Silvio Don Pizzica Author

Era così tanto un bravo ragazzo. Poi ha conosciuto la trap.

Le Classifiche 2014 di Silvio “Don” Pizzica

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Quadrupède – T O G O Ban

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La creatura di Le Mans è uno strano quadrupede, un duo eccezionalmente versatile capace di ostentare i suoi due volti, strutturalmente simili, ma completamente dissimili nella colorazione, come suggerisce la variopinta cover a doppia facciata (opera dell’artista Akatre) nella quale due teste antropiche sono completamente sommerse da flussi di vernice dalle tonalità difformi. Due anime che si avviluppano e moltiplicano in quest’opera attraverso le aperture dell’Electronic sperimentale e del Math Rock. I Quadrupède, giovane formazione in attività da circa tre anni, espandono questo poderoso processo creativo amalgamando arrangiamenti elettronici e classica strumentazione Rock, fatta di batteria e chitarre, collaudando le proprie capacità al fianco di grandi artisti come LITE, Papier Tigre, Woodkid, Adebisi Shank e Lost in the Riots e pubblicando dunque T O G O Ban, esordio dalle rosee speranze. Il lavoro è stato mixato da Matt Calvert (Three Trapped Tigers), masterizzato nella capitale britannica da Peter Beckmann (Sun Ra, The Magic Lantern) e pubblicato dall’etichetta belga Black Basset Records.

Sette brani che non raggiungono la mezz’ora ma che riescono comunque a trascinare, almeno parzialmente, e travolgerci in un ascolto vorticoso e intenso. L’intro celestiale stile Mùm contornato da voci angeliche e monotone presto si fonde con una possente Drum’n Bass (“Beam Pool Mom”) che a sua volta si rivela stilisticamente cangiante e pronta subito a palesare le diverse sfaccettature dell’opera che seguirà. Gli indizi Glith Pop e Noise della parte introduttiva si fanno presto prove (“Via Là”) mentre con “Rhododendron” emerge la vicinanza del duo dei Paesi Bassi con la musica dei cugini Don Caballero, anzi, ancor più con i newyorkesi Battles, in questa parte più che una semplice ispirazione nella combinazione di ritmiche precise e ripetitive e inserti elettronici. Quasi completamente assente l’aspetto lirico e vocale (sospiri e cori perlopiù) mentre più forte, rispetto ai già citati autori del piccolo capolavoro Mirrored, è il fattore Rock duro e crudo che tuttavia si manifesta solo parzialmente nei vari brani con brevi sfuriate che permettono al disco di suonare più carico di quanto non sia effettivamente nella sua totalità; interessanti anche i passaggi Electro/Prog Pop (“ASTRØ”) mentre annoia un po’ la deriva Electro Ambient/Ethereal nella parte finale (“Adulhood”) risollevata dal brusco crescendo potente caratteristico di molti di questi brani. Introduzione compresa, sono ben tre gli intermezzi anche se “Oblong Opale” può piuttosto definirsi come il momento più sperimentale e inquietante dell’album, invece che semplice momento di stacco tra prima e seconda parte.

T O G O Ban è un esordio degno di nota, che colpisce al primo ascolto, anche per la curiosità nei confronti di un certo tipo di Math Rock misto a Elettronica che non troppo spesso (vedi Battles) abbiamo avuto il piacere di ascoltare realizzato con efficacia. Un lavoro riuscito quando più definito e complesso come nel caso di “Rhododendron” ma che finisce per annoiare e suonare indigente quando si dilunga in ridondanze Electro prive di carattere. Complice la brevità, non regge ad ascolti ripetuti ma può essere certo la base per qualcosa di ancor più valido magari in un futuro prossimo.

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Deerhoof – La Isla Bonita

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Lo avrete letto ovunque e questa storia vi avrà anche annoiato ma mi è impossibile non iniziare a parlarvi de La Isla Bonita senza partire dalla sua dichiarata genesi, non fosse altro per la passione del sottoscritto per i fast four. Tutta colpa dei Ramones, a quanto pare. Avrete presente “Pinhead”, brano incluso nell’album Leave Home dei newyorkesi? A un certo punto qualcuno si è chiesto perché Satomi Matsuzaki (basso e voce) e la sua banda non scrivessero canzoni di quel tipo ed ecco che Greg Saunier (batteria e tastiere) butta giù in un baleno la bozza di quella che sarà “Exit Only”, traccia numero sei che diventa il centro nevralgico dell’intera fatica. Non sarà questo l’unico omaggio diretto dell’opera; già l’opening (“Paradise Girls”) nasce come cover di “What Have You Done for Me Lately” di Janet Jackson, anche se poi il brano ha subito alterazioni tali da diventare qualcosa di nuovo mentre “Black Pitch” prende spunto da 24/7: Late Capitalism and the Ends of Sleep, realizzazione letteraria di Jonathan Crary che esplora il susseguirsi disastroso e lo sviluppo devastante del capitalismo moderno.

Quello che è indubitabile è che con circa venti anni di carriera alle spalle e una quantità non indifferente di full length, ep, singoli, live e apparizioni in compilation, nonostante i cambi di formazione, ancora è durissima trovare qualcuno che possa sedere al fianco di Ed Rodriguez e John Dieterich (chitarre) oltre che dei due già citati Greg e Satomi, sia in quanto a stile sia come qualità. Il loro Pop destrutturato è cangiante a ogni volteggio, si veste di matematiche e fredde stoccate per poi ricomporsi in melodie accattivanti o ancora aggredirci con poderose cavalcate Punk. Insegue ritmiche Dance Pop soffocate da strati di chitarre Noise da far sanguinare le orecchie che pure si rifanno a certo Math stile Battles. Art Pop che si trasfigura in un Freak Folk tra Animal Collective, Dirty Projectors e Tune-Yards per poi divenire nuovamente altro. Nulla è direttamente riconducibile ad alcunché di noto anche se ogni cosa ha il sapore vago del conosciuto. La linea vocale di Satomi regala un incredibile tocco di delirio nipponico come nella migliore tradizione Experimental del Sol Levante. Non manca inoltre di trattare temi di stampo politico, economico e sociale (“Mirror Monster”, “Last Fad”, “Big House Waltz”). Riesce anche ad allentare le tensioni con una sognante e psichedelica atmosfera caraibica che fa pensare a dei Vampire Weekend sotto gli effetti di qualche allucinogeno andato a male (“Doom”).

