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“Diamods Vintage” Franco Battiato – La voce del padrone

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I cotonati anni ottanta prendevano il sopravvento e per la canzone d’autore impegnata – per non parlare di quella politica –  lo spazio si andava restringendo paurosamente; fuori dai confini il progressive dava ancora timidi segnali di vita, ma lo “smottamento sistematico” del sistema “ serio e della concretezza” procedeva a falcate inarrestabili facendo posto a quelli che furono denominati gli anni del disimpegno e della cellophanata virtù decadente del mascara e della non qualità.
Basta con le lotte sociali nella musica, largo alla leggerezza del pop da cassa e del ritornello balneare; ma fuori dal coro arriva il cantautore catanese Franco Battiato, già conosciuto per le sue intricate e labirintiche espressioni metafisiche Foetus, Pollution, Sulle corde di Aries, Clic e M.elle le Gladiator, da un taglio netto alle pindaricità colte di nicchia delle sue produzioni e si avvicina al pop-wave con una dinamicità poetica inaspettata già intercettata nel precedente disco Patriots, un serio e faceto equilibro d’ironia e poesia che si stacca notevolmente dalla media delle “cose sonanti” che sbattono intorno.

La voce del padrone s’illumina subito della lucenza del capolavoro, sia per il milione di copie vendute, e per quei tempi è esorbitante – ma principalmente per la rottura e la fusione consequenziale di due mondi – fino allora vicini ma non tangenti – la new wave e il sarcasmo pop cantautorale che prevedeva nei suoi canoni l’assalto alle rotation radiofoniche e nelle conferme di massa;  con la cura certosina negli arrangiamenti di Giusto Pio, l’apporto di chicche elettriche di Alberto Radius della Formula 3 e una dosata alchimia di sintetizzatori, violini, dolcezza, irrequietezza a nuoto di un oceano di citazionismi nelle liriche, l’album spiazza critica e records in ogni direzione.
Tutto viene ricordato tra le trame sincopate di Cuccurucucù, snodata ballata in cui Veloso e i Beatles vengono a testimoniare tra il fraseggio, il volo aereo, arioso ed eccelso del gioiello in assoluto Gli uccelli, l’orientaleggiamento sinuoso e  wave opaco di Segnali di vita o il ritmo a vortice di Centro di gravità permanente; memorabile lo slogan cantato al megafono da Battiato in Bandiera bianca, vessillo di quella rivoluzione, di quel cambio rotta stilistico che la società di allora prendeva dalla politica corrotta e della demenzialità dei mass media e quelle due incursioni su atmosfere lontane dal chiacchiericcio e dalle banalità del vivere Summer on a solitary beach e Il sentimiento nuevo.

Un album che nonostante gli anni di mezzo rimane un caposaldo di quella nuova stagione, un calibro di genio e follia che portò il cantautore siciliano alla ribalta popolare e che ancora insegna che in momenti di “minima moralia” si può guardare e andare oltre.

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Sunset – Viaggio Libero

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Strano questo viaggio rock-west che i novaresi Sunset inanellano nel loro primo official “Viaggio libero”, se non ci sono dubbi circa il viaggio, quello che li mette i dubbi è il “libero”, perché la libertà agognata dalla band è un tragitto sonoro troppo gonfio di Ligabue “Doc”, “Tu”,  Litfiba “In alto le mani”, Axel Rose e C. “Bambole”, Graziano Romani “Regalo alla mamma”, il Priviero d’antan e gli echi d’ex indiani padani (Rats) –  dei quali l’ex leader Wilco Zanni è presente nella traccia n.2 “El frago” –  che a tratti sembra essere davanti ad una tribute-band troppo precisa e a vetrofania con gli heroes citati.
Tecnica e pathos da highways americane riempiono tutta la vitalità di queste quattordici tracce freewheeling, hooks radiofonici che passano e rimangono in circolo il tempo di mandar giù un bicchier d’acqua, non per chissà quale cosa, solamente per una collana di canzoni che si vestono d’ovvietà e tritumi ritriti stracotti e digeriti a josa, un genere che non da spazio ed amplietà a nessuna ricarica creativa, il soliti rifferama, la solita voce vissuta tra alcool e pupe sverginate, poster di ZZ Top, saloon e pillole d’odiernità urbana, sguardi e riflessioni messi a contrasto nella rudezza di un rock’n’roll che di strada ne ha fatta molta e dunque un salutare “riposo” è quello che gli compete.

