Live Report

Primavera Sound Festival 2014 | Day 1

Written by Live Report

È giovedì 29. Vengo svegliata da un trillo del cellulare mai udito prima. Sono le 15.45 e l’app del Primavera Sound mi ricorda che tra un quarto d’ora c’è Colin Stetson all’Auditori Rockdelux. La serata di ieri seppur deludente si è conclusa alle 5 di questa mattina, ed io mi sono fatta fregare dal jet lag della corsa in taxi tra l’Apolo e il Borne. Questa applicazione che funziona da reminder e ti avverte ogni qual volta sta per iniziare una delle esibizioni che hai salvato tra i preferiti si rivelerà ben presto un’ansiogena trovata, complice la mia ingenuità prima della partenza nell’apporre stelline sulla quasi totalità degli show. Pur di non ascoltare quel trillo che arriverà puntuale ogni quarto d’ora la disinstallerò prima della fine del festival. In questi tre giorni il Forum non conoscerà imprevisti. Ogni evento inizierà e terminerà quando stabilito. Roba da sospettare che in questa rassegna che si tiene in una morbida cornice mediterranea ci siano in realtà molti ferrei zampini anglosassoni. D’altra parte, sarebbe impossibile pensare alla riuscita di tutta la storia senza una buona dose di disciplina alla base. L’organizzazione del Primavera Sound è una macchina sapientemente progettata per la prevenzione di ogni tipo di catastrofe ambientale che una bolgia di circa duecentomila persone che bramano divertimento sarebbe in grado di provocare. L’area in questione è uno spazio di circa 95.000 metri quadrati. Tre sono le coppie di palchi su cui si alternano gli headliner (Heineken-Sony, ATP-Rayban, Pitchfork-Vice), e tutt’intorno altri stage di dimensioni più piccole ospitano decine di altri artisti: uno di questi spazi è l’Adidas Original, su cui si esibiranno le band italiane di Sfera Cubica. Nel lasso di tempo in cui uno degli stage ospita un set, sul palco gemello i tecnici smontano l’allestimento del precedente show e rimontano il tutto per quello successivo. Se nella vita avete avuto modo di vedere l’armamentario di luci di scena che si portano dietro i Nine Inch Nails capite bene che il tempo di una esibizione, che va dai 40 ai 90 minuti, per questa operazione è estremamente ridotto.

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Oltre agli stage all’aperto c’è un auditorium, il Rockdelux, al piano interrato del suggestivo edificio antistante il parco, fatto di specchi e roccia azzurro mare, il Museu Blau di Herzog & de Meuron. È qui che si esibisce Julian Cope. Lo storico cantante dei Teardrop Explode dagli anni 70 a oggi ha attraversato tutte le tendenze uscendone illeso e più eclettico di prima. Accompagnando la sua voce roca e intensa solo con la chitarra acustica, intona il collaudato repertorio di fronte a un pubblico trasversale per età ma omogeneo in quanto a predisposizione a lasciarsi coinvolgere da un sound nostalgico che è inevitabilmente le fondamenta di tutti i giovani performer là fuori sugli stage. Nel frattempo sul palco Heineken, uno dei più grandi, si fanno spazio i Real Estate. Americani del New Jersey e figli di Pitchfork, con un nuovo album registrato nello studio degli Wilco si guadagnano i piani alti della line-up dei uno dei festival più cazzuti. Personalmente non disdegno il Dream Pop, e mai oserei contraddire supporter di tale calibro, ma arrivata all’estremità sud del recinto del Primavera scopro che il numero dei presenti è alquanto esiguo, tanto che mi lasciano persino oltrepassare la prima fila di transenne fino all’area vip semi deserta (passeremo i giorni successivi a chiederci chi siano questi fantomatici vip senza peraltro giungere a una risposta). Il ritornello di “It’s Real”, noto agli italiani per lo più come jingle dello spot della tv in digitale del Berlusca, riesce appena a scaldare gli animi. I ragazzi saranno anche arrivati fin qui ma a quanto pare nessuno è riuscito a togliere loro quell’attitude da liceali che strimpellano in garage.  Il primo intenso live della mia giornata deve ancora iniziare, e sta per farlo proprio alle mie spalle. I Midlake salgono sul Sony al tramonto, e l’atmosfera è quanto di più appropriato si possa immaginare. Tengono botta nonostante il peso dell’assenza di Tim Smith, e l’aria vibra in egual misura della compostezza melodica dei brani rodati di The Trials of Van Occupanther così come delle sferzate elettriche del nuovo Antiphon. Nel mentre, a qualche centinaio di metri da qui, sono certa che i C+C=Maxigross se la stanno cavando alla grande, dando sfoggio del loro Folk fatto di lisergici cori a cappella. Un pizzico di orgoglio italiano mi dice che dovrei presenziare, ma questo è solo il primo dei tanti momenti che mi vedranno costretta a scegliere tra la performance di una pietra miliare della musica degli ultimi decenni e quella di un promettente progetto affacciatosi da poco sulla scena contemporanea. Resto al Sony a veder calare il sole di questo primo giorno di Primavera sul giro di chitarra di “Head Home”.  Quest’oggi i miei piani prevedono poche brevi corse, palleggiandomi dal palco Sony all’Heineken, che si fronteggiano a poche centinaia di metri l’uno dall’altro. Dopo una decina di minuti di performance delle Warpaint però mi pento un po’ di non aver fatto una lunga passeggiata fino allo stage Vice, dove nel frattempo immagino quella bolla emozionale di sintetizzatori allo stato liquido che dev’essere il set dei Caveman. L’Art Rock tutto al femminile delle Warpaint è interessante nel suo muoversi in un preciso universo sonoro, che non si lascia scalfire da tentazioni mainstream, ma i malinconici bassi sembrano non riempire a sufficienza un palco tanto imponente e gli spiriti di un pubblico avido di energia propulsiva che faccia partire la serata.  Alle ore nove e un quarto, con in mano un hamburger che sa di topo, sono di fronte alla più dilaniante delle decisioni di oggi. Dopo questo surrogato di cena le strade possibili saranno tre. Tra poco lo stage ATP sarà invaso da una numerosa formazione da poco ricongiuntasi, caposaldo del Folk Rock del secolo appena trascorso. A dieci minuti a piedi da qui, sul palco Pitchfork, sta invece per salire una delle band più promettenti dell’anno, freschi di un album con la 4AD che mi è piaciuto un sacco. Tra i Neutral Milk Hotel e i  Future Islands scelgo la terza strada, e con una discreta scorta di birra torno al Sony ad attendere St. Vincent. A conti fatti, delle gesta passate di questa fanciulla dalle sembianze della strega buona del Mago di Oz sono abbastanza ignara. Il self-titled uscito quest’anno è il suo quarto album e a quanto pare finalmente il disco della consacrazione, polistrumentale nel sound e polisemico nelle liriche, che le vale il nome scritto col font grande sul cartellone del festival, come quello di alcune band con cui fino a ieri si esibiva come opening act. Qualcosa mi dice che vale la pena vederla en directo. Annie Clark sale sul palco, è eterea e stupenda e sprigiona immediatamente tutta l’energia della sua musica inusuale come il fascino che emana da ogni poro. Elegantemente robotica nelle movenze, che diventano spesso vere e proprie coreografie, mi dice che la mia scelta è quella giusta, questo è uno show di quelli che meritano di essere visti dalle prime file: la maestria negli assoli di chitarra e la voce suadente e rotonda sono un tutt’uno con il suo sguardo altero e maledettamente magnetico fisso sul pubblico davanti a lei. Sofisticata nel suo look futuristico fatto di opposti che combaciano, il bianco platino della chioma selvaggia e il nero del neoprene che le calza come un guanto, intonando la melliflua “Prince Johnny” sale su un piedistallo sui cui gradini poi improvvisamente si abbandona, ed io penso solo che poche dive nella storia sono state in grado di rotolarsi giù per le scale in maniera tanto sensuale.

Al termine della performance di St.Vincent, il palco sui cui a breve saliranno i Queens of the Stone Age è già sotto assedio. Mi tocca un bel posto sfigato da cui non ho la possibilità di vedere altro che i maxischermi, tra gli stand degli alcolici e i cessi. I QOTSA mi regalano le inconfondibili chitarre di “No One Knows” poco prima che io mi congedi: mi inchino a tutto il Rock e il Blues e la psichedelia del talento di Josh Hommes e soci ma nel procedere all’infausta selezione a cui mi sono dovuta piegare ho ormai capito che una corsia preferenziale va riservata a quelle esibizioni che si prospettano veri e propri live show sotto ogni aspetto, in cui è essenziale la componente visiva, e se con Annie Clark ne avevo solo il sentore con gli Arcade Fire sono invece pronta a metterci la mano sul fuoco. Lancio un’occhiata di nuovo verso lo stage Sony e capisco che è già ora di andasi a sudare uno spazietto vitale tra la folla.  Quand’è che gli Arcade Fire sono diventati grandi? Voglio dire, per me lo sono stati sin dal primo ascolto di Funeral, ma quand’è che in generale la devozione per loro è passata dalla forma dell’ascolto estatico a quella dell’esaltazione collettiva? Sì, voglio dire esattamente quella cosa là: quando sono passati dall’underground al mainstream? Non parlo di dimensioni ne’ di zeri nel cachet. Il mio è puro stupore nel constatare che ad attendere gli eclettici canadesi ci sia una campionario umano tra i più assortiti, ragazzini che ti aspetteresti di trovare ai piedi di Justin Bieber compresi. Sentire poi intonare “Rococo” dalla folla come fosse un coro da stadio è l’ultima cosa che mi sarei aspettata. Si può giungere ad un prodotto dal taglio tanto universale pur percorrendo strade squisitamente tortuose e innovative? Credo che sia questa la scommessa che gli Arcade Fire hanno vinto a mani basse. Il set dura un’ora e mezza che vola via, su un palco pieno zeppo di strumentazione di ogni epoca, Win Butler e la sua chitarra piantati nel mezzo di un carnevale di luci ed effetti e di specchi sospesi che li moltiplicano all’infinito, Régine che volteggia da un capo all’altro imbracciando gli strumenti più impensati, e tutta intorno una grande famiglia allargata di musicisti che si producono in armonizzazioni estreme con una disinvoltura sconvolgente. Lo spettacolo ruota tutto intorno ai brani di Reflektor. Quattro adolescenti spagnoli accanto a me gridano indemoniati in un inglese esilarante le parole di ogni pezzo. Dopo il sofisticato ritmo Dance di “Afterlife” le luci si abbassano, e in un attimo Régine è su una pedana del bel mezzo della folla, lei e Win si guardano da lontano duettando sulla morbida di coda di “It’s Never Over”. Un intermezzo di Samba tropicale, su cui salgono sul palco a ballare anche le testone di cartapesta ormai segno distintivo del Reflektor Tour, sfuma poi in un Rock acido che diventa “Normal Person”. Nel bel mezzo del ritmo travolgente di “Here Comes the Night Time” una miriade di coriandoli esplode e colora l’arco di cielo scuro sopra la folla. È un crescendo interminabile, che soltanto nei cori trionfali di “Wake Up” trova la sua naturale conclusione.