La Isla Bonita si chiude quasi con un gioco (“Oh Bummer”), con i membri a scambiarsi gli strumenti, voce compresa, come a ribadire una certa voglia di dire le cose per bene, fare le cose per bene ma senza prendersi troppo sul serio (lezione portata avanti con successo anche dai Flaming Lips) perché il segreto di questo disco alla fine sta tutto nella sua follia allegra, nei suoi deliri colorati, nel suo caotico ordine innaturale.

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C’mon Tigre – C’mon Tigre

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Non sono trascorsi molti giorni da quando ho ascoltato il primo singolo dei C’mon Tigre e circa gli stessi da quando ho ammirato il videoclip di “Federation Tunisienne de Football”, animato dal pittore Gianluigi Toccafondo, perfetta resa video dello spettro caleidoscopico del collettivo, progetto dalle mille anime che mette al centro il crocevia culturale del bacino mediterraneo. Da quel primo contatto, tanta è stata la curiosità su come avrebbe potuto mutare la musica in un contesto full length e dunque, avere ora la possibilità di origliare l’album autoprodotto, è qualcosa che mi stuzzica particolarmente.

Il sound dei C’mon Tigre è una mescolanza di Funk, Jazz, World Music, Rock, Afrobeat tutto in chiave sperimentale e libera da ogni schema di sorta. Difficile tracciare dei paragoni mentre più agevole è viaggiare per immagini, data la natura inebriante, seducente e stimolante di tanta ostentata vena creativa. L’uso di riff ossessivi su ritmiche cadenzate e chitarre fioche che dipingono melodie dal sapore mediorientale e le mirabili illustrazioni esotiche collaborano a creare un’atmosfera vagamente psichedelica e cinematografica. I tredici brani composti dal duo C’mon Tigre e arrangiati con la partecipazione di artisti di tutto il mondo (Jessica Lurie, Henkjaap Beeuwkes, Pasquale Mirra, Ahmad Oumar, Enrico Fontanelli, Danny Ray Barragan, Eusebio Martinelli, Dipak Raji, Rocco Favi, Paolo Berluti, Malik Ousmane e Simone Sabini) divengono un’ideale colonna sonora per un film astratto che vi vedrà protagonisti dentro sceneggiature afro, tra scene di sesso bollente, sudato, sabbioso, baldacchini e profumi sinuosi che avvilupperanno la vostra mente mentre le parole raccontano tutt’altra storia, fatta di calcio e di Africa; anzi tante storie diverse. Il Mediterraneo al centro di tutto ma innumerevoli contaminazioni che sviscerano e strappano il sound di questo debutto omonimo da ogni possibile catalogazione; allo stesso modo, due forze sono quelle che hanno creato tutto questo eppure tanti sono i volti che potrete riconoscere seguendo i tredici brani. Alla lunga, gli oltre cinquantasette minuti potranno anche stancarvi, forse risultando eccessivamente ripetitivi ma l’esperienza d’ascolto di questo C’mon Tigre sarà talmente intensa da somigliare più a un rapporto sessuale che ad altro, a quel tipo di pratica nel quale cinquantasette minuti possono sembrare anche sette ore, per l’intensità e il trasporto che generano. Quello che posso augurarvi è che, il tredici ottobre, data di uscita ufficiale, possa fare ancora abbastanza caldo da ascoltare tutto, da “Rabat” a “Malta”, avvinghiati alla vostra amata, sudando sotto un sole brillante come il Mediterraneo.

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Sleepmakeswaves – Love of Cartography

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Quando decollano le prime note (“Perfect Detonator”) del secondo full length targato Sleepmakeswaves, la prima preoccupazione da cui il mio istinto ha cercato di sfuggire è stato dovermi sciroppare dieci pezzi di una mistura Emo Pop dalle venature sinfoniche con un qualche vocalist dall’imbarazzante intonazione in stile Gerarg Way (My Chemical Romance) a massacrare la mia pazienza. Per fortuna, la memoria funziona ancora abbastanza bene e, con facilità, ho potuto distinguere, nelle note di Love of Cartography, lo stesso stile (una specie di Ambient Rock prettamente strumentale) melodico e dalle tendenze a una certa epicità che mi colpì, senza far danni, tre anni orsono con …And So We Destroyed Everything e ancor prima, nel 2008, con In Today Already Walks Tomorrow (non sono queste però le prime produzioni del quartetto di Sidney, le cui radici vanno invece ad affondare ancor più in là, agli inizi del 2007).

Rispetto al passato, il sound di Jonathan Khor (chitarre), Alex Wilson (basso, programming, tastiere), Tim Adderley (batteria) e Otto Wicks-Green (chitarre), diviene ancor più rapsodico, gonfiandosi di un’energia che si sfalda nell’ inoltrarsi dei minuti, disfacendosi nell’incapacità di plasmare una trepidazione sonica di sorta. Perspicace la scelta di non abbandonare la melodia, alla ricerca di una sperimentazione che li avrebbe resi ancor di più difficile ascolto e costruttivo è l’uso dell’elettronica che si fa più incalzante da “Emergent”. Eppure, Love of Cartography annoia, non incanta, non fornisce la giusta carica che solo certi album strumentali riescono a dare (penso a Lift Yr. Skinny Fists Like Antennas to Heaven! dei Godspeed You Black Emperor! o The Earth Is Not a Cold Dead Place degli Explosions in the Sky) e finisce per somigliare a un album ancora abbozzato al quale si debba aggiungere una voce, più che a un’opera compiuta. Provano a spezzare la monotonia alcuni brani più elastici come “A Little Spark” e convincono altri più vicino al rock strumentale moderno (“How We Built the Ocean”) ma nel complesso, nel già intricato e contorto mondo del fosco Post Rock, c’è ancora troppa roba con un passo decisamente oltre quello di questi nuovi Sleepmakeswaves.

