Hidden Jam – October Edition

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Il nostro format social torna anche ad ottobre nella sua versione scritta con tre album – vecchi e nuovi – tutti da scoprire.

E voi siete felici che ora diventa buio prima? Siamo arrivati in quel periodo dell’anno e la stagione autunnale inizia a carburare a pieno regime. Torna per voi Hidden Jam con tre gemme che possano impreziosire i vostri database e arricchire le playlist già folte per prepararsi al letargo invernale.

1. Who Calls So Loud – Who Calls So Loud
[2008 | Sorry, Adagio830 | screamo, post-hardcore]

Ci sono supergruppi e supergruppi. Non sono mai stato un fan a priori dei supergruppi dove vengono sciorinate le credenziali come se si stesse scrivendo un curriculum per LinkedIn. Riunire artisti di band e percorsi artistici differenti può essere una carta vincente da giocarsi, come invece un colossale flop o buco nell’acqua.

Tenendo in mente questa premessa vi presento come prima hidden jam una band comparsa quasi un ventennio fa nelle scene, apparendo come un progetto estemporaneo: gli Who Calls So Loud e rientrano perfettamente nella descrizione “ci sono supergruppi e supergruppi” perché l’ensemble qui riunito recita membri da Portaits of Past, Beau Navire, iwrotehaikusaboutcannibalism e Funeral Diner.
Ora capite che, una volta deciso di formarsi, il terzetto composto da David Manuel Mello, Freddie Ruiz e Matthew Martin Bajda pone l’asticella piuttosto in alto, come farebbe Mondo Duplantis di questi tempi.

La discografia della band della Bay Area consta di un EP (2007) e di questo LP omonimo nel 2008. Il livello delle composizioni è figlio dei tempi che furono, con uno screamo imbastardito da preziose contaminazioni, in primis il post-hardcore (non potrebbe essere altrimenti) e delle strutture emozionali che amano districarsi con ritmiche spezzate e pieni/vuoti che si rifanno al post-rock di fine anni ’90. Tutto funziona a meraviglia.

La voce ha il timbro classicheggiante con delle urla mai troppo rantolate, mentre, provate per credere, le chitarre non sbagliano un arpeggio, una power chord, una progressione, un intreccio – sostengono ogni rullata e cambio d’umore con una precisone martellante e coinvolgente, con una sezione ritmica mai ferma e stantia, grazie a una batteria nervosa e impazzita.

I pezzi scollinano facilmente i quattro minuti, talvolta si sforano anche nove minuti e io non saprei proprio cosa consigliarvi, perché gli Who Calls So Loud sono un fiume in piena e la freschezza compositiva è viva da Sleep-Like a Slip Step. Se proprio volete l’assaggino sfizioso per mettere un piede dentro questa perla, andate con I Need To Experience the Ultimate, ma sono convinto che amerete tutto qui dentro. Parola di lupetto screamo.

2. We Came Out Like Tigers – Agelessness and Lack
[2012 | Dog Knights | screamo, black metal, folk]

Ci sono band invece che non sembrano figlie dell’epoca in cui pubblicano dischi e suonano più avanti del dovuto, senza necessariamente inventare o rivoluzionare qualcosa, ma anticipando certi modi di frullare gli ingredienti nella scena musicale d’appartenenza.

È il caso dei We Came Out Like Tigers, band di Liverpool nata nel 2008 e che nel 2012 si propone sul mercato con Agelessness and Lack, che affina i lavori proposti negli anni precedenti mettendo in luce una proposta che strizza l’occhio tanto allo screamo quanto al black metal senza disdegnare una spruzzata di influenze folk, complementare e mai troppo invadente. Un feeling che salta fuori grazie all’uso del violino del frontman e vocalist Simon Barr.