Altri ospiti di questo disco sono Graham Bonnet  vocalist (già con Rainbow) che interviene in “Lunghezza d’onda” e Jennifer Batten alla chitarra in “Sospetto” (Timoria?), nomi illustri del rockerama internazionale ma che non riescono a tirare su la sorte del registrato che, seppur ben fatto, di mestiere e d’enorme passione, si va a collare tra le migliaia di prodotti di genere che occupano gli store d’ogni dove e d’ogni quando; disco che se preso per un ascolto di sottofondo tra una faccenda e l’altra può anche aiutare a far passare il tempo gradevolmente, se vi si cerca un nuovo mondo, ruvido, ma mondo nuovo trova solo una continua (ben fatta) tiritera amplificata.

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Management del dolore post-operatorio – Auff!!

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Da Lanciano il grido di dolore contenuto nel loro primo official album, “Auff!!”, e loro sono il Management del dolore post-operatorio, una band non masochista come si potrebbe credere per via della loro genesi nata su di una corsia d’ospedale dopo un incidente, ma un’accolita di poeti “attivi contro” che prendono di mira la crisi, i fantasmi che la sussurrano, i non diritti ai sentimenti e la non reattività o disillusione che si rivolge al futuro.

Dieci tracce accasate alla MarteLabel che suonano potenti, prepotenti e che vanno a sbomballare tutto il bagaglio filo-punk dei CCCP dei tempi dell’insurrezione alternativa anni Ottanta, un bell’ascolto off e stracolmo di riff elettrici, distorsioni chitarristiche e sociali che urlano, riverberano e declamano – tra cinematiche esposizioni  – ironia e verità particolari, un punkyes aggiornato ai nostri giorni, un moving che si colloca anche tra i migliori Claxon e i nipotini Franz Ferdinand dentro traiettorie che scalfiscono l’ascolto; il cantautorato elettrico, tanto disegnato da multipli ascolti,  che questa band stende è scritto bene e si asseconda a registri differenti, magari, quello che non riesce ad incresparsi di molto è la parte più “quieta”, quella vissuta da depressioni scandite “Amore borghese”, lo shuffle disco “Irreversibile”, “Nei palazzi” o il pathos liquido che galleggia in “Il numero otto”, mentre per la parte caffeinica, quella dedicata all’ossessività rock esplode come una mina anti-uomo al passaggio di “Pornobisogno”, sotto la mannaia elettro-funk “Auff!!”, nelle palle gonfie di “Irreversibile” come tra le vertigini amperiche che rotolano dentro “Macedonia” con gli omaggi dei Marlene Kuntz.
Veramente, un disco di dolore nato dal dolore, che trasmette dolore da combattere e attrae fan addolorati, un disco che ci avverte che il tempo corre, scorre e che quando finiscono le lacrime non è il momento di fare tappezzeria, ma e proprio da lì che bisogna segnare il recupero dei sentimenti, delle persone, del mondo che ci fa da corolla violentata in mezzo a tutti quei  detriti e frammenti di gioventù andate.
In poche parole un bel disco che si fa mazza!

 

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“Diamonds Vintage” Deep Purple – Made in Japan

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Credo fermamente che in ogni casa che “musicalmente” si rispetti,  ci sia una copia  – oltre all’album III° degli Zeppelin e il The dark side of the moon dei Floyd –  di questa pietra miliare dell’hard-rock universale, il Made in Japan originale dei Deep Purple, quello racchiuso dentro la copertina color oro e del quale ci si fregiava come di possedere una Bibbia miniata da Amanuensi doc.
Un giornalista del Kerrang Music Magazine un giorno disse…”..Ci sono momenti in quest’album che non ho mai sentito nella storia della musica rock..”, e aveva la ragione tutta dalla sua parte.