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Toehider – What Kind of Creature Am I?

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Ci sono due preamboli da fare quando si parla di questa band australiana in attività da circa sei anni. Primo, il progetto di Michael Mills è esageratamente temerario e il risultato è senza ombra di dubbio di quelli che si faranno apprezzare dal pubblico innamorato del moderno Progressive Rock. A questo possiamo aggiungere che molto attraenti sono le illustrazioni a cura di Andrew Saltmarsh che ci riconducono al titolo stesso dell’opera, What Kind of Creature Am I?. Secondo, questo modo di suonare Prog mi urta parecchio i nervi; è pretenzioso, vecchio, inutilmente ridondante e sfiora in diverse occasioni l’autocelebrazione. La musica contenuta in queste dieci tracce è di chiara e manifesta influenza Queen, con particolare attenzione alla teatralità della lirica quasi a guisa di una Rock Opera che (così pare) si concreta in tutta la sua epicità, non priva di una discreta dose di umorismo, nelle esibizioni live. Noti, oltretutto, per la loro eccezionale prolificità che li ha portati a produrre ben dodici Ep nel giro di dodici mesi, i Toehider sprigionano un’energia pazzesca grazie alla velocità esecutiva strumentale e canora, grazie a ritmiche potenti e accelerate e a cambi di tempo da capogiro.

Eppure What Kind of Creature Am I? è proprio uno di quei dischi che non vedi l’ora di togliere dallo stereo, mettere da parte e dimenticare. Perché tutta quella tempra di cui parlo è troppo lontana dallo spirito di chi poi quei brani deve ascoltarli. E non bastano i diversi inserti strumentali, le citazioni, i tecnicismi e quant’altro a dare una parvenza di vitalità a un genere che, devo ammetterlo, mi stanca con facilità quando manca proprio di quello slancio produttivo che possa portarlo oltre quello che il Prog ha rappresentato negli anni passati. Non posso continuare ad ascoltare cose di questo tipo, come non ho tempo per andare a leggere altre stronzate di Gramellini o sprecare ore preziose dietro a film di Gabriele Muccino che m’indicheranno la via per la felicità. Abbiate pietà di me, ma per pulirmi le orecchie butto giù una dose massiccia di Hitchhiking to Byzantium.

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Lilia

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Lilia Scandurra, in arte semplicemente Lilia, è una giovanissima artista pescarese che sta facendo tanto parlare di sé in questi mesi, grazie alla pubblicazione dell’Ep 44 e ad alcune convincenti esibizioni live, tra cui quella a Streetambula Music Contest dove ha ricevuto il riconoscimento Wallace Multimedia come miglior presenza scenica, premiata dal grande e storico leader dei Diaframma Miro Sassolini. In occasione dell’esclusiva video offerto a Rockambula, abbiamo parlato un po’ con lei di passato, presente, futuro e numeri.

Ciao Lilia, come stai?

Questa è la domanda più difficile del mondo, no comment! Scherzo, mi sento bene (ride ndr)

L’ultima volta che ti ho visto suonare dal vivo eri a Pratola Peligna (AQ), un paesino abruzzese dove c’è un grande fermento e dove hai fatto breccia nel cuore del pubblico. Avevi già suonato lì in occasione di Streetambula Music Contest, quando Miro Sassolini ha premiato la tua performance con un riconoscimento speciale. Che esperienza è stata e cosa ti ha lasciato? Credi nell’utilità dei contest?

È stata una bellissima esperienza, prima di tutto perché quando si partecipa ad eventi organizzati con il cuore, torni a casa con il sorriso, pieno di energie positive e voglia di credere in quello che fai. Lo Streetambula Music Contest è stato il secondo concorso a cui io abbia mai partecipato e lì ho avuto l’occasione di conoscere nuove persone ed interessanti realtà artistiche ed è soprattutto questo che conta per me.

Cerchiamo di chiarire che tipo di musicista sei. Da sola sul palco, in compagnia solo del tuo portatile, mescoli un’Elettronica leggerissima a suoni e parole multiformi usando piccole tastiere e percussioni generate da drum-machine oltre che la tua incantevole voce. Tu l’hai definita Elf-tronic, qualcuno la chiamerebbe Dream Pop. Spiegaci la tua musica lasciando da parte le definizioni.

Per me suonare vuol dire (anche) “giocare”. Quando mi esibisco sento scorrere dentro di me vibrazioni che risvegliano una parte istintiva e un po’ “mistica” perché è in atto un processo creativo, ed è anche per questo che preferisco la dimensione live:  i brani registrati in studio sono come un “diario di bordo”, le performance sono “avventura”.

Sul palco non ti affianchi ad altri musicisti e le tue possibilità di movimento sono limitate dalla necessità di controllare il computer e tutto il resto. Quanto questa scelta minimale gioca a tuo vantaggio e quando può trasformarsi in un limite, sia in ambito compositivo e sia in merito alla capacità di riempire il set?