Ne esco sazia ed esausta. Sono in piedi da sette ore ed è per mia pura e inesorabile stanchezza che i Disclosure vincono sulla Techno teutonica dei Moderat. Quando la folla dietro di me si disperde i fratelli Lawrence sono già sul palco Heineken. È un set House che possiamo anche gustarci seduti a terra in mezzo a una specie di discarica di bicchieri di plastica. La realtà è che tutto quello che verrà dopo i pirotecnici Arcade non avrà molto impatto sui miei sensi. Gli stessi Metronomy sottolineano meravigliati (e forse un po’ delusi) il fatto che a loro tocca chiudere alle 3.30 una giornata che ha visto susseguirsi una serie di mostri sacri, davanti a un pubblico ormai più che appagato. Un po’ del loro elegante Elettro Pop dal sapore anni 70 seduti sui gradini della cavea del  Rayban ed è ora di salutare il Forum.  Al cospetto di Mangum e soci c’era invece la mia amica Elena.

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Attendevo con ansia il live dei Neutral Milk Hotel, più o meno da quando rimasi folgorata al primo ascolto del loro album più acclamato. Ed avevo delle grandi aspettative che sono state più che confermate. Il fondatore della band Jeff Mangum sale sul palco con il suo gruppo fresco fresco di reunion (fortuna per noi). Difficile non restare colpiti dai personaggi quasi fiabeschi che lo compongono e dalla particolare strumentazione che hanno, tra cui banjo, cornamuse ed una sega ad arco. Il concerto inizia con la prima traccia di In the Aeroplane Over the Sea ed il pubblico è già in delirio. Ma è solo quando il resto della band lascia solo sul palco Mangum per intonare “Two Headed Boy” che mi rendo conto del grande potere di quest’uomo. Soltanto con la sua voce ruvida e con la sua chitarra, è in grado di toccare le parti più intime di ognuno di noi. Tutti  attorno a me cantano, ammaliati, e a me scende quasi una lacrimuccia. Il resto della band poi torna sul palco per concludere con “The Fool”, Mangum si fa da un lato e sembra quasi un direttore che con la sua chitarra dirige la sua orchestra. Un concerto indimenticabile!

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Primavera Sound Festival 2014 | Istruzioni per l’uso e Day 0

Written by Live Report

Domenica pomeriggio. Arrivo a Ciampino su un aereo di cadaveri ambulanti con al polso un braccialetto verde e salgo in macchina senza il consueto impulso di accendere la radio. Nelle orecchie ho ancora un fischio persistente, e tutta la musica degli ultimi tre giorni, tutta insieme. Questa inedita sensazione di ubriachezza uditiva mi accompagna fino alla mattina successiva, quando prima ancora di raccogliere le idee mi preparo la playlist con cui faccio colazione e vuoto un bagaglio a mano da 10kg di t-shirt e anfibi fradici. La lista dei brani rivela senza inganno ciò che ho portato a casa da questa esperienza e ciò di cui non potrò fare a meno ad occhio e croce per i prossimi cinque o sei mesi. Questo resoconto sulla mia prima volta al Primavera Sound Festival non ha alcuna pretesa di dirsi un live report completo ed esaustivo. L’evento ha una portata tale che se si volesse raccontarlo per intero e in dettagli ci sarebbe bisogno di un team di agguerriti reporter pari ad almeno due volte il numero degli stage allestiti per l’occasione al Parc del Forum. Vuol essere piuttosto il mio personale racconto di alcuni giorni decisamente intensi sotto molti punti di vista e, perché no, un piccolo vademecum per chi come me si appresta ad assistere per la prima volta ad una kermesse di tali dimensioni. Ci sono infatti tutta una serie di considerazioni di carattere pratico che in preda ad una euforica idiozia da novellina non ho assolutamente fatto, nonostante siano tutte molto intuibili. Ma andiamo per gradi.

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Questo è quello che presumibilmente vi accadrà dopo aver acquistato un biglietto di ingresso ad un festival che dura due o tre giorni ed arriva a collezionare qualcosa come 300 performance di altrettanti artisti. Circa sei mesi prima dell’evento saranno resi noti più o meno tutti i nomi degli artisti presenti alla rassegna, e in preda al più irrazionale degli entusiasmi camminerete a un palmo da terra al pensiero di avere la possibilità di vedere qualcosa come 60 concerti al giorno. Uscirete da questa fase di completa perdita di lucidità solo alcuni mesi dopo, quando verrà reso disponibile online il timetable delle esibizioni. Maledirete un paio di divinità a caso per aver piazzato nello stesso momento due o persino tre fra le performance a cui tenevate maggiormente, ma per tornare ad essere davvero ragionevoli ci sarà bisogno di altro tempo, e in questa fase, calendario alla mano, vi preparerete un programma serratissimo, senza alcuna pausa tra un concerto e l’altro, degno non dei più formidabili centometristi ma piuttosto di individui dotati del potere del teletrasporto. È solo quando arriverete davanti ai cancelli che vi renderete conto di essere in compagnia di altre centinaia di migliaia di persone che hanno i vostri stessi piani. Alcuni attimi dopo vi accorgerete inoltre di non aver contemplato il fatto che a volte vi assalirà la necessità di mangiare, di farvi una birra, di andare in bagno (le ultime due inesorabilmente abbinate). Vi guarderete intorno per poter stimare rapidamente quanto tempo queste operazioni basilari potranno portarvi via, e quello che vedrete non saranno altro che chilometriche file di individui che inconsapevolmente state già cercando di eliminare ad uno ad uno con sguardi fulminanti.

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Prima di esplodere fermatevi un attimo, che tanto il concerto delle 16 ve lo siete già perso, e respirate in maniera profonda, perché è arrivato il momento di prenderla con molta filosofia. Bisognerà fare appello ad una capacità di fare scelte rapide e drastiche e ridurre ulteriormente il programma tenendo conto del fatto che se deciderete di vedere un live dalle prime file, dall’inizio alla fine, il successivo lo guarderete necessariamente da lontano, e forse sarete costretti ad abbandonarlo a metà, se per quello dopo ancora vorrete conquistarvi un buon posto. Vi sto forse smorzando ogni entusiasmo? No, vi prego, lungi da me farlo, saranno tre giorni memorabili se non pretenderete l’impossibile. Poi se invece per caso avete il dono dell’ubiquità questo post non vi interessa, e non vi interessa neanche se andate ai festival per sedere in vetrina sui divani dello stand Martini, o ubriacarvi abbestia e molestare il prossimo, che al contrario è là per ascoltare musica. Per entrambe le attività suddette vi consiglio il bar sotto casa, che a mio parere è una location più consona, nonché indubbiamente più economica.

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Arrivo a Barcellona mercoledì pomeriggio, accolta però da condizioni meteo alla Glastonbury. Tra l’aereo in ritardo e il temporale che dura esattamente il tempo del mio tragitto a piedi da Plaça Catalunya a casa dell’amica che mi ospita, qualcosa mi dice che non riuscirò ad arrivare al Forum in tempo per l’esibizione dei Temples. Il palco ATP è attivo già da questo pomeriggio, e i club della città da lunedì ospitano gli eventi collaterali al festival, live e dj set. C’è un gran da fare qua. Lancio la valigia in casa e scendiamo in una metro intasata di barbe, shorts, coroncine di fiori in testa e occhiali da sole, che non è che solo perché piove uno deve rinunciare a fare l’hipster in giro, e poi a casa dei tipi slavati che mi circondano questo nubifragio è una pioggerella innocua. Il tempo regge un po’ fino all’arrivo al parco, quando lo show di Stromae è al termine, ma prima ancora che sullo stage arrivi Sky Ferreira ricomincia a piovere. Il risultato è una distesa di ombrelli che impediscono la visuale da qualsiasi punto e uno scazzo generale, mio e dell’americana, che avrà anche buttato nel cesso un contratto con la Capitol per non tramutarsi nella nuova Britney Spears, ma certo è che della popstar ha conservato la spocchia, e con aria melodrammatica tra un pezzo e l’altro si lamenta coi tecnici del ritorno in cuffia e quant’altro. Qualche problemino tecnico è innegabile e ce ne accorgiamo anche noi dal basso, ma in realtà è tutta l’esibizione ad essere sotto tono. L’eloquente commento a caldo della mia amica è “Oh, questa era meglio su Spotify.”

