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“Diamonds Vintage” Siouxsie and the banshees – Juju

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Le continue invenzioni in termini di look e di comportamento fanno degli anni 80 un turbinio d’elementi essenziali della mitologia punk; Siouxie and the Banshee ne sono l’esponenzialità acuta e oscura, un tetro e bel connubio tra E.A.Poe e oltraggioso potere, in cui la scena inglese alternativa si rotola avidamente.Dopo i necro-fasti del precedente Kaeidoscope (1980), e in seguito ad un forzato stop causa defezioni clamorose nella band originale, Susan Janet Dallion in arte Siouxie, John McGeoch alla chitarra, Steven Severin al basso e lo stravagantissimo Peter “Budgie” Clark – ex Big In Japan e Slits –  alla batteria, danno fuoco alle micce, sotto consiglio amichevole di Robert Smith dei Cure, al quarto album della loro lugubre e fortunata carriera, Juju, uno dei vertici assoluti dell’arte visionaria di Siouxie.

E’ il disco che – per la primissima volta – presenta alcuni squarci nelle atmosfere oppressive e plumbee degli esordi, mettendo definitivamente in luce una Siouxie padrona della sua calda voce ed evocativa; e allineandosi alla nuova corrente del punk più sottomesso alle nebulose darkeggianti – che già sta portando nuovi illustrazioni sonore come giovanissimi Cure, Sister of mercy e Bauhaus – la band inglese si distende in sonorità malinconiche e tristi, depressioni stupende dettate dagli Joy Division, dei quali SETB ne aspireranno linfa vitale per tutta la loro carriera.Dunque linee di basso compressate, chitarre drogate d’acido e anfetamina, i menzionati Joy Division che barcollano visionari in Sin in my heart, e percussioni ossessive che cingono strette Halloween, Monitor ed Head cut; l’ombra della poetessa noir Patti Smith volteggia nell’aria, dove anche un sensoriale groove orientale padroneggia nelle retrovie sonore dell’intera track list, ma principalmente nella traccia Arabian knights, anticipazione “mediorientale” di un fermento che guarderà oltre confine dalla metà degli anni 80 fino alla fine.

Magnifico disco che tocca le sperimentazioni innovative e prende ancora risorse dai terreni malsani del punk, un banco di prova che consolida il marchio Siouxie and the Banshee tra i favori di un pubblico vastissimo e amante del nero come colore primario delle destrutturate asocialità della vita.

 

Tracks

Spellbound
Into the light
Arabian Knights
Halloween
Monitor
Night shift
Sin in my heart
Head cut
Voodoo Dolly

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Fabrizio Cammarata & The Second Grace – Rooms

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Per una volta tanto gli Americani potrebbero invidiarci e mordere il gomito quando si ha dentro le orecchie un disco come questo “Rooms” di Fabrizio Cammarata & The Second Grace, l’artista palermitano che, col suo progetto TSG dentro questo nuovo lavoro discografico ricamato di pregevole nu-folk meticciato, apre definitivamente le ali e intraprende – come un novello Lindbergh – le direttrici sonore dell’Alt America, lasciando qua e la  qualche pulviscolo mediterraneo tanto per ricordarsi la base di partenza, la radice profonda che lo ha visto diventare artista.    

Prodotto da JD Foster, registrato tra Sicilia, New York e Portland e che vede la collaborazione di Jairo Zavale e Joey Burns – voce e chitarra dei Calexico – il disco è una meraviglia d’intenti e sensazioni, che vive al di la dell’oceano, lungo gli sterrati amarodolci della provincia americana tra West e allucinazioni , carribotte e saguari ingialliti, tracce che ti rigano il plesso solare e t’innalzano la frenesia di possedere questi “frammenti aperti” che Cammarata evoca, doma e regala; via le mezze misure, si può parlare liberamente d’incanto, si incanto spalmato su undici tracce dalle molteplici direttrici ed equilibri poetici, “stanze” che si aprono e chiudono come mantici d’anima  e storie polverose.

Un disco che è omaggio alla magia della scrittura e del talento immaginario, Cammarata strega a tutti gli effetti con una chitarra e mille ispirazioni di gruppo, forte della sua non locazione artistica e guerriero tra gli interstizi dell’umanità di seconda; e aspettando che l‘intero lotto prenda la strada alta di un futuro prossimo, andiamo incontro a queste eccellenze di linguaggi che si portano avanti con il dondolante macramè esotico di “Alone & alive”, arrivano dal cuore strappato dal petto dalla ballata “Aberdeen Lane”, si nascondono tra  archi e Donovan che languiscono tra le schiume calme di “Down down”, rinvengono nella beatlesiana risonanza di “Pole kitoto” o nell’ubriacatura tubolare che stringe il cielo e lo trasferisce in climax mex-carribean “Highlake Bay”, il tutto senza mai approfittare di vuoti e silenzi.

