Sperimentali, evocative, avanguardiste – Intervista a Bono / Burattini

Written by Interviste

Amicizie di lunga data, sperimentazione, avanguardia e tutto ciò che ruota intorno al nuovo progetto delle due musiciste bolognesi.

Qualche sera fa abbiamo intervistato Francesca Bono e Vittoria Burattini, fondatrici del duo Bono / Burattini. Nel febbraio scorso le due musiciste bolognesi hanno pubblicato Suono In Un Tempo Trasfigurato, debutto di cui abbiamo avuto modo di parlare qui.
Tra i ricordi di come è nata la loro amicizia, le sonorità di questo nuovo progetto e il rapporto con Jonathan Clancy della Maple Death Records, è stata davvero una piacevole chiacchierata.
Di seguito le domande e le risposte.

Federico: Come vi siete conosciute? E come mai avete deciso di fare un disco insieme?

Vittoria: La prima volta che ci siamo conosciute eravamo a casa di amici comuni. Si parla di quindici, venti anni fa. Tutte e due abitiamo a Bologna, abbiamo gli stessi interessi, entrambe abbiamo sempre suonato e quindi ci si incontrava ai concerti e alla fine, in quelle che vengono chiamate “le scene”, le persone si conoscono e si frequentano.
Noi ci frequentavamo però anche indipendentemente dai motivi musicali, e questa è stata e rimane una cosa molto bella perché abbiamo sempre continuato a incontrarci come amiche. Tuttora ci vediamo molto spesso anche con le nostre rispettive famiglie.
Diventando più grandi, c’è meno tempo, ci sono mille impegni, ci sono le famiglie, il lavoro; quindi, quando a Francesca hanno commissionato di sonorizzare i corti di Maya Deren e lei ha pensato a me, abbiamo detto subito “ok, entriamo in sala”.
Detto questo, preferiamo comunque trovarci per delle cene e per cose extra-musicali.

Francesca: Io sono sempre stata grande fan dei Massimo Volume, nel 2013 abbiamo anche contattato Vittoria per suonare in un pezzo degli Ofeliadorme e i Massimo Volume mi hanno chiamata per fare i cori su un loro disco. Quindi alcune cose insieme erano già state fatte, però era da un po’ che avevamo voglia di fare qualcosa di nostro, e poi ci si è presentata l’occasione.
C’è stato un periodo in sala prove in cui facevamo delle jam a tempo perso con synth e batteria. Avevamo voglia di stare insieme e lo facevamo in sala prove, suonando.

Vittoriano: Dato che avete già accennato alla cosa, come mai la scelta di sonorizzare i cortometraggi di Maya Deren?

F.: L’idea della regista era che i suoi corti fossero muti, che non avessero colonna sonora. Poi Home Movies ha deciso di fare questa rassegna su Maya Deren e su altre cineaste e mi hanno contattata chiedendomi se mi andava di musicare questi film. Io conoscevo la regista ma non approfonditamente, quindi si è risvegliato un interesse e ho chiamato subito Vittoria.
La musica è nata come commento sonoro a questi corti, ma fin da subito non volevo fare un lavoro didascalico: desideravo soprattutto che la sua visione artistica, la sua arte cinematografica, fosse trasposta in musica. Infatti, per la sua natura evocativa, ho avuto subito la sensazione che questo progetto musicale potesse viaggiare da solo sulle sue gambe, anche senza le immagini.

F.: Ascoltando l’album si percepiscono molte influenze musicali. A chi vi siete ispirate?

V.: Dal punto di vista della batteria, quello che io provo a fare davanti ad una canzone o ad una melodia è cercare di trovare l’atmosfera giusta. Pertanto, la prima cosa che mi viene da dire è che ho cercato una forma percussiva che fosse nel mio stile, molto ispirata agli anni Settanta. Anche con i Massimo Volume ho un drumming che si ispira a quel periodo. Sono partita da questo, e poi tutte le cose che abbiamo ascoltato e che conosciamo sono venute fuori nel disco.
A me piacciono moltissimo compositori come Steve Reich, Max Richter, tutta quella musica seriale e ripetitiva. L’idea di provare a suonare con un sintetizzatore piuttosto che con degli altri musicisti, quindi con un qualcosa di più metronomico e analogico, è stata per me una sfida molto interessante. Abbiamo cercato di trovare una formula tra uno strumento elettronico molto vivo e morbido e delle soluzioni ritmiche che potessero abbellirlo e dargli ancora più profondità.

F.: Non siamo partite dicendoci da dove iniziare e a cosa ispirarci. Io avevo buttato giù delle parti di synth perché era da un po’ di tempo che volevo sperimentare con il Juno 60 che posseggo da quindici anni. È presente anche nell’ultimo disco degli Ofeliadorme, ma in mezzo a tutti gli altri strumenti. Io invece avevo carpito le potenzialità di questo synth analogico, oggigiorno raro, che può essere mellifluo ma anche acido e aggressivo.
Ispirandomi allo stile di Maya Deren, che con pochi mezzi esprimeva molto, ho pensato che con poco poteva nascere della musica interessante, e la sfida per noi è stata proprio quella. Poi suonando sono venuti fuori anche i nostri gusti musicali, io ad esempio ascolto anche molta roba elettronica.
Sono usciti riferimenti alle colonne sonore anni Settanta, ma è stato un lavoro molto istintivo, non fatto a tavolino.

