utilizzo più intenso di qualche aggeggio elettronico), ma, anche se una differenza certamente si può notare, non è che un vestito leggermente diverso su un corpo che è rimasto lo stesso (ed è la cosa che conta). Trovata la formula, tutto il resto è puro contorno. Musica X è un disco dei Perturbazione e, elettronica o meno, vale la pena farselo cantare.

Anteprima XL. Perturbazione - La vita davanti from videodrome-XL on Vimeo.

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Settembre Nero – La Dittatura Del Piano B

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Duro come l’asfalto, decadente come un antico palazzo abbandonato in periferia e spaventoso come il gruppo terroristico da cui prende il nome. Questo è il sound dei Settembre Nero. E non dimentichiamoci il nero, senza alcuna sfumatura se non quella del grigio nebuloso di una sigaretta ormai sull’orlo del filtro.
La band nasce un paio di anni fa da un’idea di Nino Tosh, musicista torinese non di certo nuovo alla scena underground per aver militato in band come Petrol, Mambassa e Betty Page. Il progetto viene portato avanti e trova poi il suo giusto equilibrio nel 2012 con l’ingresso nella band di altri due nomi altrettanto conosciuti nel panorama piemontese: Vito Guerrieri alla batteria e Franco Cazzola alle chitarre e tastiere.
Il suono e l’attitudine non sono nulla di nuovo, ma quanto c’è una botta del genere è difficile rimanere indifferenti. E la botta la si assapora maligna e assetata in questo album di esordio, che come ogni album di esordio che si rispetti, pecca di magnifica immediatezza e irrazionalità. Testi ermetici, ripetitivi, martellati in testa da melodie semplici e ritmiche da hangover violento. Pochissimi fronzoli e un cuore metallico che pompa sangue sporchissimo.

L’apertura con “Boia di sé” ci fa subito capire che di sfumature di colore non ce ne saranno molte e le luci rimarranno spesso spente, gli unici barlumi arriveranno dal fuoco e dai lampi. L’elettronica fa da padrona e il lavoro dei ragazzi dietro i beat assassini è stato magistrale. Il corpo si sbatte da una parte all’altra di un corridoio stretto, avanza strafatto a zig zag con gambe pesanti e testa ubriaca di rumore. “Fiore Nero” presenta una tastierina dai richiami new wave sotto l’uragano di chitarre, “Che Cosa Dire Di Noi” pare affievolire un poco la violenza inaudita in cambio di melodie più ragionate e articolate, senza rinunciare alla azzeccata cantilena martellante. I nervi non si rilassano mai.
L’episodio più riuscito rimane “Sexy Kitten #1”, perfetto esempio di vento analogico dal sapore rock’n’roll mischiato alla digitale e onnipresente tastiera robotica (dal vivo fidatevi che questo pezzo spacca in due gli stomaci). Il suono sembra sempre impacchettato e un po’ ovattato e rimane forte energia potenziale pronta ad esplodere, quasi come se fosse fiero di vestire underground, onorato di stare nel sottosuolo.

Oltre le sette tracce sono poi presenti vari remix più o meno tamarri ad aumentare il nostro vagare in questo claustrofobico labirinto. Il tunnel sembra riecheggiare e rimbombare anche al suono della cover Beatles “Helter Skelter”, perfettamente riadattata al suono nero di Settembre senza rinunciare ad una chitarra figlia della vecchia scuola. Si il rock’n’roll rimane vivo e vegeto anche in questo tornado digitale, e chi l’avrebbe mai detto?

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Lolaplay – La Città Del Niente

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La seconda canzone del nuovo disco dei Lolaplay, La Città Del Niente, è “Non Comprate Questo Disco”!
Davvero un titolo insolito, soprattutto se consideriamo che il rock dei Lolaplay ben si applicherebbe anche a folle oceaniche quali quelle presenti in eventi prestigiosi quali il concertone del Primo Maggio a Roma.
E dire che il ritornello dice chiaramente “non comprate questo disco e non ascoltate i Lolaplay o ucciderete anche voi la buona musica!”
Eppure proprio della buona musica è contenuta in questo disco fatto di tanto cuore, passione e soprattutto chitarre, batteria e bassoche vi entreranno nella testa in ogni singola nota!
Loro dicono che questa città è pazza e puttana, che” sembra che ti dia invece lei prende” ma pensandoci bene forse tutta la società forse è un po’ così ed è forse vero che non c’è “nessun posto in cui potrete scappare”.