Allacciandomi alla risposta precedente, quello che mi piace di questa dimensione è proprio la possibilità che ho di divertirmi. Ho iniziato il mio percorso artistico cinque anni fa, esibendomi con la mia chitarra (e registrando poi un disco nel 2011, Il Pleut, che ho portato in giro talvolta in solo, talvolta accompagnata da ottimi musicisti) ed il limite personale che sentivo allora era proprio quello di sentirmi “racchiusa” in una bolla, dove abbracciavo la chitarra quasi fosse uno scudo protettivo. Con questo progetto sento invece molto forte la libertà di movimento, posso saltellare, spostarmi, premere, automatizzare, come un’alchimista nel suo laboratorio,  e tutte le piccole scatole magiche (aka laptop, drum-machine etc) di cui dispongo, sono piccoli e potenti giocattoli che mi permettono di suonare, trasformare la voce, registrarla in tempo reale per creare atmosfere.

Da poco è disponibile (qui) il tuo Ep 44. Come nasce un lavoro come questo, quali sono le tue ispirazioni e i tuoi punti di riferimento?

Voglia di sperimentare  ed ossessione (due mesi passati nella mia camera che pian piano è diventata un piccolo home studio) sono due fattori che hanno inciso fortemente nella creazione di 44.

Raccontaci il perché del titolo. In realtà io già so qualcosa e non posso negare che la storia è affascinante.

I numeri pari mi fanno sentire tranquilla. 44, è un numero che mi fa stare bene per vari motivi (sui quali non mi dilungherò per non sembrare una psicolabile (ride ndr)), ed è proprio per esprimere il benessere che ho provato nel registrare l’ep che ho scelto il mio numero preferito.

Lilia è indissolubilmente legata ad un’altra band che tanto sta facendo parlare di sé. I Two Fates. Cosa vi avvicina e ci sono delle affinità anche stilistiche tra voi?

Tiresia e LorElle (le due anime dei Two Fates appunto, ndr) sono amici preziosi. La loro caratteristica più potente è il coraggio di osare, e il loro naturale pregio è quello di riuscire a condividere: emozioni, sapere, pensieri e momenti. Tiresia si è occupato del mixing e del mastering di 44 e continueremo a collaborare per il prossimo lavoro (vero, Tiresia? (ride ndr)). Ci sono tante affinità che ci accomunano ma anche interessanti differenze stilistiche che rendono produttivo il nostro scambio.

Credi che una musicista come te possa trovare un suo spazio dentro la scena emergente e indipendente italiana o sei, volente o nolente, relegata ad un ruolo marginale?

Sì, lo credo. E il mio obiettivo è quello di emergere, sempre rimanendo un’artista che fa parte di un sottobosco che sia poco mainstream.

Perché hai deciso di fare questo nella vita? È solo questione di passione o ci sono stati eventi in particolare che ti hanno fatto prendere certe decisioni.

Non nascondo che all’inizio è stato “strano”. Come un po’ tutti quelli che si “scoprono”  eseguendo repertori inediti, ho cominciato molto timidamente perché ero abituata a suonare per me. Nel mio primo live ho eseguito tre canzoni… e mezzo. Ero terrorizzata! Inoltre, come spesso accade, il fatto di esibirmi davanti a degli ascoltatori mi ha aiutata a migliorarmi. Inoltre prima di suonare sono sempre un po’ nervosa ma, non appena  comincio, questo stato d’animo lascia spazio ad un benessere che mi riempie. Tutti dovrebbero avere uno spazio dove poter provare questo.

Restando in tema, nella vita ti occupi di altro o sei musicista a tempo pieno? E comunque, pensi che nel 2014 si possa scegliere di essere musicisti professionisti (turnisti esclusi)?

Quest’anno mi sono laureata in Lingue Straniere e di tanto in tanto faccio lavori inerenti al mio campo di studio. Inoltre negli ultimi mesi ho registrato le voci per i due EP di Dear Baby Deer (ascolta qui) , progetto di Gianluca Spezza (ex Divine), che si divide tra Italia e estero. Secondo me si può scegliere di essere musicisti a tempo pieno, con molti sforzi e tanta umiltà. Bisogna essere concentrati e non lasciare nulla al caso.

Tra i tanti complimenti e apprezzamenti, non manca mai anche chi trova il modo di criticare ed in fondo è giusto così. Tra le cose che più ti si rimproverano ho trovato più interessanti anche se non sempre condivisibili queste di seguito: 1) alcuni brani sono troppo lunghi, ripetitivi e pesanti 2) il live è troppo scarno 3) dovresti lasciare a qualcuno più esperto la parte relativa al lato elettronico e dedicarti più alla voce. Quanto c’è di condivisibile?

Le critiche costruttive non mi danno fastidio, anzi.  Con 44 mi sono messa in gioco totalmente, sapendo che avrei potuto ricevere pareri contrastanti. Una cosa che chiedo sempre alle persone che ascoltano il mio lavoro è di darmi un parere sincero, perché ne ho bisogno. Sono una musicista profana – non ho mai studiato- ma ho sempre dedicato tanto tempo a quello che mi fa stare bene. Sono testarda e questo fa si che io rincorra ciò a cui voglio arrivare senza compromessi. Il live è minimale perché è così che sono io, i brani sono forse troppo lunghi ma non ho il dono della sintesi e per me non esiste superfluo: se una canzone nasce lunga sei minuti e cinqanta la lascio così. Mi piacerebbe un giorno provare a condividere il palco con qualcuno che possa arricchire la performance, ma questo non perché io voglia lasciare a qualcuno di più esperto il “lavoro sporco”. Mi diverto tanto a fare tutto da sola per adesso (oltre ad essere una formula comoda quando mi sposto), e mi divertirei suonando con qualcuno.

Qual è la cosa più bella che la musica ti ha regalato e quella assolutamente da dimenticare?

Una cosa sola, che abbraccia entrambe: la consapevolezza di essere “delicata”. Una cosa che gioca a favore di chi si espone, perché significa possedere sensibilità. Nello stesso tempo è qualcosa che viene piacevolmente “dimenticato”, quando, appunto, ci si espone.

