Bentornato TOdays Festival: uno sguardo collettivo sull’edizione 2021

Written by Live Report

L’edizione appena conclusasi è stata la più significativa della storia della rassegna torinese, per più di un motivo.

[ photo credits: TOdays Festival // video credits: Tony Mistretta ]

Rockambula è una realtà editoriale così intima che a volte un evento può trasformarsi in una riunione aziendale.

Alla fine del mese scorso, nella consueta cornice post industriale della periferia nord di Torino in cui accadono le bellezze del TOdays Festival, ben quattro dei nostri collaboratori si sono rincontrati dopo molto tempo trascorso senza vedersi. Perché noi “concertari” ci incontriamo ai concerti. Abbiamo atteso con ansia il ritorno a una parvenza di normalità – e a dire il vero attendiamo ancora la normalità compiuta – non solo per la musica, ma per rivedere le solite facce sotto al palco, che da nord a sud dell’Italia sono sempre quelle, persone che fanno centinaia di chilometri pur di esserci, pur di condividere la magia della musica dal vivo con quelli che la vivono allo stesso modo.

Se finora avete fatto fatica a comprendere il senso del discorso, questo articolo – anzi, questa webzine – non vi interessa. Se invece avreste voluto esserci ma non avete potuto, noi ve la raccontiamo in coro.

GIOVEDÌ 26 AGOSTO

(di Maria Pia Diodati)

Nonostante le defezioni di più di uno degli artisti stranieri in cartellone, oggettivamente il TOdays 2021 è stato un miracolo di quelli a cui nessuno avrebbe creduto. L’audacia dell’organizzazione è stata ripagata da un’adesione massiva: tutto il pubblico di cui le normative hanno consentito la presenza. Audaci e pure scrupolosi nei controlli e nell’applicare le misure anti-contagio, una roba che forse non ho visto manco in ospedale (di certo non in settori decisamente meno in crisi di quello dello spettacolo, e qui chiudo parentesi polemica per non riaprirla mai più).

E quindi la fila all’ingresso è ancora molto lunga quando il primo live ha inizio, però quelli sul palco non sono i Working Men’s Club – sob – e personalmente preferisco attendere con pazienza che verifichino i green pass dei presenti, così poi quando entro me li abbraccio tutti senza pensieri. Ásgeir inaugura la sesta edizione della kermesse senza quelli che come me hanno calcolato male i tempi, ma ho il sentore che stasera in molti siamo qui essenzialmente per gli altri inglesi in programma, quelli che sono riusciti ad esserci – anche se hanno dovuto rinunciare a vinili e merchandise per colpa dell’implacabile Ryanair.

Lo stato d’animo che incarna la musica dei Dry Cleaning è tutto ciò di cui ho bisogno per sugellare questo momento che ora non lo so ancora, ma più tardi si rivelerà essere di svolta. La noia esistenziale, materia prima del post-punk di New Long Leg, è quanto di più adeguato ho trovato lo scorso inverno nel tentativo di esorcizzare lo stesso mood indottomi da reclusioni e distanziamenti sociali. Me li ascolto dal vivo, con lo spoken catalettico di Florence Shaw a fare da contraltare alla massa sonora fitta e pungente a cui provvedono i suoi sodali, e dico addio a sensazioni che sono pronta a dimenticare.

Dopo il cambio di rotta mi ci sta bene anche la malinconia posticcia di Andrea Laszlo De Simone, che è in versione orchestrale e gioca pure in casa per cui è in gran forma, anche se personalmente lo preferisco quando grida quei Vieni a Salvarmi duri e puri.

Ed ecco che già al termine del primo giorno si torna a credere un po’ ai miracoli.

VENERDÌ 27 AGOSTO

(di Maria Petracca)

Inutile dire quanto sia stato catartico e liberatorio partecipare quest’anno, non solo per il pubblico ma anche per le band ospiti: finalmente un grande evento dopo mesi di stop per tutti, per alcuni il primo all’estero nell’arco degli ultimi due anni. Facile quindi immaginare quanta energia si sprigionasse da quel palco, quanta gioia e quanta sana “sbruffonaggine” venisse fuori da bassi, chitarre, batterie e chi più ne ha più ne metta.

È il caso degli I Hate My Village di Viterbini, Fasolo, Rondanini e Alberto Ferrari – un’occasione per loro di suonare live il loro ultimo EP, Gibbone – seguiti a ruota dai Black Midi, insolenti ragazzacci di Londra, capaci di infuocare il palco con la loro musica difficile da classificare con un’etichetta. Post-punk? Math-rock? Experimental-rock? Chi se ne frega. Quello che importa è che nella giornata di venerdì hanno inondato il mondo di pura energia vitale, trasmettendola via etere a chi era seduto all’ascolto. Non sono mancati inoltre i momenti più soft a suon di chitarra acustica, i classici momenti di quiete dopo la tempesta, è il caso di dirlo.

Infine, a chiusura della serata, uno dei momenti più intensi di tutto il festival. L’esibizione di Teho Teardo, prima con il corto “A Man Falling”, diretto dallo stesso insieme ad Orazio Guarino e con la voce narrante, tra gli altri, di Blixa Bargeld, e successivamente con la sonorizzazione di “La Jetèe”, film di Chris Marker del 1962, il cui stato di inquietudine vissuto dal protagonista ben si collega a tutto ciò che abbiamo passato nei mesi scorsi. Ma quale altro modo, se non quello dell’arte per esorcizzare la paura e sublimare le emozioni vissute? Il lavoro di Teho Teardo sembra nato per questo.