I Deep Purple già avevano tre fenomenali album in attivo, In Rock, Fireball e Machine Head, ed usarono alcuni dei pezzi contenuti per presentarli in tour in Giappone nel 1972, e ne venne fuori questo mastodontico doppio Lp che registrarono in tre serate e precisamente due a Tokio e una ad Osaka; il Made in Japan rivoluzionò e aprì la strada ad un nuovo modo di registrare la musica live, non più cellophane tapes ma strumentazioni d’avanguardia che potessero captare i suoni come in presa diretta e remixarli immediatamente all’esecuzione.
Paice, Lord, Glover, Blackmore e Gillan fecero sobbalzare il popolo rock d’oriente con invenzioni, cataclismi, riarrangiamenti ed evoluzioni sinfoniche che combattevano ferocemente tra il chitarrismo carismatico di Blackmore e l’ugola divina di Gillan, le due primedonne assolute di tutta la band; questo live è rimasto scolpito nel granito sovrumano di un’interpretazione che non ha mai riconosciuto eredi o pretendenti al trono dell’hard rock, nessuno ha mai potuto inserirsi nella velocità di Hammond e sviso di Highway star come nelle ottave di grazia ipersonica di Child in time.

La storia aveva già messo lo zampino e l’alloro sulle armonizzazioni infuocate della band che con un semplice ingranaggio di power chord inventò il riff di chitarra che tuttora rimane esempio da manuale, Smoke in the water, immortale pezzo mai superato, ma pure l’assolo di batteria dalle mille battute sincopate The Mule, la voce di Gillan che imitava di gola quello che Blackmore tirava fuori dalle corde elettriche tormentate di Strange kind of woman e le allucinazioni psichedeliche di tasti Hammond, spaziali elucubrazioni psicotrope di Lord e Glover Space Truckin e Lazy, sono lì ad iridarsi della gloria eterna, pura manna di vinile che ha sfamato milioni d’accreditate moltitudini.
Correva l’anno di grazia 1972, il popolo rock nipponico visse la potenza suonata di una nuova esplosione atomica, il resto del mondo ne subì le divinazioni radioattive dalle quali non volle schermarsi. Mai.

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Arctic Plateau – The enemy inside

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Questo disco sembra una visione notturna degli Slowdive o il canto epico rassegnato dei mangiatori di loto, dimentichi della loro vita e immersi in un apatico presente, invece è il soave decadentismo plumbeo che gira in “The enemy inside”  di Artict Plateau, moniker del musicista romano Gianluca Divirgilio, la nuova atmosfera discografica che l’artista fa scivolare negli orecchi galvanizzati di chi cerca un appiglio concreto – e a suo modo buono –  per iniziare alla grande una giornata in tema invernale, appiglio che si fa più che concreto, stupendo.
Un disco che non riuscirà – data la sua sofferenza interiore dei colori del vuoto e della mestizia – a farci vedere le stelle o qualche rappresentanza di esse, ma ci regala un diabolico collasso sensoriale ed emozionale, quel “lieve svenire” Kuntziano che sembra a tratti il principio attivo dell’estasi amarognola e disturbata Ottantina, carica di melodramma dark e del liberismo dei giorni contati della purezza shoegazer; undici piste per atterrare o decollare in quell’idea di malessere che in fondo è dentro noi tutti, connaturata nella dimensione umana, il nostro “impero interiore”, luogo dove rifugiarsi senza essere disturbati.