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E pensare che nel frattempo in centro, al Barts, ci sono The Ex e Shellac, ma che minchia ci stiamo a fare qua? Ci rimettiamo sulla metro, ma stasera non ne va una dritta, e all’arrivo in Avinguda del Parallel troviamo il locale sold out. Non resta che aspettare i Brian Jonestown Massacre, che suoneranno alla Sala Apolo tra un paio d’ore. Sono le 23 e forse è ora di mettere nello stomaco qualcos’altro che non sia birra, ma è l’ennesima scelta sbagliata, il tempo di andare a prendere un panino e tornare indietro che all’ingresso c’è già una coda di gente lunga quanto l’intero isolato. A metà concerto siamo ancora fuori e la mia insofferenza ha raggiunto livelli esponenziali, impreco contro tutti i panini della Spagna e i cretini in fila davanti a me, quando a un tratto sento intonare appena dietro di noi un motivetto che dopo qualche attimo con sgomento realizzo essere dei Neri Per Caso. Ok, sono italiani, mi capiranno ora che mi girerò e spiegherò loro che la serata è andata già abbastanza di merda e questa punizione possono anche risparmiarmela. Sono siciliani, ci si faranno anche una bella risata, ed infatti è così che va. Ci intratteniamo a chiacchierare con loro mentre siamo quasi davanti all’ingresso, quando una di loro dice “ragazzi, qua non c’è niente da fare, se Big Jeff è ancora in fila vuol dire che non si entra”. Tutti incuriositi da quello che sembra il primo diversivo a questa attesa snervante, chiediamo alla tipa di spiegarsi meglio, e lei ci indica un ragazzone con la faccia da vichingo, a un paio di metri da noi. Ci spiega anche che Jeffrey Johns, meglio noto come Big Jeff, è di Bristol, dove è una vera e propria celebrità nell’ambiente musicale, noto per essere un assiduo frequentatore di festival in tutta Europa, ottenendo a volte persino l’accesso gratis in virtù della propria popolarità. Mi sporgo ad osservare. Ha un po’ la faccia da Sloth dei Goonies ma meno brutto e ride in un modo così contagioso che mi torna il buonumore. Arrivato all’entrata, alza il braccio destro in segno di vittoria. Ce l’ha pieno di braccialetti pass quasi fino al gomito. Adoro già questo personaggio. I BJM nel frattempo hanno fatto i bagagli e a noi non resta che la performance successiva, quella di Har Mar Superstar, spiazzante commistione di Soul, Songwriting e porno trash. Io sono più interessata a Big Jeff che al live show. Il ragazzone si dimena sotto il palco in movenze buffe e un po’ maldestre. Nei giorni successivi lo incontrerò ancora, e quando tornerò a casa sul web scoprirò addirittura un documentario su di lui. Dopo un altro paio di birre e movimenti di bacino usciamo dall’Apolo concludendo questa specie di Day Zero. Il vero Primavera Sound deve ancora iniziare.

Continua…

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Discipline, South Bridge, Shaking Hands, Naga, Storm O, Germanotta Youth, Arduo, La Via Degli Astronauti

Written by Live Report

Centro Sociale Lido Pola, Napoli 24 Maggio 2014

Spesso mi capita d’immaginare uno di quei primi concerti ad inizio anni 90 di band come Master, Napalm Death, Carcass, Possesed e Death. Viaggio con la mente pensando al tipo d’atmosfera che si creava nei club o in quei piccoli localini frequentati dal cosiddetto “pubblico di nicchia”. Chissà come avvenivano gli scambi di musicassette tra le band che cercavano di farsi conoscere? Come si relazionava il pubblico tra loro e con i gruppi? E infine, che parere avevano di quegli show? Tutte domande che mi pongo riguardo ad uno dei primi concerti di una delle band citate prima. Sabato 24 Maggio al centro sociale Lido Pola di Napoli ho provato per la prima volta una strana ma stupenda sensazione, il contesto in cui mi trovavo molto probabilmente era simile a quello che immaginavo. Purtroppo arrivo all’evento con un’ora di ritardo perdendomi cosi l’esibizione dei Discipline, dei South Bridge e degli Shaking Hands. Nella sfortuna, mi conforta l’arrivare giusto in tempo per assistere ai Naga, band Doom Metal che in passato altro non erano che gli eccezionali Kill The Easter Rabbit. L’esibizione di Emanuele e soci si è svolta a luci spente e la loro musica, composta da un sound distorto e baritonale creava le condizioni giuste per viaggiare con la mente in compagnia di una sigaretta ed una birra. Un’ottima prova dunque per i Naga che a quanto pare non deludono affatto le aspettative. Dopo una piccola pausa si preparano a salire sul palco gli Storm O, con loro è arrivato anche il momento di scuotersi, di fare crowd surf e stage diving. La band di Belluno è carica ed energica, il loro Hardcore che spesso ha picchi Grindcore coinvolge tutti gli spettatori: c’è chi poga, chi sale a cantare con Luca e chi, come il sottoscritto, ammira il carisma e la grinta dei ragazzi. Gli Storm O hanno senza ombra di dubbio lasciato il pubblico del centro sociale a bocca aperta, con loro il divertimento è assicurato.

E’ il turno di un altra band dalle mille risorse, particolare sotto svariati punti di vista oltre che ingegnosa: i Germanotta Youth. Il duo capitolino propone una sorta di Electro Grind, sul palco troviamo: Giulio Galati alla batteria e Fabio Recchia con la sua piccola console con sopra attaccato un basso. I due sono a dir poco formidabili considerando che Fabio suona in contemporanea il basso e la console aumentando gradualmente la velocità dei pezzi. Giulio si esibisce a ritmo di micidiali sfuriate, insomma, sono entrambi incantevoli. Finiti i venti minuti dei Germanotta Youth si preparano a salire gli Arduo. Anche questo gruppo è composto da due membri: Marcello Giannini e Andrea De Fazio, entrambi valorosi musicisti. Con il loro show hanno divertito il pubblico dando un tocco Hardcore che si sposta su canoni più classici, possiamo dire che è stato un botta e risposta tra la batteria di Andrea e la chitarra di Marcello. Il tempo passa in fretta e giungiamo cosi all’ultimo gruppo: La Via Degli Astronauti capitanati da Mario Orsini nonché uno degli organizzatori dell’evento e dei responsabili della Fallo Dischi, etichetta che ha sotto contratto alcune band protagoniste della serata. La Via Degli Astronauti ha proposto uno show veramente “intimo”, Mario per la maggior parte del tempo ha cantato giù dal palco, circondato da pubblico composto da amici e sostenitori; con loro ha fatto a spallate e stage diving, non si è risparmiato di lasciare il microfono a qualcuno e farlo cantare al posto suo. Insomma anche se non si sono considerati tali, hanno tenuto uno spettacolo da veri e propri headliner divertendo chi li seguiva ed offrendo un’esibizione con i fiocchi. Ad inizio serata quando ho messo piede nel centro sociale sono stato accolto da una struttura grigia e quasi decrepita con slogan e simboli che richiamavano la protesta, inoltre c’erano tanti ragazzi colti e vogliosi di ascoltare buona musica, ero nel cuore dell’ Underground Partenopeo e con molta sincerità ne ero fiero ed onorato.

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THE PRETTY THING (50 DI TOUR) A TORINO

Written by Live Report

RUGHE SPORCHE
THE PRETTY THING (50 DI TOUR) A TORINO

Una domenica come molte altre, forse addirittura più anonima di tante altre. Con un cielo diviso a metà tra il blu della spensieratezza pre-estiva e orrende nuvole nere incombenti. Per sconfiggere l’apatia di questa modesta giornata cerco come molte altre volte rifugio nel Rock’N’Roll, antica medicina che per fortuna su di me continua a fare un certo effetto benefico. A questo giro di antico non c’è solo l’antidoto. Scorgo infatti con piacere che a Spazio 211 – Torino celebrano i loro 50 anni The Pretty Things, storico gruppo inglese capitanato da Dick Taylor, membro fondatore dei The Rolling Stones. Si parla del 1963, l’anagrafe non può mentire. C’è da dire che ultimamente sono parecchio avverso ai gruppi di ultra sessantenni. Penso che la pensione serva anche nel Rock, a volte la passione non basta ad attenuare gli acciacchi del tempo. E molte band di dinosauri si sono palesate ai miei occhi come lente macchine arrugginite, ancora appese agli esagerati fasti del passato. Esagerati per essere comodamente gestiti col tempo.
Alle ore 22 arrivo al locale e, nonostante delle vere e proprie leggende (negli anni ‘70 Mister David Bowie suonava le loro cover!) siano in città, il locale è semi deserto. Un po’ me lo aspettavo, un po’ forse Torino, che tanti pregi ha musicalmente parlando ma non ha mai avuto lo strato ruvido del Blues marcio sull’asfalto dei suoi viali. Ci si potrebbe aspettare per questo uno show un po’ anemico, apatico come questa domenica. Immagino che arrivare con 50 anni di band alle spalle e trovarsi un locale con sessanta persone dentro, per giunta a 2000 km di distanza da casa tua, potrebbe portarti all’apatia, alla freddezza, all’odio verso la passione che ti ha spaccato la schiena in decenni di furgone. E questo credo capiterebbe qualsiasi sia il tuo passato, figuriamoci cosa capita a chi ha militato in gruppo con Mick Jagger e Keith Richards.
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Alle 22.30 però The Pretty Things attaccano e tutte le cazzate che mi ronzavano per la testa vengono spazzate via dal muro del suono. Chitarre marce suonate da Dick, occhialuto e ricurvo su se stesso, e da Frank Holland, un altro attempato volpone, ricciolone e dallo stile Proto Punk. Basso e batteria da manuale del rock anni ’60, sebbene siano gestite da due pischelli. E poi la voce di Phil May, direttamente presa in prestito dagli inferi. Il diavolo invecchia ma mantiene charm inglese. Stile incredibile, viscerale. La macchina del tempo funziona alla grande, si sente lo sporco, le budella che si agitano, si sentono i tempi in cui la musica era una ragione di vita.
La magia scatta con il viaggio di “S.F. Sorrow is Born” (il disco S.F. Sorrow pare sia la prima opera rock che ispirò The Who a scrivere “Tommy”), psichedelia e aridi deserti, con quella sezione ritmica giovane che rende tutto così attuale e tangibile. L’incantesimo non si interrompe neanche quando sul palco rimangono solo Phil e Dick, come due vecchi amici (lo sono e si vede) jammano su vari standard Blues in duo acustico. Dick Taylor pare muovere goffamente le dita ingiallite e scheletriche ma in realtà con il suo slide riempie la sala di pathos e ci riporta davanti Robert Johson e tutte le sue diavolerie. Questa band è incredibilmente viva nonostante suoni musica vetusta. Ha la passione, la forza e la voglia ancora di stupire. Niente da dire, mi sono convinto. Questo gruppo è molto più gruppo di quanto siano The Rolling Stones degli ultimi 30 anni. Ma la chiudo qua perché il paragone è banale e forse pure fuori luogo.
Il finale dello show, che personalmente è anche una lezione di musica (ma oserei dire pure di vita), è affidato ad un omaggio a Bo Diddley, oltre che a loro classici come “Midnight to Six Man” e la conclusiva “L.S.D.” con tanto di citazione a “Lucy in The Sky With Diamonds”. Concerto corto, un’ora e mezza di pura energia e di sogni. Un’amalgama perfetta e un sorriso stampato sui loro stanchi volti che non si arrendono.
Nel finale esco a fumare una sigaretta con alcuni amici, passa proprio Phil May con una crostata alle ciliege in mano mentre i più giovani caricano lo scassato furgone che pare essere pure lui sudato marcio sebbene sia parcheggiato in una Torino non troppo caliente. Noi ci guardiamo e vediamo li a un metro da noi questo anziano, dall’aspetto rude, con capelli semilunghi ma mezzo calvo, che nonostante il sudore e i segni del tempo tenuti alla luce del sole, conserva la sua estrema eleganza. Guarda fuori, con una crostata in mano. Mi avvicino e gli dico solo: “great”. E’ l’unica parola che mi sento di dire. Lui mi guarda e mi da una pacca sulla spalla, gli scappa un “thanks a lot” e dopo un sorriso vero, umano. Mannaggia mi aspettavo dal Rock’N’Roll solo un po’ di brio per sotterrare questa triste domenica, invece questo infame si è dimostrato di nuovo più grande di quello che potessi immaginare.