F.: In un certo senso quindi è un po’ il contrario, non vi siete ispirate a un tipo di musica ma è il suono finale del disco a far venire alla mente molti riferimenti musicali.

F.: Esattamente. Io ad esempio sono una grande fan dei Boards of Canada, ma nel disco non si sente questa ispirazione perché io e Vittoria abbiamo dato alla musica delle nuance più da colonna sonora. Sicuramente mi sono lasciata ispirare da compositori come Philip Glass, Angelo Badalamenti, Ennio Morricone, Brian Eno. Ognuno ci sente un po’ quello che vuole.

V.: Continuando a parlare del vostro esordio, cos’è questo tempo trasfigurato che dà il titolo al disco?

V.: Non ho idea di cosa sia, nel senso che avverto che qualcosa è cambiato. Per quanto mi riguarda, ma penso di poter parlare anche per Francesca, la mia vita è cambiata. Sono un’altra persona rispetto a com’ero quindici anni fa. Il tempo per suonare e fare musica si è ridotto drasticamente, e per me è come se questo tempo prezioso fosse trasfigurato, traslato in un’altra dimensione. Ormai ho capito che nella vita il mio vestito migliore è quello di quando vado su un palco o entro in uno studio di registrazione e cerco di comporre. Quello è il momento in cui rendo la mia vita più piacevole e più bella.
Sono questi miei ultimi quindici anni, questi cambiamenti, che hanno trasfigurato la mia esistenza.

F.: Ci sono diverse chiavi di lettura del titolo del nostro disco. Sicuramente una di queste è quella che ha dato Vittoria, e forse questo tempo trasfigurato è anche il tempo che chi come noi ha qualche decennio sulle spalle ha visto cambiare anche dal punto di vista sociale, dal punto di vista del progresso.

V.: Questi cambiamenti li avvertite anche dal punto di vista della scena musicale bolognese e, più in generale, italiana?

F.: Sì, forse anche da questo punto di vista. Diciamo che abbiamo fatto un disco fuori dal tempo sotto vari punti di vista, ispirato anche al nostro vissuto come musiciste e come esseri umani. Ne abbiamo viste tante, ciononostante desideriamo ancora esprimerci attraverso la musica.
“Suono” può essere inteso come sostantivo ma anche come verbo. Io suono, nonostante la trasfigurazione del mondo e di ciò che ci circonda. Nonostante tutto, sublimo quello che vivo e lo trasformo in un messaggio sonoro, in una vibrazione.

F.: Mi ha incuriosito il modo in cui avete utilizzato la voce, che di fatto risulta essere un terzo strumento. Come mai la scelta di utilizzarla in questa maniera, invece che scrivere testi veri e propri o fare un disco strumentale?

F.: Ti rispondo su due piani.
Devo dire che hai quasi colto il mio desiderio iniziale, che era quello di non usare per niente la voce; volevo fare un qualcosa di strumentale, anche perché nella mia carriera musicale si è quasi sempre parlato di me come cantante e volevo un po’ smarcarmi da questa etichetta. Oltretutto capita spesso che artiste donne che cantano vengano percepite più come cantanti che come musiciste, quasi fosse una diminutio. Tutto questo è assurdo, dal momento che la voce è a tutti gli effetti uno strumento ed è anche molto difficile da utilizzare, ed essere “solo” cantanti non ha certamente meno valore.
Successivamente, durante la composizione, ho pensato di utilizzare la voce come un terzo strumento che accompagnasse il suono e gli conferisse più profondità. Per questo ho deciso di inserirla in due brani, ma senza seguire un testo vero e proprio, per rendere il tutto più evocativo. 

C’è una sola parola riconoscibile sul disco, ed è presente in The Ballroom. Tra l’altro anch’essa è stata trasfigurata dal lavoro di effettistica di Stefano Pilia, tanto che la “s” di “spin” sembra essere una “f”, come se anche le parole avessero subito un processo di straniamento.
Voglio continuare a sperimentare in questo senso. Ultimamente sto ascoltando molte cose di avanguardia consigliate da amici in cui c’è una certa ricerca per quanto riguarda la voce. 
Aggiungo che anche Vittoria ha una bella voce e inizialmente avevo intenzione di far cantare anche lei sul disco, poi però non c’è stato il tempo, in quanto abbiamo registrato in due giorni e mezzo in presa diretta e abbiamo fatto poche sovraincisioni. 
In ogni caso, l’utilizzo della voce in un modo non classico è un qualcosa che vogliamo continuare ad esplorare con questo progetto.

F.: Magari l’assenza di testi veri e propri può anche essere un modo per far sì che le persone si concentrino maggiormente sulla musica?