Ballate, schegge e ferite, radenti e amori che s’impastano in nuvole grigie che si susseguono una dietro l’altra come sipari di una commedia interiore che non ha pause, ricordi, scommesse e gole amare, una lunga poetica malata che trova conforti e tumefazioni nel rispecchiarsi di bruciature incancellabili; lo specchio di MorrisseyMusic’s like”, la dolcezza di una lacrima DrakeanaIdiot adult”, lontani echi di Phil CollinsAbuse”, “Wrong”, il pathos di una foschia folle condivisa con Carmelo Orlando (Novembre) nella disperazione urlata “The enemy inside”, l’eleganza in ballata di un Brian Ferry che danza in “Loss and love” in cui partecipa con la voce anche Fursy Teyssler (Les Discrets),  sono i sintomi complessi e belli di questa rabbia muta ed urlata, di questa ossessione fragile e corposa che è buio e luce senza fine, ossessione che vi sarà trasmessa con lo skippare all’indietro per ritornare sui luoghi del delitto d’ascolto della singola traccia  e dalla quale nulla potrete fare.
Artict Plateau, la levità dei sistemi emotivi.     

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Madkin | Perdone La Molestia

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Ultimamente si parla molto di questi Madkin, una band romana dedita ad uno Stoner Rock con forti riferimenti ai Kiuss. La band formata da Giuseppe Raffaele, Serena Jejè Pedullà, El Pais e Flavio Gamboni giunge finalmente al disco d’ esordio intitolato “Perdone La Molestia”; registrato e mixato presso gli Snakes Studios, ha come tematiche principali quella dell’alienazione umana, la comunicazione violenta, l’ amore  e l’ esperienza onirica. Musicalmente questo platter presenta massicci riff suonati con discreta velocità, insomma a tratti sembra che la band abbracci parti Hardcore ma la vena Grunge e Stoner si nota molto di più. Per farvi un esempio: mixate il sound dei Placebo e dei Kiuss, il tutto condito con un pizzico di aggressività alla Walls Of Jericho, ecco che otterrete la proposta dei Madkin. Questo “Perdone La Molestia” non sarà un apice, ne candidato al disco migliore dell’ anno ma è comunque un lavoro apprezzabile che nel bene o nel male ha qualcosa da mostrare, anzi, da far ascoltare. Il consiglio è quello di dare un opportunità ai Madkin, che indubbiamente hanno ancora molto da  apprendere ma per il resto ci sono dentro fino al collo, possiamo essere fiduciosi.

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Edda – Odio i vivi

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Stefano Edda Rampoldi, al mondo Edda,  non scrive solo canzoni, ma da un senso da brivido a quello che dice nelle convulsioni della sua sofferenza dentro, al centro di quella sua poesia malata che si sbatte e rotola come in un catino rovente pieno di ferite e momenti di felicità al pus, ed è da quel senso da brivido e di gran rinascita  che la musica alternativa italiana prende uno scossone tremendo da parte di quest’artista stupendo, forte e fragile riesploso al mondo con Semper Biot – dopo i fasti e le cadute con i Ritmo Tribale –  e qui nella riconferma assoluta del nuovo album “Odio i vivi”, secondo personale incunabolo “off” che va ad emozionare ulteriormente lo spirito di un ascolto oltre il privilegio.
Disco da ascoltare varie volte prima di entrare nel suo io, è un percorso tortuoso e salvifico che Edda – con Walter Somà con cui ne divide i testi – intraprende attraverso una canzone d’autore che pizzica il rock, una certa “avanguardia” sperimentale e un’anarchia metrica, di convenzioni e scrittura, dieci tracce trasversali che della libertà espressiva ne fanno baluardo di sincerità totale; una sonorizzazione che, oltre alla strumentazione di prassi, prevede autoharp, ottoni, marimba, sega musicale e lamiere ferruginose, contrasti e melodie che si fanno copiose come l’umorale che l’artista cambia di continuo, come un temporale prima o dopo di una giornata ossessa.