SABATO 28 AGOSTO

(di Antonio Azzarone)

Di questa sesta edizione ho potuto concedermi una sola sera, purtroppo. “Invece l’anno scorso tutte”, continuo a ripetere alle persone che incontro, senza accorgermi che in realtà mi riferisco al 2019. Abbiamo perso un anno di vita, non solo di musica live, e fatichiamo a rendercene conto. Ma come si torna a un festival dal vivo, dopo tutto questo tempo? L’atmosfera sarà la stessa di sempre o subirà l’influenza dell’ombra lunga del Covid?

Mi faccio queste domande mentre percorro la strada verso l’area del concerto. Arrivo con congruo anticipo, come richiesto: serve più tempo del solito, si entra solo se in possesso del green pass e ai partecipanti viene assegnato un posto a sedere numerato. Già, quest’anno ci sono le sedie, niente assembramento sotto il palco. Appena superati i controlli l’impatto è subito emozionante. Ok, ci sono le sedie, ma l’ambiente è rilassato come sempre. C’è il papà che accompagna suo figlio al primo concerto, c’è la solita gara tra il pubblico a sfoggiare magliette e borse di tela più alternative (menzione speciale per quella degli Suede), ci sono tante persone che si incontrano e si abbracciano, tra una birra rigorosamente in bicchiere bio e un “rock burger”. C’è voglia di normalità, di leggerezza.

E poi c’è la musica, ovviamente. Il programma è di altissimo livello. Il Covid, sempre lui, ha messo fuori gioco gli attesi Black Country, New Road, nuovi eroi dell’alternative britannica. Un’assenza molto più pesante per chi scrive dell’addio quasi contemporaneo di CR7 ai miei colori bianconeri, a cui l’organizzazione rimedia ingaggiando al volo un’esperta band di indie pop svedese, gli Shout Out Louds. Li riconosco nell’area food antistante il palco, seduti e rilassati a sorseggiare birra sino a 15 minuti prima di iniziare. Voilà, la leggerezza! Il loro set scorre via e accompagna il tramonto, con alcuni tentativi di ringraziamento e saluto in italiano, con pezzi inediti tra il repertorio.

È ormai buio alle 21.30 quando sale sul palco Jacopo Incani, IOSONOUNCANE, accompagnato da Amedeo Perri e Bruno Germano, con lui alle tastiere elettroniche e sintetizzatori. Quello che segue è uno spettacolo totalizzante, che poggia sull’ultimo album IRA e che richiede attenzione, ma che ripaga ogni sforzo. Non ci sono pause, un’ora di pura immersione emotiva nei suoni ossessivi dell’artista, in cui si intrecciano elettronica, psichedelia, echi del Maghreb e reminiscenze jazz, che incontrano testi in lingue diverse. Una figura che va ormai oltre la definizione di cantautore, che si staglia al buio illuminato dalle sole luci di uno spettacolo curatissimo e della sua sigaretta, quasi sempre accesa. Sul reiterato e potentissimo finale di Hjar uno alla volta i 3 musicisti abbandonano il palco, lasciando alle macchine la chiusura.

Difficile fare meglio nella stessa sera, ma succede. Il live dei The Comet is Coming è forza pura, tra elettronica, jazz, afrofuturismo e spiritualità. Si muovono anche le sedie sotto i colpi di “king” Shabaka Hutchins al sax, Danalogue (grande intrattenitore) alle tastiere e Betamax Ohm alla batteria, anche nei fantastici assolo che infiammano il pubblico. Per qualche minuto persino l’amplificazione va ko, e alla ripresa ormai gran parte del pubblico è in piedi a ballare: la cometa è arrivata e sembra avere la meglio anche sul Covid!

DOMENICA 29 AGOSTO

(di Maria Pia Diodati)

La grande assente della serata è Arlo Parks. Me la prendo sul personale come se l’avessi invitata al mio compleanno e mi avesse dato una buca clamorosa, e per protesta contro il destino mi rifiuto di palesarmi davanti al palco su cui alle ore 20 Erlend Øye sale al posto di lei. Mi passa un pochino quando è il turno di Motta, mi dirigo con prudenza in platea ma dopo poche note si riapre una ferita aperta, quella che mi ha inferto lasciandomi sola con quell’adorabile debut album nelle orecchie, mentre lui navigava a gonfie vele verso sfilate di moda e major nostrane (ah France’, che poi si vede paro paro che ti diverti un sacco di più quando è il momento di fare i pezzi de La Fine dei Vent’Anni invece di quelle robe che sembri Ermal Meta).

Se dev’essere una serata di chiusura memorabile, l’incombenza è tutta sulle spalle degli Shame, perfettamente in grado di portare a termine la missione, che per loro invece i vent’anni sono appena iniziati – e a vederli stasera sembrano avere la stoffa di quegli artisti capaci di farli durare fino ai settanta. L’energia che arriva dal palco è una roba così travolgente che non c’è nulla da fare, lo stesso pubblico che ha trascorso diligentemente quattro giorni seduto composto ora non riesce a trattenersi, deve alzarsi in piedi e muoversi nel seppur limitato spazio a disposizione tra le file delle sedie, partecipare alla foga del momento – per loro è il primo live all’estero da due anni a questa parte, ci dice il frontman Charlie Steen – e all’urgenza del messaggio, che la formula dei londinesi musicalmente sarà pure derivativa ma il risultato è sorprendentemente impattante (e lo sconforto si fa largo nel realizzare tutt’a un tratto, nel bel mezzo del live, che tra i coetanei nostrani degli Shame non c’è nulla di lontanamente simile a loro per intenti e vocazione).

Questo TOdays ce lo ricorderemo a vita. Il miracolo è compiuto, andiamo in pace.

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Last modified: 20 Ottobre 2021