Si, gli Americani  potrebbero una volta tanto invidiarci maestosamente, e la benedizione di Drake aggiunge quel segno in più che serve per estrapolare la sofferenza poetica dal fascino.  Prezioso come pochi.     

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Nordgarden – You gotta get already

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Tarje Nordgarden è l’artista Norvegese che a trovato l’America in Italia; non è un’illazione progettata ma pura e veritiera constatazione giacché il cantautore ha sempre mirato le sue coordinate vitali nel nostro paese ed oramai fa parte quasi dell’architettura artistica adottiva che l’underground nostrano da tempo va effigiandosi orgogliosamente; “You gotta get already” è la nuova macchina sensoriale che l’artista mette in campo, un  immaginario di folk umorale, soul looner e romanticismo decadente che si pasce deliziosamente di un’Americana slowy che è – in definitiva –  una scelta artistica ben definita, quel candidamente “sorpassato” che fa tanto, ma tanto freschissimo e di primo taglio.

L’artista gode ormai di un nutrito seguito, moltissimi godono del suo suono e della sua timbrica “di frontiera”, del suo accattivante “comunicare” in espansione, un mestiere – il suo – costruito dopo innumerevoli viaggi, sogni e concretezze, e le sue composizioni,   anche se potrebbero suonare uguali, nell’insieme funzionano a meraviglia, e quindi, il problema che certi detrattori cercano di lanciare non si pone minimamente; dieci tracce che posseggono quella bella liquidità stilistica che certamente non si confà per orecchie blindate, leggeri tocchi easy di chitarra sausalita “Leaving”  contornano quella dolce propensione all’essenzialità, fuori dei marchingegni complessi  e dentro quella forbita capacità di andare a “zonzo” per stili e modulazioni, vicino al blues, al fianco del country carrettero “Schiphol blues” ed un passo avanti del soul “Fool to let you go” e del rhythm & blues “You gotta get ready”.

Un disco che ha la faccia a metà tra il nero ed il bianco, senza dualismo, in perfetta armonia e sincrono con lo spirito acustico di chi viaggia col corpo e con la mente, con derive nel musical step “These lovesick blues” e magnifici atterraggi sopra le ali della solitudine SpringsteenianaSome work on you” e delle lacrime Southern Hiattiane che in “Why would she go” lasciano il segno della vertigine; Nordgarden  anche in questo giro da una grande lezione d’arte cantautorale, arte che fa nascere e mantiene in vita tra le trappole dell’esperienza come un coyote solitario, slide e arpeggi, dondolii e armoniche, piani cristallini e il tremore ricostituito di Buckey Jr fanno compagnia a questa poesia composita racchiusa dentro un cerchio plastificato, dentro un cd innalzato a capolavoro dal sangue vintage.

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Arturocontromano – Quello che ci resta

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Della serie “come con pochi elementi/ingredienti si può tirare fuori un pranzetto niente male”, dalla Torino dei Murazzi e del coloratissimo Balon arrivano gli Arturocontromano, combo musicale con dodici anni di mestiere musicale sulle spalle, e con loro il terzo disco, sgargiante e meticciato “Quello che ci resta”, dodici traiettorie che spaziano tra rock, pop e un frullato di stilemi che, anche se non inventano nulla, sicuramente non annoiano l’orecchio e tanto meno assillano l’anima, si fanno ascoltare come un bel raggio di sole che fa cucù all’improvviso in una giornata traballante, incerta, uggiosa.

Il sestetto Piemontese cuce un disco che suona come un classico, ma ha un portamento strano, profondo ed impegnato nelle liriche, attraversato non da quei non pensieri “vuoti a rendere” innocui che purtroppo intasano la musica dell’ultima ora, ma da un’autorevolezza intelligente e attenta su quello che vive intorno al giorno, dentro l’anima e fuori, dietro l’angolo, un’inquietudine sana che porta emozione e pathos tra elettricità e cortocircuiti personali. 