Non ci sono direttrici da seguire od inseguire come i dischi “classici” pretendono, qui si viaggia beatamente a vista, tra ondate poetiche d’inimmaginabile bellezza come la stupenda “Topazio” sangue interiore che vomita fuori pensieri fuori geometria, il subliminale resoconto di un delirio vivo “Marika”, la ballata per una mancanza d’amore vero “Gionata”, tracce queste scritte insieme a Gionata Mirai de Il Teatro degli Orrori, il rumorismo lavico che esce da “Omino nero”, la sinfonia vibrante in crescendo “Il seno” e quel diadema storto appeso in finale che risponde al nome di “Tania”, un blues da piangere con il quale il grande Edda ci offre un affresco da pelle d’oca di quello che questo musicista interprete può far germogliare dal suo spirito, in alto, sempre più in alto fra trombe, ottoni, ottavini squillanti e lo spazio illimitato di quel cielo che si apre davanti come un sipario accogliente.
Prodotto da Takedo Gohara, arrangiato da Stefano Nanni, magnificato da Stefano Edda Rampoldi.    

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Camillorè – Graffi e perle

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Un Barnum folk che si agita a più non posso, verve, diaboliche cialtronerie di verità che manomettono l’ipocrisia del buon pensiero e delle comodità d’ascolti  snob; da Bari il pensiero senza catene dei Camillorè,  “Graffi e perle”, sedici tracce umorali e quattro intermezzi recitati dall’attore Pasquale D’Attoma con il fulminante sax del jazzista Roberto Ottaviano, comiche e sanguignolescamente guitte, gravide di j’accuse, prese per il culo ed il teatro virtuale di Dario Fo che incontra la spiritualità ridanciana di Caparezza.

Questo e quant’altro rotea intorno a questa band che, con il fare raffazzonato dei musici di strada, arrivano ad incantare, imbambolare ed affabulare un ascolto divertito e indagante; idee chiare e strampalate con storie sbilenche che graffiano la carne per reclamare ascolto, vibrazioni di jazz, caracolliì  estrosi, mirabolanti piroette di folk-rock che battono forte sul nervo della fantasia più declamata, più recitata; il sestetto pugliese è una fonte d’energia “rinnovabile” ad ogni cambio traccia, una forza teatrale che fa spettacolo uditivo senza sospensioni o tiri di fiato, una sequenziale ironia che rimane appiccicata in testa e  – come una trottola a comando – ti sollecita muscoli e neuroni ad attivarsi nel pensiero e nella smaniosa forza di scaltrezza.

Jannacci che fa cucù su “Il jezzarolo”, il rock di un Capitan Uncino che riverbera dentro “Stequattromura”, l’assurdo rendiconto sulla fiducia che sghemba in un rock’n’roll brass “Il professor Procopio Trombetta”, orientaleggianti deliri alla Totò le MokòTemistocle Malalingua”, le sarabande di un Capossela infervorito “Pllaq plluq”,  “La nonne”, “Papà Oloconte”: questo è solo un assaggio di quello che troverete qui dentro, tra le fronde di una tracklist ricca e mordace, un teatro circus che ha un sorriso per tendone e veleni comici per stelle, una straordinaria scoperta made in Bari che vi farà smontare le tensioni con la forza di parole e suoni inaspettati.
…” e sempre allegri bisogna stare che il nostro piangere fa male al Re/ fa male al ricco e al cardinale diventan tristi se noi piangiam..” .

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“Diamonds Vintage” Family – Music In A Doll’s House

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Profondo 1968, siamo sul crinale di una nuova “scissione creativa” che va ad indagare in una direzione ben precisa, quel rock progressivo che da lucentezze tutte King Crimsoniane, e che si allunga fino all’apoteosi di rock-psichedelico che da lì a poco sarà strada privilegiata per sciami infiniti di band seminali.
I Family, Roger Chapman voce, Charlie Whitney chitarra, Jim King sax, Rob Townsend batteria e Ric Grech violino, sono una delle formazioni di punta della “stravaganza” freakkettona che in quegli anni era dote e costume importantissimi, piacciono molto ed agitano come pochi il sistema alternativo dell’epoca; sul palco sono indomabili e casinari, su disco tutta un’altra cosa.