“Musa” è una ballad straziante e commovente, una chiara dichiarazione d’amore a colei che è la migliore offerente per un cuore non ancora distrutto dal nobile sentimento.
“Signorina Paranoia” ha qualche riferimento alla new wave anni ottanta eal rock dei Dandy Warhols che diventarono famosi con la loro “Bohemianlikeyou” grazie a uno spot di una nota compagnia telefonica.
“Antidoto” è un pezzo onirico con qualcosa di magico così come il successivo “Fantasma” anche se i due sono antitetici nello stile e nella metrica delle liriche.
“Il Paese Dei Balocchi” si scaglia contro il “popolo di servili geni”, contro i reality show per far capire quanto ci sia di malato in questa Italia ormai ridotta all’osso dalla crisi.
“Confessione di un Killer Sentimentale” è una sorta di lettera da parte di un sano o di un pazzo che ci insegna che “elemosinare carezze ci può uccidere” e che se metabolizzato l’amore può trasformarsi in odio.

“Talk Show” unisce sperimentazione sonora su basi rock e dance con elettronica dosata e testi lontani dall’intimismo, tra realtà e visione onirica.
Chiude il tutto “La Sposa”, piena di echi dei Marlene Kuntz più gentili, che è una sorta di ultimo bacio di una splendida ragazza con cui vi verrà voglia di fare nuovamente l’amore.

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Progetto Luna – Ogni tanto sento le voci

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Max Paudice voce e chitarra, Marco Francavilla tastiere e cori, Alessandro De Carne basso e cori, Gionathan d’Orazio batteria ed Emanuele Nifosi percussioni formano la band torinese nata nel 2009: i Progetto Luna. Dal nome è abbastanza chiara l’influenza e il significato del loro esistere: la luna che accompagna il finir dei giorni, le notti, le paure e i sogni. La luna che diventa anche e soprattutto progetto multimediale per accompagnare la musica, i musicisti e i viandanti, con video, danze, effetti sonori e di luci. In tutto ciò si ricordano i primi Pink Floyd nelle loro esibizioni psichedeliche/allucinogene e i Muse per l’elettronica che diventa il mezzo (e non il fine) di massima espressione.

Per i Progetto Luna dopo la vittoria al concorso nazionale Rockelo 2011 e la partecipazione a Sanremo Autori nel 2012 è anche la volta dell’uscita del loro primo lavoro Ogni Tanto Sento le Voci, album di dodici tracce nelle quali il genere è subito facilmente inquadrabile: Rock.             
Quel Rock orecchiabile che come nel caso del primo brano “Fastidiosi Rumori” ti rimane nell’orecchio per parecchi giorni. Quel Rock che può anche contenere altro, come in “Onda” che inizia con suoni arabeggianti per poi sfociare nel regge sottolineando un testo impegnato. “Sono Vivo”, invece, con il suo testo essenziale sfodera un bel timbro chitarristico caldo e preciso. La vocalità invece appare sguaiata soprattutto nelle finali molto aperte, elemento che può un tantino infastidire e che senza il quale i brani sarebbero più apprezzabili e godibili. In “Ridere di Nuovo” protagoniste sono le tastiere che assieme agli altri strumenti creano un buon amalgama musicale, come in “Respira”, quinto brano dell’album il cui testo evoca esperienze soggettive e particolari. I testi del sesto e settimo brano “10” e “Un Mondo senza Re” sottolineano le oggettive speranze per il futuro e gli imprescindibili ostacoli della vita, avvicinandosi all’elettronica e a qualcosa di già sentito musicalmente parlando. Il brano che da il titolo all’album “Ogni Tanto Sento le Voci” è quello più interessante soprattutto per la struttura musicale e come il buon Rock che si rispetti arriva la ballata “Quello che Vorrei”, dolce, romantica, sospirata e da ballare stretti-stretti in un abbraccio. Gli ultimi due brani di Ogni Tanto Sento le Voci, invece, si rinchiudono in quell’atmosfera già sentita spesse volte durante il lavoro.