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Finley 16/05/2014

Written by Live Report

Iniziamo la nostra copertura del Theatre Quinto Festival, una rassegna che durerà fino a giugno e che vedrà susseguirsi sul palco del locale rozzanese gli act più diversi, dai Finley ad Andrea Nardinocchi, passando per i gli Yokoano, i Nadar Solo e Dargen D’Amico. La serata inaugurale è affidata ai Finley, band che non ha bisogno di troppe presentazioni: scoperti giovanissimi da un sempre vulcanico Claudio Cecchetto, i quattro inanellano successo dopo successo, diventando il paradigma della band gggiovane che “dice” di fare Punk Rock, e diventano presto una rodatissima macchina scalda-ragazzine, passando addirittura da Sanremo. Da qualche anno i Finley hanno aperto la loro etichetta, Gruppo Randa, senza che questo abbia portato ad un cambiamento nella loro proposta musicale. C’è sempre curiosità intorno a gruppi di questo tipo, che appaiono come strane entità create negli uffici di qualche etichetta, scoprendo il fianco a critiche preconcette e a idiosincrasie astratte. Abbiamo cercato perciò di vederli con i nostri occhi, per scoprire come vivono la dimensione del live, il rapporto con il pubblico, le loro canzoni.

Quando arrivo, davanti al Theatre la fila è ancora lunga. Mi dicono che le prime ragazzine si sono presentate all’entrata intorno a mezzogiorno. Si potrebbero fare succose elucubrazioni sull’aspetto socio-psicologico di un concerto dei Finley, ma per quelle vi rimando ad un precedente report… Nel locale sta già suonando il secondo gruppo d’apertura, i Made In Italy, Pop Rock ironico che critica in maniera sottile alcuni stilemi della musica per teenager (dal finto rap di certi pezzi dance alle mostruosità stile One Direction passando, per l’appunto, anche dagli stessi Finley, di cui eseguono una cover “autorizzata” dalla band stessa…). Finito il loro set parte un breve cambio palco e poi eccoli: Ka (chitarra), Dani (batteria) e Ivan (basso, nella band da qualche anno) salgono on stage mentre in sottofondo parte… l’Inno di Mameli. (Non guardate da questa parte, non ho idea del perché. Scelta terribile, comunque).

Passato il momento patriottico, arriva Pedro (voce). Giusto il tempo di tirare una sonora botta di microfono sulla paletta del basso e il concerto parte a bomba, a grappoli di tre/quattro canzoni eseguite spalla a spalla. La prima parte del live è adrenalinica e tesa (“Gruppo Randa”, “Fuego”, “Tutto è Possibile”): i quattro pestano duro, canzoni Rock lineari e senza troppe pretese ma energiche, soprattutto nelle ritmiche, dove si distingue la bravura tecnica del batterista Dani, capace di sostenere groove rapidi e infuocati, vera spina dorsale dello spettacolo Finley. Come sempre, il rapporto con i fan è centrale: molto più che in altri casi, il concerto è letteralmente fatto per loro. Non manca nessuna canzone delle più famose (ci sarebbero disordini e sommosse), e i ringraziamenti al pubblico sono ubiqui e continui: grazie a chi arriva da lontano, grazie a chi ci segue dagli inizi, grazie a chi ci supporta e ci permette di continuare a fare musica. Il concerto prosegue caldissimo, i pezzi lenti sono veramente pochi: ci si concentra sulla velocità, sulla melodia di ritornelli cantati in coro a squarciagola (“Un’Altra Come Te”, “Adrenalina”, il richiamo al ritornello di “Dentro alla Scatola”). I pezzi sono tutti classici del loro repertorio: testi banali fatti per essere imparati a memoria e cantati a pappagallo, alcuni con prese di posizione apparentemente forti ma basate sul niente, come “La Mia Generazione”, che fa tanto effetto fiction di Rai2. Mi accorgo peraltro che alcuni momenti del live sono estremamente preparati: la presentazione in medias res de “La Mia Generazione” è la stessa identica che fecero l’anno scorso quando li vidi la prima volta, e anche l’introduzione di “I Fought the Law” dei Clash rimane uguale, come uguale rimane l’idea di far salire Roberto Broggi ad accompagnare il brano con il violino, promuovendo l’operazione benefica Punk Goes Acoustic ideata da Andrea Rock, che verso la fine del concerto verrà ospitato dalla band per qualche brano, tra cui una “Blitzkrieg Bop” abbastanza spompa. Ma prima il live fa in tempo a rallentare un po’, mentre i Finley si danno a “Ricordi”, loro brano sanremese che si porta dietro tutti i cliché del caso. La gente inizia piano piano ad uscire, il concerto si sta allungando (non credete chissà che, avranno superato a malapena l’ora, a questo punto: ma non stiamo parlando di Springsteen, stiamo parlando dei Finley).

Dopo il già citato passaggio sul palco di Andrea Rock, la band ci abbandona per qualche minuto, dando il tempo al pubblico di intonare “Diventerai una Star”, il loro pezzo più famoso. Scatta quindi l’encore, con partenza acustica e pianti tra il pubblico (giuro) per “Fumo e Cenere”, seguita a ruota dall’ultimo brano, “dedicato a chi pensa che abbiamo fatto solo questa”, ovviamente, “Diventerai una Star”, cantata da tutto il pubblico con una sola voce. Applausi, saluti, inchini. I Finley mi confermano così tutte le impressioni che già avevo avuto l’ultima volta, un anno fa: una band tecnicamente mediocre (a parte forse Dani, il batterista), sicuramente professionale e capace di gestire in modo sufficiente un palco e una platea di questo tipo, dando al pubblico tutto ciò che vuole e facendo più spettacolo che musica. Le loro canzoni sono banali, vuote di senso, niente più che materia vendibile, e infatti funzionano benissimo nelle pubblicità, a Sanremo, e con le ragazzine (ma non solo: si segnalano anche quarantenni ballerine e più-che-ventenni ubriache e scatenatissime, oltre a parecchi individui di sesso maschile, anch’essi esaltati). È musica da vendere fatta da un gruppo costantemente in vendita, e che, purtroppo, la gente non smette di comprare. Una volta accettato questo, il live assume le caratteristiche di un evento eseguito con professionalità e mestiere. Ma la passione e l’arte stanno tutte da un’altra parte.

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Alkaline Trio, Bayside e For Those Afraid 06/05/2014

Written by Live Report

ZONA ROVERI, BOLOGNA (BO) 06/05/2014

Premetto: adoro gli Alkaline Trio dai tempi storici in cui i loro album venivano pubblicati dalla Kung Fu Records. Tuttavia non ero mai stato a un loro show. Temevo la delusione, consapevole del fatto che il loro ultimo disco, My Shame Is True, non è esattamente una meraviglia. Comunque sia, erano mesi che avevo comprato il biglietto e non me li sarei persi per nulla al mondo, stavolta.

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Dal diario di bordo del capitano Giovanni: che ideona partire alle sette del mattino per arrivare alle undici e trovare una fila pazzesca composta da due persone… Quando si aprirono i cancelli del capannone della Zona Roveri, il palco era già preda dei milanesi For Those Afraid, promotori di un Hardcore melodico serratissimo, tutto moshpit e furore da vendere. Estraggo il mio bloc-notes mentale e prendo appunti. Sono da tenere d’occhio assolutamente.