Music In A Doll’s House” è il disco della rifinitura, sempre con le peripezie beatnik della California in fiamme, ma del contenimento forzato che, in una dozzina di pezzi, stenta a reprimersi fino a sbottare nella sua quasi totalità libertaria, meravigliosamente senza ritegno alcuno.
Tutto è barocco e cangiante, stili e sonorizzazioni che si surriscaldano ed inseguono come nel corpo di una corsa ad ostacoli che non si vuole restringere dentro paratie, pompe magne d’arrangiamenti e architetture sonore, un’avanguardia inaspettata che guarda molto negli occhi di Zappa come motore ionizzante della fantasia creativa, ma anche dentro l’estetica di un rock esplosivo e – a tratti – fuori delle righe – se intese come tali; è l’era dei Mellotron, dei VC7 ed altre strane congetture tecniche che la band di Leichester fa andare a braccetto con arie epiche, cori rinascimentali, trombe e stravaganserrai che colpiscono ad ogni cambio di pezzo.

Tante le sensazioni cosmic open-space The Voyage, The Breeze, Winter, molte le acidosità metedriniche che svalvolano nelle ossessioni di Never Like This, Be my fiend, Peace of mind dove addirittura florealità indù, litanie muezzin ed Ohm tibetani fanno capolino profumato, poi qua e la – ascoltando attentamente il registrato – animosità Hendrixiane, pulsazioni di Peter Gabriel e plumbei sunset blues, emergono divinamente a completare questo disco giocoso e profondo.
Prodotto da Dave Mason dei Traffic, Music in a doll’s house è un missile puntato oltre le barriere del flower power imperante in questo periodo, un missile del quale non ritroveremo più per sempre la traiettoria tra i pindarismi d’oggi.

TRAKS

Chase
Mellowing grey
Never like this
Me my friends
Hey Mr. Policeman
See through windows
Varation on a theme of Hey Mr. Policeman
Winter
Old song, new song
Varation on a theme of the breeze
Varation on a theme of me my friend
Peace of mind
Voyage
Breeze
Three times time

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Lambchop – Mr.M

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Misero il destino per chi da eroe diventa un numero zero, ma questo non riguarda i Lambchop. La band di Nashville era un numero zero agli inizi di carriera, zeri rotondi come il sole della loro terra: poco musicisti e molto sognatori, nichilisti dell’atmosfera , assertori che un mega blob inconcludente sostasse nel nulla pneumatico della musica. Questo era il lusso frenetico che questi giovani americani senza collare donavano e donano nei loro lavori. Qui al loro undici della carriera “Mr.M”, provano qualcos’altro, rinunciando al caracollare consueto, per un disco- sì malinconico di prassi – ma con accenti soffusamente smooth, jazzly, confidenziali con sospiri di Tindersticks e Wilco a soffiare delicatamente su braci semi-spente di fuochi andati; della band colpisce sempre la vena svaporata, i suoni tratteggiati che in questo nuovo disco sono dilungati a dismisura, in concreto slow song che stirano la tracklist come un lungo ballare delicato e in uno stato mentale d’abbandono e di rimpianti, ma è solo l’effetto delle orchestrazioni che ampliano il lento pathos che regna ovunque.

Undici pezzi, undici “classici” si vanno ad aggiungere ad un ascolto ovattato, fuori memoria e fuoco, da prenderci l’abitudine anche se si crede che questi “giri di boa” stilistici siano solo prendi tempo per ritrovare quella via maestra d’un tempo, che qui man mano pare vada a  scemare su derive incontrollate; detto ciò Mr. M rimane un disco piacevole, allentato ma sincero e onesto, con tanti sogni dentro e pochi effetti speciali fuori, praticamente inesistenti; Kurt Wagner, il leader vocal della band non sì da pace, crea atmosfere cantate sofferte, acide “Kind Of”, “Nice without mercy”, e nel suono totale vivono un crooneraggio alla lacrima “Mr.Met”, un Nike Drake che cavalca il folk di “Gone tomorrow”, arie da night con coretti “Gar”, la ballata bradiposa “2B2” o i violini sparuti che segano le tramature lente di “Buttons”.