Di cosa parla Lilia nelle sue canzoni (in inglese)? E cosa vuole trasmettere?

Di immagini simboliche, metafore, esperienze reali o immaginarie. Per me sono piccole pillole terapeutiche o formule magiche. Vorrei trasmettere sensazioni che siano difficili da esprimere.

Quando la musica è arte e quando semplice intrattenimento?

Ho lasciato questa domanda per ultima, lo sai? È la più bastarda che mi abbiano mai fatto (e con questa risposta, mi riallaccio all’ultima domanda *risata malvagia* )

Quali ascolti hanno portato Lilia a comporre la sua musica? E cosa ti piace ascoltare abitualmente?

Pensandoci su, mi sono resa conto che tendo a prediligere voci femminili, per una questione di studio personale. Fever Ray, Bat for Lashes, Grimes, Norah Jones, Tori Amos, Portishead…Poca musica italiana. Nutro un amore incondizionato nei confronti di Nick Drake.

Ultimamente proprio Tiresia dei Two Fates ha messo in luce uno dei problemi attuali della scena musicale italiana, data dal ruolo delle etichette, anche indipendenti. Da un lato chi le critica di non avere voglia di sbattersi troppo dietro ai gruppi, dall’altro chi accusa invece le band di non voler fare il lavoro “sporco” di crearsi una fanbase, vendere merchandising, ecc.. Che idea ti sei fatta e che rapporto hai con le etichette?

Sono affascinata da queste discussioni, ma preferisco non pronunciarmi perché sto ancora osservando da un punto di vista “distaccato” poiché momentaneamente non sto lavorando con nessuna etichetta. 44 è un album autoprodotto, registrato in casa e disponibile in formato digitale. È gratuito, perché il mio obiettivo è raggiungere tante orecchie, e, per lo meno per me, non è indispensabile cercare guadagno dove non ci sono costi da recuperare. Sono più concentrata sull’investire energie e tempo per far si che ciò di cui la gente fruisce sia godibile. E a curare la dimensione live, che è la cosa che per me conta maggiormente.

Come ti stai muovendo per promuovere la tua musica e dove credi di poter arrivare?

Finora mi sono occupata personalmente della mia promozione. Grazie allo Streetambula Project  è da poco sbocciato un magico sodalizio con la deliziosa Roberta D’Orazio (Mola Mola), che mi sta facendo da Ufficio Stampa. Inoltre sta nascendo una collaborazione con un’agenzia di booking che mi darà la possibilità di portare in giro il mio progetto.

Grazie mille per il tuo tempo e per le tue parole. Un’ultima cosa prima di salutarti. Ho avuto il piacere di conoscerti e sei una persona deliziosa, sempre disponibile e carina con tutti, sempre. Dimmi qualcosa di cattivo, verso chiunque. Ce la fai?

Facilissimo! Qualcosa di cattivo, verso chiunque. (Vedi: “Spirito di patata”)

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Codeina

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Ciao ragazzi. Complimenti per la vostra ultima fatica Allghoi Khorhoi. Partiamo da una domanda banale ma necessaria. Che c’entra il nome di una creatura leggendaria, un enorme verme che vive nel deserto del Gobi con i Codeina e la vostra musica?

Ci piaceva l’idea di un verme, per consuetudine creatura infima, non considerata, disprezzata, che in questa occasione assume una posizione di forza. L’Allghoi Khorhoi è un mostro mitologico che si nasconde in lunghi cunicoli scavati sotto il deserto e attacca l’uomo con scariche elettriche o secernendo acido. Quest’essere è talmente radicato nel folklore di quelle zone che ancora oggi la sua figura è vissuta con grande rispetto mantenendo allo stesso tempo il potere di incutere timore. L’abbiamo interpretato come un simbolo di rivalsa, di ribellione dal basso. Una rivoluzione nascosta e silenziosa, che striscia nelle profondità del terreno ed è pronta a esplodere all’improvviso.

Passiamo a voi. Come nasce una band come la vostra e un album come Allghoi Khorhoi?

I Codeina nascono nel 1998 in uno scantinato di periferia. Da qui passano gli anni accompagnati da tanti cambi di formazione alla ricerca degli elementi più “psico-sociopatici”. I Codeina che vedete oggi suonano insieme da tre anni e, fortunatamente, non si registrano danni a persone o cose. Allghoi Khorhoi non è nient’altro che la naturale evoluzione di Quore. Hidalgo Picaresco, il nostro primo album. Un’“evoluzione” del processo creativo, con un approccio più libero e maturo alla proposta e all’elaborazione del pezzo. Allghoi Khorhoi è la prosecuzione di un’esigenza comune di tradurre in musica disagi e insoddisfazioni quotidiane, da una sfera personale e intima a un’altra più ampia e strutturata, sociale e culturale, che riguarda l’intero nostro paese.

La codeina è un derivato della morfina ma Codeine è anche il nome di un mitico gruppo Slowcore statunitense. A quale di questi due paragoni siete più legati? Conoscevate la band di Stephen Immerwahr al momento di scegliere il nome e c’è qualcosa che vi lega, musicalmente parlando?

Dovendo scegliere a cosa siamo più legati, sicuramente sarebbe il derivato della morfina. Ai tempi non conoscevamo i Codeine e non esiste un legame musicale nonostante sia un gruppo che oggi apprezziamo.

Ascoltando i brani di Allghoi Khorhoi sembrano ritrovarsi diverse chiavi di lettura. C’è qualcosa in particolare che unisce le dodici tracce, sotto l’aspetto delle tematiche trattate più che, ovviamente, sotto quello puramente musicale?

Senza alcun dubbio il nervosismo quotidiano. Ogni singola traccia nasce come un esercizio atto a reprimere, veicolare ed espellere il nervosismo che viviamo quotidianamente in qualcosa che sia legale, lecito e magari anche terapeutico.