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Poco dopo, intorno alle 21, fecero capolino i Bayside, da New York City. Un paio di mesi fa uscì, sotto la label Hopeless Records, Cult, un lavoro ben fatto: onesto Punk Rock, condito da melodie riuscitissime ed energia alla massima potenza. Una scaletta, che è stata più un excursus attraverso le loro canzoni più conosciute, ha riscaldato un pubblico fremente, perché il momento dell’ingresso del gruppo clou era imminente, l’agitazione palpabile. Quando vennero fuori dalle quinte, gli Alkaline Trio furono accolti da un boato, che crebbe al riff d’apertura di “This Could Be Love” (il mio brano preferito dei tre di Chicago). In un attimo la Zona Roveri si trovò sotto scacco, messa a ferro e a fuoco dalla maestosità della loro musica cupamente romantica.

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Dal diario di guerra del soldato semplice Giovanni: ero attorniato dalle truppe nemiche, aggrappato alla maglietta di uno sconosciuto davanti a me, ma per difendere il mio posto in secondo fila avrei dovuto combattere con le unghie e con i denti. Nel frattempo, con un carisma fuori dal comune, Matt Skiba e soci continuavano l’opera di distruzione con le varie “StupidKid”, “Sadie” e “Time To Waste”, con tanto di intro di pianoforte accompagnato dal battito delle mani di tutta la calca. Nella tristezza generale il live volgeva al termine, purtroppo è vero che tutte le cose belle prima o poi finiscono. I due bis conclusivi furono l’acclamatissima “Private Eye” e “Radio”, un cavallo di battaglia che chiude spesso e volentieri le loro performances. Dopo un minuto dall’epilogo del concerto, già avvertivo un magone. A testa bassa mi rimisi in auto in direzione Pescara, ripensando a questo concerto che è stato una vera esperienza di vita. Altro che delusione. Soddisfazione a pacchi.

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Il concerto dello Zero Maggio: “Premio Maggio” (BA) 30/04/2014

Written by Live Report

No! Stavolta al Primo Maggio (di Roma) non ci vado! Questa non è la line up che mi aspettavo e, con tutto il rispetto per i nomi proposti, proprio non mi va di star tutto il giorno fuori casa. Inventerò una birra con amici e le ore passeranno comunque. Piuttosto, vediamo un po’ Google cosa propone per questo ponte. Due telefonate, pieno in auto e la birra serena da San Lorenzo (Roma) trasloca a pochi chilometri più a est: direzione Puglia! “Va’, partiamo il giorno prima e facciamo tappa a Bari, che almeno domattina siamo belli che riposati” m’han detto. L’evento pugliese quest’anno dura quarantotto ore, spaziando da Bari a Taranto. Ed è la sera del giorno 30 aprile quando si tagliano i nastri e la festa ha inizio. Titolo: Premio Maggio. Location: Arena della Pace (Bari). Line up: ho il piacere di presentarvela a seguire. L’arena è meravigliosa! Centinaia di teste sono sintonizzate con i suoni proposti dall’evento CGIL pre-maggio. Ma noialtri siamo stati colti di sorpresa e siamo inevitabilmente arrivati in ritardo, perdendo l’esibizione di The Piers e dei Fabryka. Tuttavia, la notte è ancora giovane e non disperiamo, perché sul palco c’è la Paola Maugeri, che, con una semplice parola, cattura la nostra attenzione: Zeus!. Il nome non mi è nuovo, ma non credo di aver mai avuto modo di approfondire l’argomento. Mettiamoci a sedere, sentiamo cos’hanno da raccontare questi due ragazzotti metallari, cattivi e con la barba. Poi l’adrenalina. Da Imola con furore, a colpi di un sound che sa di metallo, i nostri Zeus! si fanno spazio e conquistano la platea. Un migliaio di menti ipnotizzate dalla loro opera cercano la concentrazione a ritmo di headbanging. Io non me la godo, preso come sono a raccattare informazioni sull’internet. Poi chiedo ai sostenitori della band. Poi ascolto le interviste (pessime) da backstage. Pensa te che roba: Luca Cavina (basso dei Calibro 35) e Paolo Mongardi (attualmente impegnato con Il Genio)! Evviva le menti pensanti. Meritevoli della promozione, si aggiudicano un posto nella mia agenda: appena rientro approfondisco.

Tutto scorre piuttosto velocemente, gli Zeus! raccattano gli strumenti e fanno spazio ad una delle due band che mi avevano reso irremovibile dall’idea di partecipare alla serata: direttamente da Correggio, i Gazebo Penguins. I giovani amanti della musica Post Hardcore intavolano come antipasto la prima traccia del loro secondo disco (Legna) “Il Tram delle 6”. Riescono facilmente a catturare l’attenzione del pubblico, sfruttando un’esibizione degna di nota (che, se consideriamo la complessità del genere, non è affatto poco). Io mi armo di carta e penna ed osservo dall’alto il pogo che intanto sta prendendo piede al cospetto del palco. Il capitolo Gazebo Penguins scorre incredibilmente rapido (al punto che mi vien da pensare che stiano tagliando i tratti strumentali; e questo mi dona una gran bella vena nera), attraversando nel dettaglio il terzo disco con “Difetto”, “Mio Nonno”, “È Finito il Caffè” e via di seguito sino a giungere ad una chiusura memorabile: “Senza di Te”. Senza soffermarmi troppo sul dettaglio, mi accorgo di esser soddisfatto dell’esibizione nel suo complesso: la scaletta è stata interessante e i tre ragazzi correggesi hanno dimostrato di saper suonare. Punto a favore, palla al centro: tocca agli Zibba & Almalibre. Stimoli naturali, facciamo presto che me li perdo! Coda chilometrica per avere accesso all’unico servizio dell’arena. Voglio un cazzo di Sebach! Complimenti per l’organizzazione. Zibba rimbombava un po’ fra le pareti del bagno (non me ne voglia!). Natura 1 – Uomo 0. Inveisco. Cari organizzatori, la bandierina vi salva! Non ho tempo per scazzare, tocca ai Marlene Kuntz. Il buon vecchio Godano non si smentisce mai. Presuntuoso, sale sul palco e saluta la folla con gesti plateali ed inchini datati: lui è il Duce. Mi aspetto un discorso al popolo, ma la chitarra di Riccardo Tesio mi salva, mi distrae e mi ricorda che sul palco c’è un pezzo di storia di gran lunga lontano da quello sovvenutomi alla mente. Erano i tempi che seguivo i tour dei giovani Marlene, ecco cosa provavo! Mi tocca riprendere il passo però, loro vanno avanti ed io sono lento e faccio fatica a stargli dietro. Tocca spolverare i vecchi dischi ed acquistare quelli nuovi. Quassù ci sono musicisti con l’iniziale maiuscola che suonano tracce che non riesco a cantare. Mi sento piccolo così. Poi la rivisitazione di “Uno” in chiave molto più Marlene (e meno cantilenata) e la chiusura con “Ape Regina” perfettamente interpretata mi donano speranza: non sono io ad essere arrugginito, è la scaletta ad essere più moderna di me. Attraverso “Io e Me” (2010) arriva la conferma che (a giusta causa) le proposte sono per lo più recenti. Ma non sarà di certo questo a farmi voltare le spalle, anzi. Sai che c’è di nuovo? Bravi Marlene! Dimostrate puntualmente talento, riuscendo a farmi apprezzare pezzi che da disco mi suonavano come addii alla vostra arte. Anche voi avete segnato un punto e tornate a casa con l’ennesima vittoria. Migliore in campo Cristiano Godano, che, a gran sorpresa, si avvicina ad un palmo dal pubblico e lascia che decine di mani accarezzino il Duce che sta li sorridente e non scazza.

L’arena si svuota. Il bello è passato.  Dubioza Kolektiv, perdonateli perché non sanno quello che fanno. Sette (dico sette) ragazzotti bosniaci indossano l’uniforme gialla e nera e salgono sul palco. Scatenati come potevano essere solo i Sex Pistols, riescono a riportare il delirio in tavola nel giro di un quarto di track. Lo servono attraverso un mix di generi che fomentano una folla sull’orlo della follia. Punk, Ska, Elettronica, fanno di tutto questi biondi raver. Sono lontani chilometri e chilometri da casa, ma l’imbarazzo e l’emozione non gli calza neppure per sbaglio. In un lampo l’arena ha dimenticato i Gazebo, la CGIL, i Marlene, la morale e persino i superaffolatissimi bagni che fanno rimbombare il saggio Zibba. Mi ficco nel mucchio, pogo, salto, ballo, sudo, vado a fumare. Un accento bosniaco chiude la serata, intonando (o stonando) una “Bella Ciao” che forse forse era meglio risparmiarsi. Vabè, siamo in casa CGIL. Ringrazio il sindacato, ringrazio Bari, ringrazio la musica, spunto sui mancati servizi e, in definitiva soddisfatto, mi allontano dall’arena. Recuperiamo la donna, che domani si va a Taranto!

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Meganoidi 26/04/2014

Written by Live Report

Mare Blu, Torino Di Sangro (CH).