Non si può gridare a nessun miracolo, è solo un buon disco che cozza leggermente con le precedenti produzioni e che abbisogna di più di un bel giro di stereo prima che ti rilasci sensazioni specifiche e idonee di un bel listening; del resto non si può pretendere boom discografici dopo lunghi anni d’altrettanti boom già acquisiti, una ciambella con mezzo buco riuscito ci può anche stare, l’importante è non ricaderci e tornare alla propria storia.

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Violentor

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Un gruppo senza peli sulla lingua, un vero macigno dedito al thrash old school, sono i Violentor freschi del debut album, un omonimo che ha suscitato la curiosità di tanti. Ai microfoni abbiamo Alessio, cantante e chitarrista del gruppo che tra una chiacchiera e l’ altra ci ha svelato diverse curiosità inerenti alla band e al disco.

Ciao Alessio, tanto per cominciare perché non ci dici quando e come sono nati i Violentor?

ALESSIO: I Violentor nascono nel 2005, al tempo eravamo io, Luke dei Devastator e Davide dei Nido di Vespe, altre due bands del panorama underground toscano (approfitto per fare un po’ di pubblicità)
Abbiamo però fatto solo sala prove e niente di più poi il progetto si e’ fermato da subito, tra l’altro non e’ rimasto niente di quello che provavamo al tempo.
Nel 2010 ho voluto ritirar su il gruppo visto che non avevo altri progetti in corso e quindi abbiamo iniziato in pieno dopo qualche cambio di lineup, io, Alessio “The Dog” Medici alla voce e chitarra, Riccardo “Rot” Orsi dei Devastator al basso, Alessandro “Rashade” Battistella alla batteria e Elisabetta “Betta” De Angelis all’ altra chitarra. Un anno nemmeno e abbiamo tirato fuori il nostro primo disco. Attualmente Betta ha lasciato la band e abbiamo deciso di rimanere noi tre.

Quali sono le band che hanno inspirato i Violentor?

ALESSIO: Siamo ispirati sicuramente all’ heavy classico, al thrash e al punk
Ti posso dire che i miei gruppi preferiti sono Venom, Motorhead e Discharge quindi penso di averti detto tutto.

Il vostro omonimo è un disco di pura energia cosa ci racconti delle fasi di mixaggio e di registrazioni, dove e come si sono svolte?

ALESSIO: Abbiamo registrato nella sala prove dei nostri amici livornesi Profanal, Daniele il loro bassista ci ha aiutato nella fase i registrazione, il mix del disco e’ stato realizzato nel 16th Cellar Studio di Roma.

Dell’ EBM Records cosa ci dici, come è nata la collaborazione e come vi trovate?

ALESSIO: Siamo usciti col disco e la EBM ci ha contattati proponendoci la produzione e la distribuzione del cd. Ci troviamo molto bene, e’ una label molto professionale e nel loro roster sono presenti bands molto valide.

Ho notato che il vostro stile è in perfetto Underground, ma a cosa puntano in generale i Violentor?

ALESSIO: Non definirei il nostro stile “Underground”, l’ underground e’ la scena musicale in cui suoniamo, e’ per l’ underground che abbiamo registrato il nostro disco, per far parte anche noi di questa scena con la nostra musica, con la nostra passione. Il nostro non e’ altro che metal senza troppe sperimentazioni, puro, istintivo, grezzo, marcio.
Vogliamo solo divertirci fare qualche altro disco e sopratutto fare parecchie date dal vivo.

Chi si occupa dei testi e quali sono le tematiche?