Con lo spiritello di un Rino Gaetano che sorride e s’incazza qua e la lungo le ramificazioni della tracklist, il disco scorre limpido e squillante, abbondantemente musicale e vero, una forza interpretativa che abita in un mondo reale, con quella buona salute che hanno solamente quei dischi che “dicono qualcosa” senza perdersi nel nulla; è musica ideale per riflessioni e rotte soniche da attenzionare, come le incandescenze rock sulle pagine di una vita tutta uguale “E’ ancora mattino”, la circospezione di un viaggio irraggiungibile “Mare ovunque”, la funkadelica che sbatte forte nel “Il paese del terrore”, lo swing latin che circuisce movimenti e lontananze “Insegnava a volare”, l’atmosfera urbana che annebbia le tinte pastello della ballata “Tramonto” o, per tornare all’inizio di questa bella storia, i resoconti notturni di chi il sonno lo ha venduto non per soldi ma per bugie “Bugie notturne”.

Si un “pranzetto niente male” quello apparecchiato dagli Arturocontromano, la loro musica che vive di chiaroscuri intriganti  che va molto oltre la giostrina delle somiglianze, e poi perché la semplicità già si premia da se, ma principalmente funziona perché –  a capo di tutto – ci sono due cose molto, ma molto importanti: stoffa e testa!

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Muleta – La Nausea

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Con lo zampino di Giorgio Canali alla produzione, il più del lavoro sembrerebbe fatto, ma non è tutto cosi semplice come si vorrebbe, o almeno a sentire questa godibile terra di mezzo tra  punk-rock di penna e pop smaliziato chiamata “Nausea” dei veneti Muleta, la maggior parte della tempra viene sicuramente dalla forza caratteriale di questa formazione che fa capire bene dove vuole arrivare e attraversare col suo linguaggio elettrico e commisto, un bilanciamento trasversale che dal primo ascolto da un risultato ragguardevole, di loud sugli alti livelli.

Otto tracce a disposizione per chi adora lo scavare dentro, lontano da quelle soluzioni prevedibili con pretese alternative e con quella pochissima indulgenza a farsi disco pacioccone, teen, otto tracce che potranno fare dei Muleta gli alfieri splendidi della  prossima spasmodica generazione rock; una nausea questa che attira, lacera e riaggiusta l’anima, una passione bruciante, una diabolica gemma sempre in equilibrio sui fili di una tensione che può esplodere da un secondo all’altro, con quell’alito cantautorale che ricorda – per affinità vocale e atmosferica – le ballate dolci/scorbutiche del primo Bennato La nausea”, “Dino”, “Con i vermi”.

Il debutto di questa band è una bella sorpresa, una piccola indipendenza che ha coraggio da vendere e da insegnare, una ventata d’aria fresca ed elettrica che rigenera l’orecchio, una poetica maledetta che ha anche i suoi momenti che fanno incazzare le pedaliere “Ehi” e torturano il sistema nervoso di un lontano Umberto Palazzo ed il suo Santo Niente Invece no”; i Muleta,  con una line-up in cui gravitano Enrico Teno Cappozzo voce, chitarra, Davide Scapin chitarra, Giulio Pastorello batteria, e Marco Zennari fonico live, danno fiducia e c’è da stare tranquilli per un po’, perché  il rock underground pare si stia rifacendo il tono ed i carboidrati energetici tosti, loro reggono il passo a tante fibrillazioni minori, a tanti entusiasmi interrotti, e quest’Ep di “presentazione” ha il pedigree giusto dell’irresistibile.

Un miracolo sincero che porta ad ebollizione le nuove aspettative del sangue rock.       

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“Diamonds Vintage” LED ZEPPELIN – Physical Graffiti

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Doppio Lp che nel 1975 quantificò la potenza e la dinamica emozionale dei Led Zeppelin, il martello degli Dei, che dopo due anni dal precedente e un po’ deludente Houses of the holy, tornarono alla carica con Psysical Graffiti, monumentale tomo che inesorabilmente cade sotto la spietata critica dissacrante per via dei numerosi filler definiti “furbastri” messi a sostegno di una tracklist debole e arruffata. Ma se la critica è una piaga, i Leds sono il toccasana per lenirla. E’ un album che ripesca dagli scarti dei dischi precedenti mischiati a nuove composizioni, immersi nella magia atmosferica di vecchio blues, rock granitico e allucinazioni orientali; tra le quindici takes – ad ogni modo – si percepisce quell’aura esoterica – per i più malefica – che viene sobillata attraverso i testi narrativi  e ossessi di Plant e resi ancor più maudit dalla suprema Danelectro che Page impugna come materia sacrificale. Ambizioso e devastante, il vinile urla, mugola, si contorce tra riff e mellotron, assoli che strizzano la pelle e offbeat di batteria che lasciano lividi all’ascolto; il pedale di basso di Jones è un mantice infernale di singulti che fanno davvero male. In poche parole il rock nella perfezione di una punta di diamante.