C’è tanta atmosfera e c’è altrettanto talento in una band che, dichiarandosi antifascista e anarchica ed esplorando le tematiche sociali e individuali che affondano nel dramma personale e sociale britannico di quegli anni, è stata sfacciatamente politica. Con una propensione decisa al DIY, l’album è un ottimo esempio di come calibrare delle chitarre che vanno di tremolo picking quanto di urlato hardcore e ritmiche più intime, prima di concedersi sfoghi rabbiosi che strillano addirittura emoviolence.

Il disco brucia e arde con costanza: “Brace for a lifetime of discontent, Orwellian nightmares that never end. You will mourn the sincerity that greed undid” – viene gridato con disperazione fluttuando nelle ombre divorate dalle corde di violino. C’è una contrapposizione di intenti notevoli, tra una brutalità e una delicatezza che scorre nelle vene dei We Came Out Like Tigers in un immaginario tanto riflessivo quanto ideologico.

La band cesserà di esistere nel 2014 per poi reincarnarsi nei Dawn Ray’d – più focalizzati sul black metal e sulla scena Red and Anarchist Black Metal (RABM), quanto mai necessaria in un genere ostico e poco avvezzo a una simile apertura mentale e politica.

3. Life Long Tragedy – Destined for Anything
[2004 | This Blessing Curse, Deathwish Inc. | hardcore punk]

È stato un hidden jam molto introspettivo per certi versi (eh eh le urla non le dimentichiamo mai), quindi per l’ultima chicca della rubrica rialziamo un po’ gli umori e l’adrenalina. E, visto che abbiamo parlato di periodi generazionali, non possiamo che andare a pescare da uno dei più floridi per la rinascita della scena hardcore americana.

Questa volta torniamo indietro fino ai primi anni 2000 per parlarvi dei Life Long Tragedy, gruppo della Bay Area californiana che nel 2004, pubblicando Destined for Anything, va ad inserirsi in quel calderone deathwishiano di band che avrebbero creato attenzione e coinvolgimento attorno a una rinnovata energia hardcore di inizio nuovo millennio. I Nostri si formano giovanissimi, l’età è quella della high school, con i membri attorno ai sedici anni. La copertina del disco ha delle Tumblr vibes importantissime e noi di questo siamo solo felici.

Nonostante l’anagrafe possa suggerire un’immaturità di fondo, i Life Long Tragedy sono invece già con le idee molto chiare. Cristalli di hardcore che scollinano oltre i breakdown e gli stop’n’go ideali per del sano mosh e crowdsurfing. Il giochetto di questo periodo storico dell’hardcore lo si conosce facilmente e quindi per spiegarvelo prendiamo come esempio l’iconica Roll the Credits, che viene trascinata da un uso melodico affilatissimo che vi fa cavalcare le dune desertiche più alte.
“Their eyes are open, but they don’t see a fucking thing” è una linea di testo generazionale urlata da Scott Phillips con un certo disincanto che solo questo genere sa regalare.

Sono 29 minuti che passano con il piede sempre ben premuto sull’acceleratore, in cui la rabbia giovanile ribolle. L’affinamento musicale sarà affidato all’ottimo (e sottovalutato) Runaways del 2008, che amplia il tiro dei Life Long Tragedy, rallentando le distorsioni, con un suono molto più personale e peculiare, aprendosi a cuore aperto alla melodia (la stupenda Youth è un ascolto obbligato).

Immerso in questa ondata nostalgica, scopro con tristezza su Reddit che il chitarrista e fondatore RJ Phillips è venuto a mancare nel 2020; dopo la parabola con i Life Long Tragedy, lo si poteva trovare nei Creative Adult insieme al cantante Scott, mentre Cody Sullivan è tutt’ora negli Spice, side project, tra gli altri, di Ross Farrar e Jack Casarotti dei Ceremony.
Nel frattempo, voi dedicatevi comunque al ripasso della discografia dei Life Long Tragedy, breve ma essenziale per saziarsi con buona musica.

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Last modified: 28 Ottobre 2025