Un lavoro che oltre ai suoi tanti pregi (approccio multimediale, testi impegnati, buon’amalgama strumentale, belle chitarre, grafica interessante dell’album e soprattutto del sito web) appare certe volte quasi scolastico nei brani in cui si avverte quell’elemento eccessivamente orecchiabile e già vissuto. La parte vocale potrebbe migliorare non solo nella chiusura delle frasi ma anche nella comprensione dei testi che certe volte appare difficile, e infine in questo miglioramento generale entra anche l’Elettronica che potrebbe svilupparsi ulteriormente per diventare il genere predominante assieme al Rock senza rimanere in secondo piano.                                                          

Insomma, un album che c’è, esiste, ma che non entusiasma se non fosse per una o due canzoni e che necessiterebbe di vari miglioramenti per fare emergere ancora di più tutti i suoi buoni elementi.
http://www.youtube.com/watch?v=fjox_bzSr7U

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The Crazy Crazy World Of Mr. Rubik – Urna Elettorale (The Crazy Crazy Crisi) BOPS

Written by Novità

Il punto di questo (simpatico) Urna Elettorale (The Crazy Crazy Crisi) dei tre The Crazy Crazy World Of Mr. Rubik è l’indecisione. TCCWOMR suonano filastrocche ironico-grottesche immerse in un rock rarefatto, dalle ritmiche sincopate, quasi di stampo World Music, ma non riescono a stupire quanto dovrebbero. Le canzoni potrebbero essere sbarazzine, ma in alcuni casi s’allungano troppo (non è questione di minutaggio). C’è della carica critica nelle liriche, soprattutto quelle più sensate, ma non abbastanza da farne un disco “d’opinione”. Ci vedo, in controluce, tutta una visione d’insieme che tenta di mostrare il non-senso delle cose (“Parababè”, “Sebele”), ma secondo me non è sfruttata al massimo. Tecnicamente ci si mantiene sul semplice, basando tutto su chitarre crunchy, percussioni saltellanti e suoni/rumori d’atmosfera (e questi due elementi costituiscono la parte più interessante del disco, nascosta in introduzioni, code, incisi, deviazioni varie). Le voci potevano essere migliori, ma in un lavoro del genere (Rock sospeso, Elettronica minimal) fanno ciò che devono.
In ogni caso, Urna Elettorale riesce a regalare, qua e là, qualche soddisfazione: la title track si lascia ascoltare con facilità, e qualcosa rimane incastrato nelle orecchie a solleticarci la fantasia anche in altri episodi (“Cambiamo Forma”, “È Tempo Di…”).
Urna Elettorale è un po’ come quell’amico che abbiamo tutti: indeciso, incostante, ma con quella faccia simpatica che non ci permette di ignorarlo quando lo becchiamo per strada.

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Adam Carpet – Adam Carpet

Written by Recensioni

Mi arriva una mail. Contiene una serie di informazioni ghiottissime su questa band, Adam Carpet. Vorrei rivelarvele subito dall’inizio, così col convincervi a parole della validità di questo progetto, ma proverò far parlare la musica, per prima cosa. Anche se l’impresa ha il gusto delle cose impossibili.
Il primo brano che ascolto è sul tubo: “Babi Yar”. Avete presente quando siete lì, un po’ annoiati in un qualche anonimo pomeriggio d’inverno e vi arriva quella canzone che appena parte sbarrate gli occhi increduli? Ecco, io ho reagito così: per qualche istante mi sono pure domandato se non mi fossi addormentato, precipitando in qualche sogno di indefinita bellezza.

Che cosa sono questi Adam Carpet?

Dei mostri, forse degli alieni. Suonano musica extraterrestre, un intenso di mix di elettronica, rock, industrial, post rock e tutto quello che potete vederci. È un qualcosa di travolgente, sublime: ci sono groove e ritmiche serrate,suoni pazzeschi, divagazioni, atmosfere intense e dense di ispirazioni.
Ho detto suonano. Sì suonano: di programmato ci sono solo i synth e qualche arpeggiatore, il resto è tutto sudore di braccia e mani. E si sente. L’energia è davvero tanta, ti pervade e ti invade come poche cose. Forse in molti storceranno il naso a sapere che è un act interamente strumentale: mi dispiace per voi, ma qua non c’è posto per le parole, l’organico soddisfa già a dovere ogni esigenza comunicativa.

Ora come ora mi accorgo di quanto questo sia il tipico disco che le parole servono davvero poco a descrivere: ogni brano è talmente ricco di spunti e di sonorità che riuscire a trovare una decina di frasi che li inglobi tutti è praticamente impossibile, almeno quanto descrivere ogni singolo brano. Rileggo le frasi che ho appena scritto: suonano un po’ ridicole rispetto alla potenza sonora che mi sta passando nelle orecchie, una misera briciola di un qualcosa di gigantesco.
Provate per credere: lasciatevi travolgere dalle ritmiche ipnotiche dell’opener “Carpet”, dalla disperata riflessività di “Carlabruni?” e dalle sonorità grezze di “Jazz Hammered”. Fate solo anche un salto sul tubo, sentitevi di due singoli apripista di questo primo lavoro omonimo, “Babi Yar” e “I Pusinanti” e lasciatevi conquistare.