La vostra musica rimanda soprattutto al più canonico Alternative Rock in lingua italiana. Gli scomodi paragoni si rifanno a Verdena, Afterhours e Teatro degli Orrori. Quanto c’è di vero in queste similitudini? Quanto sono cercate e quanto sono naturale evoluzione dovuta alla vostra formazione personale?

Afterhours direi forse per i primi dischi, per gli altri due paragoni le fonti “estere” da cui hanno e abbiamo attinto sono prettamente le stesse. Noi non facciamo che suonare ciò che maggiormente ci piace ascoltare.

La scena alternativa (passatemi il termine) italiana si sta spaccando pericolosamente in due tronconi. Da una parte il cosiddetto Indie Pop Cantautorale stile Dente, Luci e Brunori, Lo Stato Sociale e dall’altra chi prova a suonare più Rock, violento, nudo e crudo. Per ora il pubblico sembra apprezzare più i primi ma è veramente una questione di scelte o piuttosto un sapersi “vendere” con più efficacia?

Pensiamo si tratti di scelta della massa: semplicemente il cosiddetto pop cantautorale è parte della storia musicale italiana che tutti conoscono (Battisti, De André, Dalla, De Gregori, Guccini ecc ecc.) mentre non ci vengono in mente gruppi per così dire “violenti nudi e crudi ” che abbiano un seguito di simili proporzioni… Basta chiedersi quale sia ancora oggi il festival musicale più importante in Italia…e la risposta si delinea ancora di più. Poco cambia in ambito “alternativo” perché siamo da terzo mondo in materia di cultura musicale e non solo…

Tornando a questa questione, sembra sempre più raro vedere andare a braccetto la qualità e, conseguentemente, il riconoscimento della critica, con i numeri dati dalle vendite di Cd e merchandising, oltre che di ingressi ai live e chiamate per i concerti. Qual è allora il problema, se esiste un problema?

Pubblicità, interessi, soldi. Una proposta musicale sui mass media è incentrata esclusivamente su questi valori. Incapacità o svogliatezza di giudizio critico dal lato del ricevente.

Dall’ascolto di Allghoi Khorhoi, emerge un lavoro intenso, carico di rabbia eppure non troppo originale nello stile. Quanto conta oggi suonare diversi dagli altri e quanto è utile e importante, in termini di riconoscimento di pubblico e critica, essere diversi in superficie e quindi formalmente o piuttosto nella sostanza?

Credo sia un po’ arduo in questo preciso momento storico avere l’obiettivo, la capacità e la superbia per poter anche solo pensare di fare musica “diversa e originale”. Ci concentriamo più su un lavoro di sostanza.

Recentemente, in occasione del M.E.I., mi è capitato di leggere diverse discussioni circa il ruolo attuale delle etichette. Da una parte chi sosteneva che siano le band a dover fare gran parte del lavoro di “formazione” di una base di fan per rendersi appetibili alle label e dall’altra chi ritiene più opportuno che siano le stesse etichette a fare il lavoro che far crescere le band, in ogni senso. Voi da che parte state? Che rapporto avete con la vostra etichetta?

Noi non abbiamo alcuna etichetta. C’è un po’ di verità in entrambe le affermazioni ma credo che la situazione generale a livello di etichette e fondi sia abbastanza grigia e al limite della sopravvivenza. Per cui fanculo e DIY!

Torniamo al disco, Allghoi Khorhoi. Provate ad essere sinceri. Quali brani sono quelli che più sentite vostri, rappresentativi del vostro stile e del vostro carattere? C’è almeno un pezzo che proprio non vi piace?

Sono tutti lati dello stesso carattere, nessuno escluso. Va bene autodefinirsi “psico-sociopatici” ma non siamo ancora del tutto pazzi da inserire nel disco materiale che non ci piace. Oltretutto non abbiamo imposizioni, pressioni o obblighi contrattuali cui sottostare.

Che rapporto avete con la critica musicale? Su Rockambula avete avuto una sufficienza e parole buone ma tiepide. Ha ancora un valore che vada oltre la mera propaganda, il lavoro del critico/opinionista musicale?

Per il primo album abbiamo contattato direttamente webzine e riviste, ottenendo stranamente un buon riscontro sia in termini di numeri sia oserei dire di critica… per Allghoi Khorhoi siamo solo all’inizio.Tante volte ci può essere mera propaganda dietro al critico. C’è chi si improvvisa critico o chi si trova a recensire qualcosa che detesta o di cui non ha un background conoscitivo. In ogni caso dietro una recensione, positiva o negativa che sia, si capisce subito se chi sta analizzando un disco ha gli strumenti giusti per poterlo fare o meno.

Perché un ipotetico lettore di Rockambula, che si trova davanti a centinaia di consigli e suggerimenti ogni mese, dovrebbe dedicare a voi un’ora della sua vita?

Perché il disco dura 44 minuti e noi gli regaliamo i restanti 16 minuti per fare ciò che più gli piace.

Quando e dove potremo vedervi suonare dal vivo? E che tipo di spettacolo dobbiamo aspettarci?

“Il più grande spettacolo dopo il big bang”. A breve ritorneremo a calcare le scene partendo dalla Brianza e Milano.

Ciao e speriamo di vederci presto.

Grazie, a presto!

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Sugar for your Lips

Written by Interviste

Giovanissimi e carichi nella maniera giusta i quattro ragazzi di Cosenza hanno tutte le carte in regola per farci emozionare con il loro Alternative Rock (sporco alla maniera del Punk) influenzato dai mostri sacri Foo Fighters, Radiohead e tanti altri. Li ha intervistati per Rockambula Webzine il nostro capo redattore, Silvio “Don” Pizzica e quello che ne viene fuori è una chiacchierata onesta, interessante e che speriamo, tra qualche anno, si possa leggere come il preludio di una grande band. Tutto sta alla loro capacità di imparare dai propri stessi errori.