Ricordo ancora bene quando vidi i Meganoidi in quel di Giulianova, all’Indhastria. Allora erano all’apice del successo. Era il tour promozionale di Inside the Loop Stupendo Sensation, una fatica discografica che li staccava dalla commercialità dello Ska, per trascinarli verso sonorità più mature e ricercate. Una scelta singolare, ma, a mio avviso, azzeccata. Oggi li ritroviamo dopo 15 anni di vita, reduci da dischi altalenanti, dai risultati non esaltanti. A giudicare dalla folla presente al Mare Blu di Torino Di Sangro, pare abbiano comunque mantenuto uno zoccolo duro di sostenitori accaniti. Ci sono anche io tra di loro. Il gruppo di apertura prescelto sono I Giorni dell’Assenzio, provenienti da Tollo e facenti parte della scuderia Ridens Records. Il loro Rock Alternativo, con venature Stoner, al principio entusiasma, ci fa strabuzzare gli occhi. Col passare del tempo, la palpebra cala e l’entusiasmo scema. Soprattutto se in uno degli innumerevoli intermezzi al confine con la Psichedelia, il chitarrista/cantante si mette a prendere a cazzotti (letteralmente!) la pedaliera, rea di non fare il suo dovere. Mani nei capelli (folti…) si prosegue e guardandomi intorno vedo facce assenti. I Giorni dell’Assenza più che dell’Assenzio…

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Il tempo di un rapido cambio di palco ed ecco arrivare i nostri eroi. Subito salta all’occhio, ma soprattutto alle orecchie, la presenza del nuovo batterista Francesco La Rosa, capace di un drumming furioso (non è un caso se è membro del gruppo Gothic Metal Thought Machine) che, personalmente, trovo stia al sound dei Meganoidi come un gatto in un canile. La tecnica c’è tutta, ma ripeto, sovrasta il resto degli strumenti. Questo live, senza infamia né lode, ci mette davanti la verità dura e cruda: sono i pezzi estratti dai primi due lavori a far ballare e cantare la gente. E’ bastato il trittico “Inside the Loop”, “The Penguin Against Putrid Powell” e, soprattutto, “Meganoidi” a riscaldare gli animi tiepidi degli spettatori. Notavo poca partecipazione durante l’esecuzione di brani come “Altrove” o “Dighe”, entrambi estratti dal quarto album Al Posto del Fuoco, che io ritengo due canzoni di valore che meritavano di essere cantate a perdifiato.

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Era un concerto atipico che viveva di momenti: ad un abbozzo di nota di “King of Ska” o “La Fine” il pubblico si ridestava di botto. Caos finale con la grinta di “M.R.S.”, “Supereroi” (qui tutta Torino Di Sangro ha tremato) e “For Those Who Lie Awake”. Immancabile l’agrodolce “Zeta Reticoli” che ha chiuso i giochi insieme a “Ogni Attimo”, ultima traccia dell’ultimo album in studio Welcome In Disagio. Vado via dall’affascinante location del Mare Blu (a proposito: un locale che dà spazio alla musica dal vivo e a queste iniziative non può che meritarsi una vagonata di applausi) felice, ma con un pizzico di amaro in bocca. Sarà perché vorrei che i Meganoidi, grazie a un improvviso colpo d’ali, potessero essere elogiati per il coraggio che solo i buoni (e non i cattivi) dei cartoon hanno nel profondo del loro cuore.

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L’Altro Primo Maggio 01/05/2014

Written by Live Report

2 maggio 2014, tutto è pronto per riportare su foglio un  Primo Maggio del tutto alternativo. Fermi tutti! C’è un errore! Il mio pc segna la data sbagliata o sono io che son nuovamente desto? Urca! Questo Primo Maggio è durato un po’ troppo mi sa! “Questa vita mi distrugge”…

Sono le ore 12 in punto. La macchina è carica. Pieno di benzina. Pieno di birra. Pieno di adrenalina. Manca nulla? Destinazione Taranto! Ad accoglierci all’ingresso del parco un ospite del tutto eccezionale, degno del migliore dei Jovanotti: si chiama fango…questo però è reale. Avanzo lentamente alla ricerca di un posto dove adagiare il mio telo, al solo scopo di capire chi sono e perché sono lì. Poi il miraggio. La laguna mi saluta e dona spazio ad una distesa erbosa. Verde. Il mio posto è qui! Ma intanto Caparezza è salito sul palco, io sono distratto e le mie scarpe sono luride. Beh, siamo qui per questo. Il buon vecchio capellone si esibisce a pochi passi dalla sua dimora molfettese e la cosa non passa affatto inosservata. Vuoi che io possa sorvolare e fingere di non aver notato l’infinita platea accorsa a Taranto per l’occasione, vuoi che io possa sorvolare il fatto che siano appena le 15, ma proprio non riesco a sorvolare e far finta di nulla quando mi accorgo che un’elevatissima percentuale degli accorsi sta intonando i testi del ricciolone fuori moda. È inutile a dirsi, qui il Caparezza gioca in casa. E lo fa con immenso stile, donando un’esibizione degna del nome che porta. Un ottimo inizio, azzarderei. La giornata si prospetta interessante.

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Vorrei tornare alla mia erbetta e, in effetti, sono lì lì per farcela quando il mio sguardo si posa nuovamente sul palco. Vedo volti noti: sulla sinistra un uomo familiare se la gode, sulla destra una donna dai capelli blu. Sono Fabrizio Pollio e Ketty Passa e si stanno per esibire i Rezophonic. È la prima volta che vi assisto, vediamo come se la cavano i ragazzi. Tutto fila giusto, l’audio è un po’ compromesso e male afferro le parole, ma i ragazzi sanno muoversi e coinvolgere il pubblico (e forse anche loro stessi) con estrema semplicità. Il Pollio (frontman degli Io?Drama) scatta con il suo iPhone foto al pubblico ed agli artisti e chissà perché mi tornano alla mente quei bravi ragazzi degli Offlaga Disco Pax, alla vecchia macchina a rullino di Max, alle foto che ha scattato. Le conserva o le getta via? L’esibizione è già terminata. Poco spazio per così tanti artisti (oltre i 30, mi dicono dalla regia).

3 nobraino

Mi allontano e torno al mio posto mentre la voce di Luca Barbarossa (che veste i panni del presentatore) fa un discorso rosso ed invita il pubblico a visionare il prossimo video. Il primo di una lunga serie. Molto lunga. Troppo lunga. Ho tutto il tempo per stravaccarmi sull’erbetta umida e sorseggiare un po’ di sano luppolo, mangiare un che di salutare e navigare in giro per il parco di stand in stand. Che roba! Qui fanno persino lo zucchero filato! Con il palloncino bianco, morbido e appiccicoso torno alla tana e stavolta la voce annuncia la prossima esibizione: si tratta degli SLT Family (acronimo di “Sotto Le Torri”), ragazzotti locali che rappano, strappano, straziano, rompono e si giocano l’unica chance di far sentire cos’hanno da raccontare ad un pubblico ben più vasto del loro uso comune. Cito ancora una volta una frase che mi è rimasta: “Il Rap è come il porno: ci si nasce!” [J-Ax].

4 rubbish factory

Gli Après la Classe (pugliesi anche loro) ristabiliscono l’ordine, riportando la musica sul palco. Poi cedono il microfono ad un gruppo di sofisticato intelletto: i Nobraino. Kruger si presenta vestito al solito modo: alla cazzo. Hanno poco tempo a disposizione per mostrare la loro follia e lo sfruttano al massimo spaziando da tracce proprie (come “Bigamionista” o “Record del Mondo”) a tributi ad artisti di elevato spessore, quali Manu Chao (“Desaparesido”) o Cotugno (“L’Italiano Vero”). La scaletta prosegue, il caro Lorenzo si spoglia della giacca (che stavolta non è quella di Ernesto), si fa spazio e scende dal palco. Lascia che i seguaci assetati gli carezzino mani, corpo e viso. È l’unico a cercare un simile contatto in tutto il festival. Elevatissima umiltà o banale appariscenza?

5 tre allegri ragazzi morti

Le band sono tante, il sole è stanco di sorgere ogni giorno e stenta ad uscire. D’altronde è la festa dei lavoratori anche per lui. Le nubi minacciano pioggia e il fango se la gode. Poi un colpo di corda scaccia via ogni cattivo pensiero ed attrae il mio sguardo sul palco. Direttamente da Roma, i Rubbish Factory se la menano sfoggiando un Metal nuovo di zecca. Risale a novembre del 2013, infatti, il loro album d’esordio The Sun ed in appena cinque mesi ‘sti due romanacci sono riusciti a condividere il palco con nomi quali Afterhours, Caparezza, Capossela, Mannoia e altri a seguire, che tanto la sorpresa è già bella che rovinata. Inutile a dirsi, mi colpirono allora e mi colpiscono adesso. Esibizione degna di nota, nonostante la giovane età del duo.

6 afterhours

Fra un Diodato che a Sanremo sta da dio (ma che qui proprio non l’ho capito), un po’ di Municipale Balcanica che fa ballare tre quarti di piazza (ma che alla terza traccia fa ballare ben altra cosa), una Mannoia più rossa della festa dei lavoratori ed una Paola Turci che cantare “Fuck You” senza gli Articolo 31 è stato un azzardo fallimentare (e di questo non mi riesce di perdonarla), la lista si accorcia e si avvicina uno dei momenti pià attesi ti tutta la giornata. Vinicio Capossela si mette comodo sul palco e si gode per un attimo le urla in suo favore. D’altronde sa perfettamente di essere chi è e lo sa a giusta causa. Spazia a lungo attraverso ballate popolari ben acclamate, facendo tappa su una “L’Uomo Vivo” cantanta ad occhio e croce da tutta la platea. Un’esibizione interessante quella del Capossela, come al solito, d’altra parte.