L’irrealtà tenebrosa e mefistofelica gira nel rock blues di The rover, nelle visioni offuscate orientaleggianti di Kashmir e nei richiami ancestrali de In the light, ma se si vuole rimanere nel “tranquillo” – per modo di dire – ci si può perdere nelle trame sincopate di Custard pie, nel funky hard-disco Trampled underfoot o nel magnetismo sofferto di Ten years gone. I quattro Zoso sono in forma smagliante, ieratici esemplari vivi di una maestosità impareggiabile, specialmodo Page e quel suo modo di strappare suoni dalla chitarra come pezzi d’anima passati sotto lascivie di slide e d’archetti di violino strusciati sopra; Jones esuberante e perfetto nei suoi clavinet cross e Plant insuperabile nei suoi misticismi vocali e nelle sue allettanti frequentazioni lampo nel country Boogie with stu e Black country woman. E Bonzo? Anche gli angeli hanno una colonna vertebrale, e lui, picchiatore di bacchetta e crash crea l’hard breath idoneo per impalcare di sovrastrutture e ponteggi l’immensa mole di suono del dirigibile. Chiude il rock tirato di Sick again, “ancora malato”, ed è come un presagio nefasto che in questo sesto album del Leds si profila in tutta la sua drammaticità; l’abuso di alcool e droghe, l’improvvisa morte di Bonham e una serie di vicissitudini personali minano la creatività della band che farà rimpiangere a vita milioni di fans, mentre la pomposità del dirigibile pian piano va a sgonfiarsi inesorabilmente.

 

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Dillon – This silence kills

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Acuta, per aver capito le doti insondabili della rete dove lei stessa si è fatta conoscere con dei suoi video cliccatissimi, fortunata per aver incontrato il talent scout Dj Koze che sentendola, ha voluto puntare carte importanti sulla sua arte e sulla sua musica. Dominique Dillon de Byington, in arte Dillon esordisce per la Bpitch Control – dopo svariate esperienze – con questo disco “liquido”, “This silence kills”, una favola minimale, un sabba etereo dove elettronica, pop dilatato, Bjork, Robyn, Dresden Dolls, un freddo esistenziale e una melanconia che si taglia col coltello, giocano in tutte le posizioni possibili per tenere alto e vivo l’interesse necessario lungo la sua durata d’ascolto, riuscendoci in pieno.

L’artista berlinese chiarisce, con un timbro vocale bellissimo e fuori degli schemi, che è possibile guardare ben oltre i capostipiti del genere, paragonarsi senza timori reverenziali con chi “col gelo” ha fatto fortuna e fama mondiale, e con queste premesse si capisce che sì a che fare con un carattere forte nascosto dietro un’esistenzialità appannata come un vetro d’inverno; un bel disco che rimane a galla come una medusa senza peso, tra i suoni ovattati digitali ed il pop intimo, sotto l’elettronica poco colorata e sopra le bolle d’aria  di canzoni lontane, minimalistiche, un suono totale di un mondo che non abita il nostro, ma possiede tutta la liricità e il cuore palpitante della “solitudine bambina” che la Dillon si porta dietro da sempre.

Prodotto da Tamer Fahri Ozogonenc del Collettivo post Kraut MIT e da Thies Mynther (Phantom/Ghost), il disco è una dedica esplicita alla lattiginosità della malinconia, a quegli splendori offuscati che si ribaltano e delineano oltre certi paralleli onirici, nordici e a tu per tu con la ricerca di un qualcosa che scaldi, a volte ci riesce come nella teatrale operetta che si muove in “Tip tapping”, nelle pieghe di un pianoforte “Thirteen thirtyfive” o nella dinoccolata sensazione che vive in “Hey beau”, ma successivamente il climax ritorna sotto zero e pare nascondersi a fondo nelle sembianze del bel “Debut” di Bjork, specie se si scende ad esplorare le coralità breeze di “You are my winter”, gli intrecci vocali  appesi a tastiere celestiali “Gumache”, per finire in baldoria campionata sulle orme schizoidi delle CocorosieAbrupt clarity”.

La 23enne Dillon, comunque stupisce a tutti gli effetti, lassù dal suo mondo personalissimo e “below zero” trasforma ghiaccioli in stelline di tutto rispetto, e fornisce anche una chiave di lettura aperta delle sue musiche, quella che da ragione a molti detti popolari, praticamente che le cose migliori, quelle da conservare gelosamente, arrivano unicamente dal freddo.
 

Max Sannella

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