Ciao ragazzi. Sugar for your Lips; una formazione giovanissima e ancora tutta da scoprire. Iniziamo con le presentazioni. Chi sono gli Sugar for your Lips?

Ciao Silvio! Bene, come hai detto, siamo una formazione molto giovane che cerca di farsi strada in questo settore, anche se col passare del tempo stiamo anche noi collezionando le nostre piccole conquiste. Gli Sugar for your Lips sono Riccardo Monaco alla voce e alla chitarra ritmica, Antonio Belmonte alla chitarra solista e alle voci secondarie, Carlo Bilotta al basso e Niki Bellizzi alla batteria e alle percussioni.

Il vostro nome sembra già fornire diversi indizi. Una scelta da band Alt Rock anglofona e l’evocazione di atmosfere che, immaginiamo, artificialmente dolci ma forti. Tra qualche secondo pigerò il tasto play per verificare; nel frattempo, ditemi quanto ci sono andato vicino?

Hai azzeccato in pieno! La scelta del nostro nome è stata presa, appunto, per dare un tocco di dolce ad una band avente un sound relativamente aggressivo; beh, non resta che ascoltare!

Play appunto. Prima “Glass of Scotch” e poi “Resignation”. Nel primo brano è evidente l’aspetto Alt Rock, Nu metal quasi. Nel secondo si allentano le tensioni e viene fuori un inatteso Pop Rock, velato di romanticismo decadente. Due anime dello stesso corpo. Qual è quella che più vi rappresenta?

Beh, diciamo che il nostro sound si identifica più in Glass of Scotch (non per niente è stato il primo singolo estratto dal nostro EP). È appunto ciò che vogliamo trasmettere al pubblico, energia mista ad una vena di malinconia, con un finale esplosivo, quasi come se volessimo lasciare l’amaro in bocca ai nostri ascoltatori.

I due già citati sono i singoli del vostro Ep Be Sweet. Come è nato questo lavoro?

Il lavoro nasce innanzitutto dalla volontà comune, dopo tanto tempo passato in sala prove e tra piccoli e grandi palchi, di ufficializzare il nostro progetto. Grande merito per la (speriamo!) buona riuscita del lavoro dobbiamo darlo a Joe Santelli, voce e chitarra dei VioladiMarte, che ci ha seguiti e indirizzati verso la “diritta via” presso le Officine33giri.

Svestendo i panni dell’intervistatore curioso e indossando quelli del critico cinico, non posso negare di aver trovato diversi “problemi” nei vostri pezzi, dagli arrangiamenti non proprio perfetti, fino alla costruzione delle linee melodiche, spesso banali ma prive d’appeal. Senza scendere nei particolari, voi quanto siete soddisfatti di quanto fatto fino a questo punto? Ed in generale quanto siete critici nei vostri confronti?

Siamo abbastanza soddisfatti del lavoro svolto, anche grazie alle tante persone che hanno apprezzato la nostra musica. Ovviamente, per quante persone ti apprezzano, ce ne sono tante altre che ti criticano. Noi SFYL incitiamo sempre il nostro pubblico ad esprimere si, apprezzamenti, ma soprattutto critiche, in quanto sono le critiche a farti crescere musicalmente e personalmente (ovviamente se le critiche fatte sono sensate e non campate in aria).

Avete scelto di utilizzare la lingua inglese, guadagnando certo in musicalità ma, inevitabilmente, ponendovi dei paletti circa il pubblico raggiungibile dai vostri testi. Per non parlare delle difficoltà di pronuncia (avete mai pensato a come possa suonare il vostro cantato in inglese se ascoltato da un madrelingua?). La vostra è una decisione ponderata e valutata con cura o frutto di una naturale e personale inclinazione verso quella lingua?

La scelta dell’inglese è stata una scelta ovviamente pensata, anche se è avvenuta con molta naturalezza, in quanto le influenze musicali di tutti noi sono per lo più derivanti da artisti che cantano in lingua inglese. Sappiamo che è una sorta di catena, in quanto in Italia ovviamente la gran parte del pubblico ascolta musica in italiano, ma sappiamo anche che puntiamo al massimo, e puntando al massimo vogliamo che la nostra musica sia compresa dalla maggior parte della popolazione e per questo abbiamo adottato una lingua internazionale.

Quanta importanza date, per restare in tema, alla parte testuale, alle tematiche affrontate, ai contenuti e ai soggetti? Le vostre liriche sono per lo più autobiografiche, rivolte alla musicalità delle locuzioni o prevalentemente narrative?

Per lo più i nostri testi narrano storie di vita, autobiografiche o rivolte alla gente normale che combatte quotidianamente contro i problemi della vita, i quali possono essere l’amore come l’incomprensione. Certamente non mancano i testi socialmente impegnati come in “Too Much Bad News”, altro brano presente nel nostro lavoro (precisiamo che per questo brano abbiamo adottato una “licenzina poetichina” in quanto il titolo della canzone è grammaticalmente scorretto ma più musicale). 

Che differenza c’è nell’ascoltarvi dal vivo? Lavorate molto sul tipo di spettacolo da proporre o, per ora, vi limitate a suonare?

Noi tutti pensiamo che la vera musica, quella che trasmette veramente sentimenti, sia quella suonata dal vivo. Pensiamo che sentire un nostro live sia completamente diverso dall’ascoltare i nostri lavori in studio, in quanto dal vivo tiriamo fuori tutto ciò che le nostre canzoni vogliono esprimere. Dopo tre anni passati sui palchi abbiamo imparato che un live deve essere quasi uno spettacolo e cerchiamo di preparare l’esecuzione dal vivo al meglio in tutti i particolari.

Oggi più che mai sono sempre più le band interessate a farsi largo nel mondo indipendente. Gli strumenti sono importanti e quindi Social Network, live, passaparola, merchandising e quant’altro. Suonare non basta insomma. Come vi state muovendo in tal senso e cosa fate di diverso dagli altri?