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Mancano pochi nomi e quelli di scarso interesse son già passati tutti. È sera ormai e tutti i video che ci hanno proposto (o propinato) hanno stancato ancor più del ballare e delle birre. Rivoglio il fango! Torno al mio posto? Non è il caso, ormai siamo agli sgoccioli e non voglio perdermi un finale tanto atteso. Ed intanto che mi concedo qualche riflessione, Mama Marjas ci riporta per un attimo nell’Africa felice attraverso un Raggamuffin che in realtà sa più di Reggaeton. Il pubblico balla ed i volti sono sorridenti. Non apprezzo il genere, ma riconosco il talento nella sua voce e la sua capacità di scena. D’altra parte la giovane Maria Germinario ha un punto a suo favore: si esibisce in madreterra. Cerco di abbandonarmi al ballo collettivo stile centro sociale che ormai dilaga fra il pubblico e mi accorgo che siamo giunti alla a tale fase della serata. La Mama abbandona il palco e, con grandissima angoscia, i Sud Sound System salgono su accompagnati da una fittissima nube di fumo che oscura il lato est della piazza. L’odore è quello tipico: ‘sti tali hanno confuso la Germinario con la Giovanna! I ragazzotti salentini aprono con una prevedibilissima “Le Radici ‘ca Tieni”, cui non posso negar l’efficacia. Mi abbandono e la canto. Son bravi. In fondo piacciono persino a me. Avanzano con una “Sciamu a Ballare” standard, il che mi porta a pensare che i talentuosi ragazzi marcino oramai da anni sulla scia dei loro successi. Ma non mi va di disprezzare, in fondo l’esibizione è degna di nota ed il pubblico canta. Come se non bastasse sono ospite in casa loro e non mi va di fare il maleducato. È indiscutibile: i Sud Sound System sono una band che funziona, nei centri sociali si, ma funziona (e a quanto pare funziona anche a Taranto al Primo Maggio, com’è lecito attendersi). Dopo l’esibizione, torna la Mama Marjas sul palco, al suo fianco due napoletani belli grossi grossi e mi sento di nuovo a casa. I 99 Posse non se la lasciano cantare dai salentini e rispondono a tono con i loro successi. In Puglia “Curre Curre Guagliò” la conoscono proprio tutti e la giovane barese si esibisce al loro fianco intonando i successi napoletani degli sfegatati comunisti. Da “Antimafia” a “Rafaniello”, passando per “Vulesse”, i 99 Posse prendono l’uscita di scena acclamati e cantati dalla Puglia intera. Complimenti anche a loro, lo ammetto.

Sono esausto. L’odore di marjuana mi distrugge e voglio bere. L’acqua è finita, ma il concerto no. Ora tocca ai Tre Allegri Ragazzi Morti. Conquisto un posto in prima fila e me li godo. “Mio Fratellino ha Scoperto il Rock’n’Roll” mi gasa abbastanza e su “Occhi Bassi” mi fiondo nel pogo. Il colpo basso tirato da “Il Mondo Prima” mi strema ed i jeans si infangano quanto basta. Poi il classico “vaffanculo” chiamato dal palco e gli allegri ragazzi (erano un tempo) si dileguano, lasciando spazio agli operatori di scena. L’esibizione è stata ottima, come al loro solito. Scaletta incredibilmente breve, quanto sapiente. Ma loro sono oramai professionisti e ad inciampare non sono più capaci. Magari con un po’ di impegno potrebbero riuscire anche nel fallimento. Ma per ora ce li conserviamo abili e artistici, nonostante la critica negativa. Una snervante attesa precede il miracolo: Manuel Agnelli appare sorridente sotto gli occhi increduli di tutti. Fa casino, gioca con il cavo del microfono, se la gode. Forse la nebbia di poc’anzi mi ha appassito i neuroni. Poi attacca con una “La Verità che Ricordavo” del tutto inaspettata direttamente da uno dei dischi di maggior spessore, quale Non è per Sempre (annata 1999). La scaletta prosegue e l’Agnelli ancora se la gode. Tocca buona parte dei lavori degli Afterhours, navigando attraverso una “Male di Miele” (in diretta dal 1997), una “1.9.9.6” (alla quale il nostro milanesotto provinciale è particolarmente affezionato) e “Non è per Sempre”. Poi un fonico gli dice qualcosa, Manuel scazza e torna ad essere l’asociale di sempre. Smette di essere allegro, intonandosi perfettamente con “Ballata per la mia Piccola Iena” che segue. Al pubblico, tuttavia, questa nuova (solita) versione del frontman piace uguale. Nonostante la formazione fin troppo dinamica negli anni, i ragazzi sembrano sapere il fatto loro ancora una volta, mostrando capacità di collaborazione ed un’organicità interna degna dei più grandi nomi della storia (ci sarà un motivo eh?) e gasano il pubblico con un’antica, quanto funzionale, “Lasciami Leccare l’Adrenalina”. Di traccia in traccia l’evento scorre rapido e mi accorgo che non è un breve intervento, ma un vero e proprio concerto. Ospiti d’onore, non si lasciano sfuggire una “Padania” recente quanto sottilmente satirica ed una “Bye Bye Bombay” con la quale salutano un pubblico infervorito dal pogo e dal delirio. Inutile a dirsi, la critica stavolta ha ragione: “una delle band italiane di maggior spessore degli ultimi 20 anni” (e a parer mio di sempre).

Sono soddisfatto! L’evento è stato grandioso e, “aggratis”, ho visto ancora una volta gli Afterhours su un palco che sembrava allestito apposta per loro. Di tutto l’evento ho trovato due sole pecche, a parer mio, eccessivamente gravi. La prima è un commento di Luca Barbarossa, secondo il quale a Roma festeggiano il Secondo Maggio, perché il Primo Maggio è qui. Bravo, Luca. Buttar fango sull’evento parallelo è molto molto professionale. Complimenti al “genio” della musica italiana. La seconda va sotto il nome di protesta: troppe chiacchiere, troppi video e troppe persone sul palco a raccontarci storie che abbiamo già sentito e in cui non credono più neppur loro stesse. Siamo al Primo Maggio e qui la gente (forse ignorante?) viene per la musica, non per i convegni. Le otto ore lavorative sono passate di moda, inutile appendersi a lampioni fulminati. Oggi i problemi sono ben altri!

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Gasparazzo, un live per la Resistenza

Written by Live Report

Sabato 12 aprile 2014 presso il Teatro Nuovo di Teramo si è esibita la band emiliana dei Gasparazzo. Si tratta, in realtà, di un ritorno a casa per due dei membri della band, Generoso Pierascenzi (chitarra) e Alessandro Caporossi (voce) in quanto originari del capoluogo, e in generale per il sodalizio emiliano-abruzzese, che si esibisce con una certa frequenza nella provincia teramana. I Gasparazzo si sono presentati al pubblico con un nuovo disco prossimamente in uscita, (“Mò Mò”) e una band rinnovata rispetto alla formazione del precedente lavoro; cambio di bassista con il contrabbassista pescarese Roberto Salario (che sostituisce Marco Tirelli) ed entrata in pianta stabile di una vecchia conoscenza per il gruppo: il fisarmonicista reggio-salernitano Giancarlo Corcillo; è stata confermata, inoltre, la presenza del batterista emiliano Lorenzo Lusvardi, una certezza imprescindibile per la band.

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Il concerto ha avuto luogo in un ambiente molto raccolto, impreziosito da immagini tratte da grandi film del passato e da una scenografia minimale: numeroso e caldo il pubblico che vi ha partecipato. Lo spettacolo ha avuto un carattere per lo più acustico componendosi di soli contrabbasso, chitarra acustica, batteria e fisarmonica, oltre al kazoo e a percussioni varie, nel quale i cinque hanno dato sfoggio per l’ennesima volta della loro grande versatilità e padronanza tecnica. Nella prima parte i Gasparazzo hanno ripercorso il loro grande impegno civile ed artistico vicino alle istanze della Resistenza, quasi epiche ormai, attraverso canzoni come “Campazzo”, “Le Staffette”, “Rosso Albero” e un superba versione di “Villa Emma”, dove emergono, come rocce millenarie dal terreno, storie di eroismo quotidiano che hanno avuto come scenario l’Appennino e la pianura emiliana, e come sottofondo esistenziale ideali di fratellanza e tensioni utopiche.

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Nella seconda parte invece si è preferito dare largo spazio ad alcuni brani del nuovo disco (“Centopelle”, “Michelazzo” e “La Tromba di Eustachio”) con l’inframezzo di un rapido excursus nel recente passato (“Obiettivo Sensibile”) e un deciso tuffo nel primo album (“Siesta”, “El Loco”, “Mesci ddo Tazze e Rulla nu Truzz”, “La Margherita dell’Amor”, “Lu Lupe”, “Solami”), nel grande entusiasmo generale. Il concerto e il nuovo lavoro sono un chiaro cambio di atmosfera e di direzione rispetto a quanto fatto precedentemente e manifestano un deciso ritorno al passato, verso le sonorità Folk Rock e i testi più densi di “Tiro di Classe”. Un consiglio: se vi capita, non perdetevi la perfomance della band, decisamente di grande spessore e sicuramente la dimensione nella quale i Gasparazzo danno il meglio di loro stessi.

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Management del Dolore Post Operatorio (+ Borghese) 28/03/2014

Written by Live Report

A noi abruzzesi piace molto vantarci del fatto che abbiamo mare e montagna a pochissima distanza l’uno dall’altra. Salvo poi dover arrivare nel giro di mezz’ora da L’Aquila alle estreme propaggini settentrionali del teramano, che saranno anche poche decine di chilometri ma il percorso da affrontare è una specie di videogame, con tunnel che squarciano il Gran Sasso, pieni di uscite di sicurezza di quelle belle grandi da cui da un momento all’altro spunterà il mostro da sconfiggere per passare al livello successivo, e poi curve a gomito, buche, segnaletica vaga e traditrice. Come se non bastasse, sprezzanti di ogni pericolo io e la Bionda (noto personaggio del circuito underground della provincia di Pescara, la chiameremo così per tutelarne la privacy) decidiamo di partire senza l’ausilio di quelle piccole grandi tecnologie che sono oggi alla portata di tutti. Leggasi navigatore satellitare. Prima però che mi immaginiate come una specie di Indiana Jones coi tacchi alti a bordo di una Panda, taglio corto e confesso che il mio smartphone era completamente scarico, perché delle due io sono quella sfigata, mentre lei ha impiegato l’intero tragitto a capire come usare il suo, perché lei è quella bionda e il cliché vuole sia quella scema.