Infine, chi sono questi Adam Carpet?

Due batterie, due bassi, chitarra e synth. Componenti dei Timoria, delle Vibrazioni e di altri gruppi di livello. Certamente dentro questi soggetti vivono dei mostri, forse degli alieni. Oltre a questo è di indubbio interesse la scelta del packaging di questo debutto: un box in carta riciclata contenete un codice per il download digitale, la t-shirt del gruppo e una seed-card, che una volta innaffiata diventerà un fiore.
È un progetto indubbiamente di avanguardia, sia scenicamente che musicalmente. Chiedo scusa per il senso di ineffabile che questa recensione trasmetterà, ma posso farci davvero poco.

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Uno non basta – Narciso dilaga

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Una bionda a gambe aperte, truccatissima, in mutandine e canotta slabbrata, seduta su un divano di pelle, sotto la scritta “Uno non basta”, a me, che sono maliziosa, fa mal pensare. E poi storcere il naso.  Incazzare forse rende meglio l’idea. Perché è vero che tira più il proverbiale pelo di che un carro di buoi, ma se la finissimo con una certa iconografia stantia del rock alla AmbraMarie, sarebbe anche meglio. Mi riferisco alla copertina di Narciso dilaga, disco degli Uno non basta. Sul retro, per simmetria, il b-side della fanciulla. MADDAI! Sì, sono una femminista convinta e sì, la copertina sarebbe bastata a non farmi recensire questo lavoro. Ho deciso comunque di mettere da parte i miei pregiudizi vittoriani e ascoltare.  L’elettronica degli Uno non basta arriva diretta dagli anni ’90, come dimostrano le prime due tracce, Zombie e Per due.  Il cantato è sillabico e quasi parlato, il vocalist sembra non cantare: ne giova la chiarezza del testo, ma nel tripudio ritmico e sintetizzato degli arrangiamenti, non sarebbe guastata un po’ di melodia. I testi sono pregevoli: i ragazzi lavorano per immagini e spesso devono servirsi di metafore già sentite, ma risultano comunque efficaci. Succede, ad esempio, in Vi ammiro vi uccido, dove frasi come “milioni di contenitori vuoti/invece di una testa o di un cervello” o “ed un palmare nelle tasche che controlla il mondo/che neanche dio al posto suo è riuscito a fare tanto” non brillano per chissà che riferimenti o chissà che originalità, ma chiariscono subito che l’elettronica della formazione di Roma non è puro divertimento da discoteca. E come a rafforzare quest’idea, ci si allontana dalla cassa in quattro in Passi da gigante, dove il dub alla Otto Ohm la fa da padrone. Fino a qui, gli Uno non basta avrebbero potuto presentare un Ep buono e rappresentativo. La band è compatta, preparata e capace di fare emergere una certa opinione e una certa attenzione alla realtà sociale odierna. Sono tecnicamente capaci e che il genere vi piaccia o meno, hanno indubbiamente qualcosa da dire. Qualità sorprendenti se si pensa che i ragazzi lavorano insieme a questo progetto solo da due anni, che normalmente è il tempo che una band impiega per trovare un proprio criterio compositivo. Peccato che l’album prosegua per altre otto tracce. Parla sempre poco e No passano senza lasciare ricordo di sé, Fuoco nel vento brilla solo come amarcord anni ’90, La fine ricalca Discolabirinto dei Subsonica, tanto da aver risvegliato la suffragetta che c’è in me all’urlo di “Plagio!”. Grigio Islanda, fortunatamente, riequilibra il cd: a mio avviso è la traccia più efficace, più riuscita, più potente. Il testo è più semplice di quello degli altri brani, costruito per immagini che occupano sezioni intere e non singoli versi, il cantato è finalmente pieno di voce, svelando un timbro particolare che ricorda quello di Davide Autelitano dei Ministri. La title-track Narciso dilaga sembra il manifesto estetico della band, soprattutto per quanto riguarda gli arrangiamenti, strazeppi di artifici elettronici che appesantiscono un testo già pieno di anafore sulla parola “Narciso”. L’esercito degli schiavi è l’ennesima dimostrazione che questi ragazzi sanno scrivere dei gran bei testi ma non sanno renderli in musica. Il senso si perde tra la il battere della cassa e i synth. Peccato.
Ps. Sul cd, è stampata l’immagine della ragazza. Vestita. Senza faccia (tagliata) e con degli shorts giro ****, ma vestita.

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