F.: Avendo scritto sempre testi in inglese, nella mia musica questo fattore è meno presente rispetto a tante altre band che invece cantano in italiano. La gente che ascolta i miei brani tende comunque a concentrarsi di più sulla musica, per ovvie ragioni linguistiche.
La presenza del cantato influenza sempre la musica, perché bisogna fare attenzione alla lunghezza delle parole, agli accenti e a tante altre cose e quindi si viene a creare tutta una melodia vocale che ha un proprio andamento e che spesso ruba l’attenzione.
Noi invece abbiamo messo tutti gli strumenti allo stesso piano, cercando di stimolare un’esperienza diversa anche dal punto di vista sensoriale.

V.: Adesso una classica domanda di rito: quali appuntamenti live avete in programma prossimamente? Parteciperete a qualche festival in particolare?

V.: Alcune date tra fine aprile e inizio maggio sono già uscite: il 4 e 5 maggio saremo a Roma e Napoli, il 25 a Palermo.

F.: Aggiungo che suoneremo anche a Rumore Adriatico a Cattolica, al festival di Radio Blackout a Torino, all’Handmade di Guastalla e a Risveglio di Periferia a Milano.
Abbiamo in ballo anche un paio di date all’estero che speriamo di annunciare quanto prima.

F.: Quanto delle vostre esperienze nelle vostre band madri avete portato in questo nuovo progetto?

V.: Io musicalmente mi sono formata con i Massimo Volume, tutto ciò che ho imparato come musicista l’ho fatto crescendo con loro. Del resto ho iniziato a suonare con loro che avevo diciannove anni, pertanto abbiamo imparato insieme a suonare e infatti, come spesso dice anche Mimì (Emidio Clementi, ndr), nei nostri limiti siamo comunque riusciti a creare un nostro suono ben riconoscibile.
Spesso mi viene detto che ho uno stile inconfondibile e questo è il complimento migliore che possa ricevere, anche perché non è così facile che un batterista riesca a sviluppare uno stile tutto suo e riconoscibile.
Ho trasferito tutto questo nel nostro disco, cercando di rendere più profonde le atmosfere che Francesca evocava e disegnava. Sperimentare nuove sonorità restando comunque fedele al mio stile è la cosa a cui punto maggiormente.

F.: La musica che suono con Vittoria ha poco a che vedere con quello che faccio con gli Ofeliadorme e forse il tratto in comune tra i due progetti è proprio il mio mood, il tipo di accordi che suono. Credo che in fondo si percepisca che ci sono comunque io dietro la parte melodica.
Il fatto di dover scrivere dei brani strumentali e non delle canzoni canoniche mi ha permesso di poter sperimentare ed espandere i miei orizzonti. Tendo spesso a scrivere cose “moody”, e mi rendo conto che ciò che ascoltavo a quindici anni a volte ritorna prepotentemente a galla sotto altre spoglie.

V.: Prima avete citato Jonathan Clancy: come vi siete trovate a lavorare con lui e con la Maple Death? E, dal momento che parliamo di un’etichetta dal grande respiro internazionale, come è stato recepito all’estero questo vostro primo disco?

F.: Conoscevamo già John e lo abbiamo contattato quando una persona che aveva assistito al nostro primissimo soundcheck ci ha consigliato di girare a lui il nostro materiale. Ho mandato quella registrazione a John chiedendogli se conoscesse qualcuno che potesse essere interessato a un nostro eventuale disco e lui ha risposto che gli sarebbe piaciuto farlo con la Maple Death
Con lui ci siamo trovate estremamente bene e si è creato un ottimo rapporto, è una persona che ha una conoscenza musicale davvero vasta. 

A proposito del respiro internazionale dell’etichetta, già una settimana prima dell’uscita del disco siamo state trasmesse su BBC Radio 6 Music da Tom Ravenscroft, figlio di John Peel. Inoltre siamo apparse su BrooklynVegan, la nostra musica è passata su NTS, una radio londinese che trasmette in tutto il mondo, e siamo state recensite da un importantissimo quotidiano tedesco (Taz, ndr). Abbiamo avuto dei riscontri immediati che ci hanno fatto davvero piacere.
La Maple Death è nel suo campo una delle poche etichette italiane dall’afflato così spiccatamente internazionale, e il connubio tra noi e loro è stato davvero molto felice.

V.: John inoltre ha curato tutto l’immaginario del disco, proponendoci vari artisti per la copertina. Lui ha un sacco di conoscenze anche per quanto riguarda grafici e designer, e Alicia Carrera, colei che ha poi curato il nostro artwork, ci è stata consigliata proprio da lui.

F.: Aggiungo che lui tiene tantissimo anche all’aspetto estetico dell’oggetto, i dischi confezionati da lui sono dei veri gioielli. La cura che ci mette è quasi anacronistica ma assolutamente importante.

V.: È vero, i vinili prodotti da lui sono curati in modo maniacale. Del resto tutto ciò che caratterizza un disco è un’opera d’arte, comprese grafica e copertina. Anche in questo, è davvero stimolante e gratificante lavorare con un’etichetta come la Maple Death.

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Grazie mille per la piacevole chiacchierata! Speriamo di incontrarci in qualcuna delle vostre date in programma tra primavera ed estate!

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Last modified: 12 Dicembre 2023