Stasera si gioca in casa. Palco abruzzese, artisti abruzzesi. La Bionda è molisana ma non stona, ‘che tanto al nord sono ancora convinti che siamo un’unica regione. Parlare di irriverenza per descrivere l’evento è quasi un eufemismo. Gli headliner sono una band che per l’artwork del proprio ultimo album ha scelto un’opera di un artista che raffigura Mao Tse Tung truccato da Ronald McDonald. Come se non bastasse, l’opening act è affidato a un cantautore che ha rivisitato in chiave grottesca ma tristemente attuale l’inno partigiano per eccellenza. Eccolo McMao, in bella vista sullo stage del Dejavù. Artisti e realtà live di Marche e Abruzzo sono in crescita costante e proporzionale. Insomma, da queste parti vale sempre la pena affrontare un paio di chicane se alla fine del circuito vi aspetta un live show. Il pubblico è in trepidante attesa dei MaDeDoPo ma Borghese, per l’occasione con un set minimalelectro, cattura l’interesse con i brani del suo esordio, L’Educazione delle Rockstar. Su una insolita versione Elettro Rock di “Ma che Freddo Fa” le ragazze iniziano persino a ballare. Una di loro accanto a me dopo un minuto di ascolto esclama entusiasta rivolta all’amica “Aaahh sì! Quella dei Modà!”, ma questa è un’altra (triste) storia. “Bella Ciao” in chiusura genera le reazioni contrastanti già manifestatesi tra i commenti su Repubblica XL dopo l’uscita del videoclip in anteprima un paio di mesi fa: chi ne coglie l’amara ironia al primo ascolto già intona il ritornello, mentre un tipo grida indignato i versi dell’originale. Ironico che un fraintendimento tanto reazionario nasca in difesa del movimento partigiano.

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Un rapido cambio e sul palco arrivano i Management. L’euforia con cui li accolgono la dice lunga su quanto ormai siano indubbiamente una delle più grosse novità del panorama musicale nostrano. Merito di questo secondo disco (McMao) o della trovata di Luca Romagnoli di tirarsi giù i pantaloni in mondovisione a una manciata di minuti a piedi da Città del Vaticano? Per stasera mi tengo il beneficio del dubbio e mentre ci penso mi godo lo show di un tipo che sembra nato per essere un frontman, qualunque sia la cosa che gli sta alle spalle. Un timbro vocale che poco ha a che vedere con l’intensità del cantautorato italiano, ma che traina il pubblico come un performer di quelli con un paio di greatest hits all’attivo: qui si poga già dal primo pezzo (“Il Cinematografo”, anche gli astuti MaDeDoPo sulla scia del clamore dell’Oscar a Sorrentino), e cantano proprio tutti. Il che non è così scontato. Ai concerti di Vasco Brondi cantano solo le donne, per dire. I quattro proseguono a ritmo serrato intervallando brani di Auff!! ai nuovi, “Marilyn Monroe” e poi “Hanno Ucciso un Drogato”, introdotta da una invettiva contro le forze dell’ordine – molto più probabile che Romagnoli li abbia chiamati sbirri – che quanto pare è una tematica ricorrente (anche in Auff avevano un paio di cose da dire ad un “Signor Poliziotto”) e i presenti sembrano condividere appieno e lo dimostrano prendendosi a spallate più convinte.

La realtà è che ad essere convincente è l’intero progetto MaDeDoPo. Strampalati ad ogni costo, si beffano della normalità, o per meglio dire della presunta tale, bocciano ogni forma di futuro prossimo e anteriore e lo gridano forte, ma l’astuzia sta nel farlo con un sound easy e immediato. Miscelalo con una sezione ritmica martellante, aggiungi testi sfrontati, non scontati e ben mirati a ficcarsi nelle teste dei più, avvolgi il tutto con quell’aria goliardica da Punk pagliacci vestiti da hipster, ed ecco che hai messo tutti d’accordo. Sì, un paio di punti li conquista per loro il batterista con la sua felpa rossa con motivo paisley: il mio obiettivo nella vita da domani sarà averne una uguale. La dimensione live è senza dubbio quella in cui i Management danno il meglio. Quando parte “Sei Tutto il Porno di cui Ho Bisogno”, l’anthem è un boato unanime, ma anche brani di McMao come “La Pasticca Blu” e “James Douglas Morrison” sono già celebri tra i seguaci. Il Deja Vu è così pieno che scoppia, la zona mixer è praticamente sotto assedio, ed ecco che l’impianto salta. Un vero frontman sa che non bisogna concedersi tempi morti, ed ecco che Luca coglie l’attimo di silenzio per lanciarsi in aria in uno stage diving che neanche Iggy Pop nella sua forma migliore, e dico in aria perché il palco è in realtà una pedana di venti centimetri e a Iggy non sarebbe mai venuto in mente.

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Le brevi interruzioni sono solo quelle tecniche, per il resto i ragazzi non si risparmiano. “La Rapina Collettiva”, “Auff” e anche “Fragole Buone Buone”, che è proprio quella di Luca Carboni, una insolita scelta coverizzata e inclusa in McMao a sottolineare il fatto che non bisogna pensare di aver capito di che pasta sono fatti i Management, arriverà sempre una mossa che non ti aspetti. Mentre navigo tra la folla verso il fondo della sala in cerca di una birra sulle note di “Norman”, mi sorprendo in una bizzarra connessione mentale e ricordo un aforisma di Nietzsche sull’espressione “prendere sul serio”. Tre parole correntemente messe in fila che così disposte veicolano un insano pregiudizio circa l’impossibilità di ridere e pensare contemporaneamente. Che speranza abbiamo di sopravvivere al quotidiano senza l’arma dell’ironia? Conquisto una 0.2 e resto in ascolto nelle retrovie. Questo Alt Rock impegnato nei temi e paraculo nei modi mi appare la lingua migliore che rimane alla generazione di quelli cresciuti con tutto, e con la convinzione che lo avrebbero avuto per sempre, per poi ritrovarsi adulti nell’epoca in cui ogni cosa è inevitabilmente a termine.

Lasciateci cantare il nostro scazzo esistenziale mentre ci divertiamo a saltellare sugli stilemi del Rock, conditi di elettronica ma neanche troppo, giusto quel tanto che ci faccia sentire europei. Possibilmente con della birra a portata di mano. E che Nietzsche mi perdoni per averlo tirato in ballo nel raccontarvi di un concerto in provincia di Teramo.

Pics by Ilaria | Jela photo | https://www.facebook.com/pages/Jela-photo/317280911635779?fref=ts

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Franz Ferdinand

Written by Live Report

Alle volte per me è inevitabile associare certi concerti ad una gravidanza. So che con questa affermazione rischio la morte per decapitazione da parte di tutte le donne che hanno passato ore ed ore in sala travaglio, ma abbiate pietà di me e delle mie libere associazioni, che in questo caso fanno riferimento principalmente al sentimento dell’attesa che governa entrambi gli eventi. Compri un biglietto, aspetti per nove interminabili mesi l’arrivo del concerto, consapevole che in quel lasso di tempo può davvero succedere di tutto. Poi il giorno del concerto quasi per magia arriva, e ti trovi improvvisamente catapultato in un Regionale Veloce con destinazione Milano, dove ti aspettano i tuoi compagni di numerose battaglie; quelli forti, valorosi e temerari, che non si spaventano nemmeno all’idea di dover passare una notte da barboni nella stazione di Milano Centrale per andare direttamente a lavoro l’indomani freschi, riposati e soprattutto profumati, per la gioia dei colleghi. Per fortuna la sorte non ci è stata così avversa: il nostro “sopporter” ufficiale avrà pietà di noi ancora una volta e ci riaccompagnerà a casa. Dopo aver sbagliato treno alla fermata Famagosta (ma secondo voi potevamo farci mancare anche questo tipo di emozioni?), arriviamo finalmente al Forum Assago per essere letteralmente assaliti, sin dalla banchina della metro, da un numero incalcolabile di bagarini che offrono biglietti a prezzi modici e stracciati (a detta loro), tanto che mi chiedo se sono l’unica scema ad averlo comprato. Sono le 21.00, il Forum è pieno, ma dei Franz Ferdinand nemmeno l’ombra. Dal palco, l’occhio stampato sul fronte del cd Right Thoughts Right Words Right Action, riproposto sulla grancassa della batteria, ci osserva: uno sguardo divino sulle nostre esistenze? Un Grande Fratello che ci scruta dall’alto? Non lo sapremo mai. Noi lo interpretiamo come un occhio severo che, pur senza proferire verbo, è capace di farci arrivare un cazziatone interiore che dice più o meno “Che cazzo ci fate ancora senza birra in mano?”. Tranquillo occhio sulla grancassa, provvediamo subito.

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Con una birra in mano le 21.30 arrivano senza problemi, e finalmente si comincia. I Franz Ferdinand si palesano in tutto il loro splendore sul palco. Alex Kapranos guadagna la posizione centrale, ed io lo amo già solo per la sua giacca di pelle, per il suo modo di saltellare sul palco e per come dice “Buonasera Milano”. La scenografia retrostante non è di grandi pretese, ma essenziale: uno schermo centrale e due grandi schermi laterali per proiettare immagini, luci ed effetti. Si comincia con “Bullet”, dall’ultimo album, e si prosegue con pezzi degli album precedenti, per un mix letale tra vecchio e nuovo. Tutto procede a meraviglia, l’energia che si sprigiona è tanta, come da previsioni: dentro, fuori e intorno è tutto un gran saltare. Intuisco l’arrivo di “Do You Want To” e mi preparo ad una carica nelle ginocchia da salto sulla luna, ma stranamente il ritmo rallenta, e così accade anche per “Walk Away”. Mi sa tanto che ci toccherà preservare l’energia potenziale per il seguito. Infatti a partire da “Take me Out”, seguita da “Love Illumination”, sarà uno scatenarsi di emozioni, voci e mani al cielo senza tregua, che solo “Jacqueline” e “Goodbye Lovers and Friend” riusciranno a mettere a freno, lasciandoci intravedere in controluce la fine del concerto. Mentre canto Goodbye lovers and friends, so sad to leave you, when they lie and say this is not the end… la mia voce si unisce a quella di altre “millemila” voci, ma mi ritrovo infine abbracciata a coloro che poco prima in metro mi facevano ridere in una maniera così spensierata, e penso che no, non ci dovrebbe mai essere una fine a tutto questo; non dovrebbe mai avere fine la Bellezza.

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