ALESSIO: Chi ha idee per scrivere, scriva.
I testi del disco li abbiamo scritti principalmente io e Betta, ma anche Ricca e Rasha possono liberamente scrivere. Nel disco nuovo che uscirà penso a primavera/inizio estate abbiamo scritto tutti e tre i testi.
Generalmente i testi parlano delle nostre emozioni, dei nostri stati d’animo, di ciò che ci fa sentire bene, o male, della musica, degli amici, sopratutto di cose vere, sentite e semplici, siamo noi quelli che scriviamo, nulla e’ costruito a tavolino, tutto nasce da dentro di noi.

Per quanto riguarda i live cosa ci dici, dove suonerete nei prossimi giorni? E soprattutto cosa dobbiamo aspettarci da uno show dei Violentor?

ALESSIO: Adesso staremo fermi per un po’, perché stiamo lavorando al nuovo disco, suoneremo qualche data ad aprile, a Roma, Firenze e Torino.
Se fate casino sotto, daremo il meglio di noi!

Che tipo di promozione state adoperando per “Violentor”?

ALESSIO: Con Internet chiaramente, ci vuole tempo, e’ un lavoro anche questo, oggi però siamo più fortunati delle bands di un tempo, il disco sta andando più ora di quando e’ uscito ed e’ quasi passato un anno.

Social Network come Facebook, MySpace e Twitter vi sono d’ aiuto?

ALESSIO: Certo che si.

Bene Alessio, l’ intervista si chiude qui, concludi come ti pare…

ALESSIO: Supportate l’ underground, UH!

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Mondo Naif – Essere Sotterraneo

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Essere sotterraneo” è  l’opus primo dei Mondo Naif, selvaggia band del trevigiano, perfetta per sbarazzarvi dello stress provocato dai vostri boss o per rimediare alla sempre minore libido sonica della vostra ragazza. Fra echi desertici, miraggi, allucinazioni a loud  stellari e ascolti ripetuti di Marlene Kuntz, Verdena “Eloise” e divinità anni Novanta come i Ritmo TribaleCome me”, “Violenta” il trio snocciola senza ritegno alcuno undici fendenti caotici della miglior dottrina stoner “lunaire” che ci possa essere ancora in giro da qualche parte.

Non hanno tutti i torti i critici del nuovo tormentato corso dei gruppi che ruotano ancora intorno alla figura centrale di questo genere, ed è un corso di chi ama ora o amato fortemente nel passato i bagordi elettrici e bui del suo sistema trasmissivo sonico, fatto sta che è innegabile che sia un “mega dettaglio” che ha sconvolto – tra piacere e dolore – la scena rock mondiale e che band come i nostri veneti ancora ci facciano linciare pelle e udito con la passione di chi il rock lo vive veramente dal basso e non su carta patinata.

E’ un buon esempio di qualità e pathos sacrificale, un disco che esalta – sebbene dalla sua provenienza nei reconditi pertugi dell’underground – grandi manovre stilistiche, tremendamente incisivo e promettente, pronto a ruggire sui grandi e medi palchi dell’attenzione con dolcezza inaspettata come il vento dell’Ovest delle ballate grunge intimiste “Aiutami, sono un ladro”, con lo slancio rivoluzionario dei RefusedLa terra trema”, a fondo nei sulfurei e neri sanguinamenti dei The TheDeuteria, vol. II”, un piccolo diversivo nel punkyes stile Bay Area “Mario”, nei Baton Rouge tra puttane e woodoo alcolici “Boblaito” ed una corsa tra i deliri Tarantiniani’N’roll per perdersi oltre in deserto di Sonora, fra pace, santità e maledizioni a go-go “Y fire”.
Mondo Naif consegna intatta la rabbia vogliosa –  in fondo –  di una libidine mai circoscritta, di una forza magnetica che è “maitre a penser” in un panorama giovane rinsecchito, un’energia polvere e sudore grandiosa in mezzo a tanti prodotti senz’anima. Provare per credere.

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