Piano Magic – Closure

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In un periodo in cui è d’abitudine celebrare i ventennali (che siano riferiti alla nascita di una band o a quella di un disco) c’è chi compie vent’anni e senza essersi mai auto-celebrato né aver mai ricevuto attenzione almeno pari a quanto la proposta avrebbe meritato, lascia, o meglio chiude.
È il caso della formazione anglo-francese dei Piano Magic da sempre guidata da Glen Johnson, uomo capace di esprimere la sua grande sensibilità nei più svariati modi risultando sempre riconoscibile e fedele ad un’estetica scura, elegante e sempre pronta ad estendere la propria “visione” senza mai alterarla. Questa meravigliosa creatura nel corso degli anni è stata capace di offrirci dischi di grandissimo livello (su tutti Artists’ Rifles, The Troubled Sleep of Piano Magic, Disaffected, Ovations e l’Ep Incurable) impreziositi da splendide collaborazioni (basti pensare che la band firmò il ritorno, dopo trent’anni di silenzio, di Vashti Bunyan nella suggestiva “Crown of the Lost”, e si potrebbero citare ancora Brendan Perry dei Dead Can Dance, Alan Sparhawk dei Low e tanti altri giganti) andando a distinguersi per la sua grande e fascinosa capacità espressiva.

Anche quest’ultimo album è ovviamente popolato da fantasmi e pregno di quella sensazione di abbandono che da sempre contraddistingue le liriche di Johnson che qui si fanno ancora più personali (negli ultimi mesi il deus ex machina della band ha dovuto affrontare la fine di una lunga relazione e la morte del padre) aumentandone l’impronta cantautorale. Closure è disco che cresce ascolto dopo ascolto caratterizzato da un fluire capace di rappresentare pienamente la poetica maturata negli anni da una band che qui, se ancora ce ne fosse bisogno, ci dimostra tutta la sua immensa classe, per quanto l’assenza di una significativa e viscerale sferzata capace di non variarne il mood generale (cosa in cui Johnson è un maestro) me lo faccia collocare un gradino sotto i dischi citati precedentemente ma sicuramente sopra il precedente Life Has Not Finished With Me Yet del quale, pur ereditando un certo manierismo, risulta indubbiamente più sentito. In questa conclusiva avventura, oltre che da vari ospiti, Glen Johnson viene accompagnato da Franck Alba (chitarra), Jerome Tcherneyan (batteria, percussioni) ed Alasdair Steer (basso). 

Il disco inizia con la lunga title-track (quasi 11 minuti), un brano dall’estetica Wave triste e romantica che, partendo da spettrali synth accompagnati da un’evocativa fisarmonica va ad immergersi in umori Shoegaze nei quali le chitarre in primo piano vengono accompagnate da cupi cori, per poi affidare il finale al pianoforte che ne (r)accoglie il senso di perdita ed abbandono e si conclude con la ballata strappalacrime, ottimamente orchestrata, di “I Left You Twice, Not Once” ultimo della lunga serie di addii proposti.
Durante l’autunno perenne di questo tragitto incontreremo l’intenso drumming supportato dal buon lavoro delle chitarre, qui più incisive, accostate ad un sintetismo misurato di “Landline” e la descrizione della fine di una relazione affidata al Pop Wave di “Exile”, col suo freddo battito iniziale che va gradualmente a distendersi nel sentimentalismo riflessivo creato del tappetto di synth.
I 3 brani migliori del disco sono il decadentismo (Chamber) Pop Wave di “Living for Other People”, esaltato dal violoncello di Audrey Riley, nel quale troviamo un Glen Johnson molto intenso, in particolar modo durante uno spoken fumoso e denso; il dolore delle relazioni andate e di un sentimento che resta nell’inebriante “You Never Stop Loving (The One That You Loved)”, brano dove le dolci trame di chitarre vengono accompagnate da vibrafono ed archi ad innalzarne ulteriormente il romanticismo; fino a giungere alla malinconica e cinematografica “Attention to Life” dove alla voce troviamo Peter Milton Walsh (The Apartments) co-autore di questa perla, sincera e poetica riflessione di un uomo perso tra due donne, che la tromba di Oliver Cherer rende ancor più struggente di quanto già non faccia il delicatissimo arrangiamento orchestrale. 

Closure è tra i lavori più coesi e meticolosi che il mondo Piano Magic ci abbia offerto in questi vent’anni di carriera e rappresenta una degna conclusione per una band che sicuramente mancherà. Una band che pescando con profonda passione e sincerità dalla sua anima più profonda, oltre che da vari generi, metodi e artisti (prevalentemente scuri), ha creato un sound personalissimo regalandoci brani che ci accompagneranno per sempre, perché una relazione importante può sì chiudersi ma l’enorme patrimonio lasciatoci non ci abbandonerà mai.

Last modified: 20 Febbraio 2019

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