Beh, a livello di social, come tutte le band abbiamo una pagina facebook, un canale youtube e siamo iscritti su svariati siti internet di promozione e pubblicità. Di diverso possiamo dire di essere inseriti in un circuito che ha come obbiettivi quelli di promuovere, organizzare serate e produrre le band e gli artisti presenti nel circuito, la Fallen Interlude Movement. Pensiamo che la collaborazione e il supporto tra le band sia alla base di una buona riuscita di un progetto. Uniti si può fare.

Sotto l’aspetto stilistico, come descrivereste la vostra musica? Quali sono i vostri punti di riferimento e cosa avete di diverso da chi vi ha influenzato e da chi vi circonda?

Quando ci pongono la domanda “che genere suonate?” siamo soliti rispondere “non abbiamo un genere, suoniamo la nostra musica”. Ovviamente ognuno di noi ha influenze musicali diverse, che possono variare da band come i Red Hot Chili Peppers a band come i Foo Fighters, i Radiohead fino ad arrivare ai System of a Down. Di diverso abbiamo tutto, ascoltare per credere.

Che approccio avete con la musica? Siete dalla parte del pubblico (che agisce spesso senza fermarsi troppo ad ascoltare, spesso osannando mediocrità assolute) o della critica (che a volte guarda troppo alla qualità allontanandosi dai gusti della gente)?

Ogni volta che suoniamo cerchiamo sempre di guardare il lato critico dell’esibizione, cercando di capire quali sono i punti da affinare per andare sempre migliorandoci. Il nostro obiettivo è quello di far apprezzare la nostra musica non solo ai patiti del genere, ma a tutto il pubblico, nessuno escluso. Vogliamo creare noi i gusti alla gente.

Ultima domanda. Diventare famosi in Italia è quasi impossibile e chi ci riesce, non è quasi mai il migliore e chi lo merita davvero. Vivere di musica, della propria musica è altrettanto improbabile; e allora perché lo fate?

Innanzitutto lo facciamo per passione e per amore verso la musica. I nostri obiettivi sono chiari, puntiamo ad arrivare il più su possibile, senza pensare ai rischi e alle complicazioni che questa strada ha. Crederci è il primo passo per raggiungere un obiettivo, e noi ci crediamo. Il resto del compito lo farà la nostra musica. Grazie per l’intervista, speriamo che le risposte siano state esaustive! Be Sweet; S.F.Y.L.

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Camilla Sparksss – For You the Wild

Written by Recensioni

Sempre maggiore interesse e attenzione sta richiamando su di sé il mondo del Synth Pop in senso molto lato, fatto di basi robuste e voci femminili deliziose e cariche di personalità. Ormai sono una certezza del panorama indipendente i due svedesi Knife della favolosa Fever Ray mentre di recente abbiamo avuto la prontezza e la buona stella di scovare un altro duo del genere, i francesi Erotic Market, al loro debutto con Blahblahrians. Proposta eccezionale la loro che diventa l’ideale metro di paragone anche per questo For You the Wild di Barbara Lehnoff (vero nome dell’artista) che vede la luce dopo una serie di vinili in sette pollici. La giovane musicista svizzera di origini canadesi decide di non mettersi troppa fretta per tirare fuori il suo esordio full length che giunge all’età di trentuno anni e che diventa la trasposizione musicale di quella che era la sua esistenza proprio agli albori, una vita iniziata nelle terre più fredde del nord America e che ora fa scivolare quelle suggestioni regalate da paesaggi spettacolari fatti di boschi, laghi e semplicità, anche nelle note di For You the Wild.

Tutto questo almeno nelle intenzioni perché la realtà è più articolata e le dieci tracce che compongono il disco suonano piuttosto come una sconnessa miscela di loop ed Elettronica contorta e sporca che genera talvolta sensazioni claustrofobiche urbane, piuttosto che evocare appunto la tanto celebrata wild life. Ad affiancare la voce di Camilla Sparksss, Aris Bassetti, produttore già al suo fianco nella band Peter Kernel.

Un disco che non manca di passaggi eleganti, energici e disturbanti com’è giusto che sia quando si parla di Electropop fuori dagli schemi ma che, al contempo, non convince in primis proprio perché non riesce a centrare il suo obiettivo dichiarato e secondo perché la voce della Sparksss cosi come le basi di Bassetti non regalano nulla che possa definirsi veramente oltre una prudente aspettativa. Sfondi sonici spesso banali, ripetitivi e senza troppa vitalità e una timbrica che finisce anche per annoiare, quando l’ascolto si fa ripetuto e vigile. Sul palco pare che alla svizzera si affianchi una ballerina e crediamo che lo spettacolo possa essere qualcosa da non lasciarsi sfuggire ma questo For You the Wild potete perdervelo senza rimpianti.

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Il Video della Settimana: Ohh Ohh Ohh – Son of the Jungle

Written by Senza categoria

Ohh Ohh Ohh è un progetto artistico, nato nel 2014, che vuole unire i suoni del mondo, il rumore analogico generato da un basso e una chitarra, i pattern ritmici del mondo digitale. Probabilmente Ohh Ohh Ohh è una band, ma non si limita a produrre musica. Quello che viene proposto è anche un viaggio sensoriale e visivo dentro un mondo sonico, generato da due individui muniti di un basso, una chitarra e uno smartphone. Immagina un totem di amplificatori che sparano al massimo del volume una serie infinita di rumori, sostenuti da una ritmica martellante, il tutto annegato nelle immagini create ad hoc da un visual artist. Ohh Ohh Ohh è un’esperienza che combina il pulsare del dancefloor con l’attitudine da concerto rock. “Son of the Jungle” è il nostro nuovo Video della Settimana!

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