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ANTONIO MAGGIO L’ESORDIO DA SOLISTA CON IL SINGOLO “NONOSTANTE TUTTO” IN ROTAZIONE RADIOFONICA A PARTIRE DA MERCOLEDÌ 21 MARZO

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ANTONIO MAGGIO, dopo l’esperienza con gli ARAM QUARTET, si prepara all’esordio da solista con il singolo “Nonostante tutto” (Rusty Records), in rotazione radiofonica a partire da mercoledì 21 marzo e già disponibile su I-Tunes. Il singolo anticipa l’uscita del primo album del cantautore salentino di cui è autore e compositore.

“Nonostante tutto” è un brano dalle danzanti atmosfere retrò, con forti tinte popolaresche, caratterizzato anche da una scelta degli strumenti che riporta al folclore, in contrapposizione “all’inglesizzazione della nostra musica”.

Il singolo è accompagnato da un videoclip realizzato da “Foto Glamour Studio” (www.fotoglamourstudio.it) e prodotto dalla Rusty Records. E’ possibile vedere il video anche in HD su YouTube:
http://www.youtube.com/watch?v=I6l-lvUlYy4

Il testo racconta, in chiave ironica e con divertenti giochi di parole , “quanto l’amore possa essere ostinato e testardo, a volte anche cieco”. In realtà, la storia vuole essere un pretesto per mettere a fuoco una seconda chiave di lettura, che poi è anche l’elemento principale del testo, ossia il bisogno di un bel bagno di positività: “contestualizzato in questo particolare momento storico che stiamo vivendo, quel ‘nonostante tutto va tutto bene’ vorrei che fosse d’aiuto a tutti noi per stemperare, in minima parte, i problemi e le paure dei giorni nostri”.

Per ANTONIO MAGGIO questa canzone ha anche un terzo significato, dalla valenza simbolica e personale, infatti il singolo è stato scartato a Sanremo, “ma ‘Nonostante tutto’ sarà comunque il mio primo singolo…”.

“Mi piace immaginare che ‘Nonostante tutto’ possa essere il mio biglietto da visita nella musica. Credo non ci sia per me canzone che possa rappresentare meglio di questa il mio nuovo progetto”.

19 marzo 2012

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Kubark | Ulysses

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Questi sono una vera  rivelazione, proprio loro i Kubark, un quartetto dedito ad un Rock sperimentale che miscela Stoner ed Elettronica. Marco, Elia, Enrico e Federico si fanno sentire con “Ulysses”,il nuovissimo disco intitolato cosi perché nel profondo dell’ anima i ragazzi con e per la loro quotidianità, un po’ come tutti noi, si sentono degli eroi. Un paragone giusto che dovremo sentire tutti  proprio per le continue sfide che ci attendono nei nostri giorni.  Ma veniamo adesso a “Ulysses”, un disco di una certa qualità, registrato e mixato ai Factory Studio da Cristiano Sanzeri e lavorato nei minimi dettagli, un lavoro pieno di enfasi detto francamente.  Anche se il platter contiene solo cinque tracce, queste sono riuscite a dare abbastanza elementi per tirare le somme, tra l’ altro positive. Io personalmente all’ ascolto del disco ho immaginato di essere in mezzo ad uno degli isolati di New York, non ci sono mai stato nella famosissima ed attraente metropoli, ma questo disco mi ha dato questa sensazione, un po’ cupa e un po’ selvaggia; ma questa è soltanto una parte del mio ritratto, perché il disco in se ragione sul concetto di “gente” ed “anonimato”, come specifica il gruppo, e dunque sul cambiamento e la metamorfosi dell’ umanità . Una piccola nota di merito va anche all’ artwork, influente e suggestivo come pochi . Difficile affermare una traccia migliore dell’ altra, tutte e cinque hanno qualcosa da dire, posso però dire che quelle che mi hanno coinvolto di più sono “Ainsoph” e la conclusiva “VIXI”.  I Kubark sono un gruppo con grandi doti e potenzialità, hanno le carte in regola per sfondare, non resta che dargli fiducia e contare su di loro.

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Male di Grace – Tutto è come sembra

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“Tutto è come sembra” è un disco molto atipico, sembra di ascoltare i Marlene Kuntz (“Dolce miele” e  “Ai confini” con gli urli alla Godano ne sono la prova) o gli Afterhours mentre incontrano la scena indie rock americana (Kyuss in primis).

In una canzone (Ninna surf) infatti compare anche Mario Lalli, musicista che milita e ha collaborato con band della scena desert californiana (Fatso Jetson, Yawning man, Desert sessions, Brant Bjork ecc). Insomma il gruppo in soli cinque anni di vita di strada ne ha già percorsa davvero tanta! Il suono credetemi è davvero perfetto, curatissimo in ogni dettaglio, merito anche delle registrazioni e dei mixaggi presso il Cellar Door Studio di Milano a cura di Gianluca Amendolara e del mastering effettuato presso il Newmastering studio da Maurizio Giannotti. La vena psichedelica però si fa sentire spesso sprizzando l’occhio (anzi l’orecchio…) anche al noise alla Sonic Youth o alla Fugazi e un po’ anche all’hard rock tipo Black Sabbath o Led Zeppelin. La particolarità del gruppo sta nel fatto che ¾ dei componenti si alternano fra chitarra, basso e voce con una maestranza davvero unica e con uno stile intrigante e raffinato.

Molto bello e singolare anche l’artwork del disco a cura di Edoardo Vogrig. L’autoproduzione spesso comporta molti rischi e/o imperfezioni ma qui credetemi se i quattro ragazzi hanno azzardato sono riusciti a superare ogni difficoltà, nel pieno spirito indie! Sarà datato 2010 questo disco ma credetemi la freschezza del lavoro si sente ancora, anzi è sicuramente molto più attuale di tanti altri concorrenti che circolano oggi e la perfezione assoluta giustifica il ritardo con cui è stato pubblicato. Undici tracce, tutte cantate in italiano, che vi lasceranno davvero di stucco! Lo strumentale “Ninna nanna per Grisù”, ad esempio,  vi terrà sicuramente compagnia e di certo non rischia di far addormentare l’ascoltatore, non fatevi trarre quindi in inganno quindi dal titolo! Che i nuovi Jesus Lizard si siano reincarnati in Italia?

 

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Margareth – Fractals

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Gran bel disco nuvoloso questo “Fractals” dei veneti Margareth, disco che suona spiazzante come un classico dal portamento molto strano, attraversato com’è da esplosioni, staccati di chitarra roventi, infinitesimali saette sinth e l’enorme bellezza d’arcadie softone che si slanciano delicatamente nel lungo e nel largo la tracklist; mix di freschezza, inquietudine e profondità che spiega lo stato di salute ottimo di questa formazione piena di quell’autorevolezza ormai imbattibile che vibra sull’underground nazionale e speriamo presto oltre.

Sensazioni pop, pizzicori i d’Americana, effetti satinati d’Inghilterra indie e particelle dreaming di splendore raccolto salutano l’ascolto di questo Fractals come in un incontro con la bellezza di una donna sofisticata ed eterea, un intrigante mondo emotivo di flash psichedelici sixteen alla Kula ShakerFlakes”, il cantautorato di Rice o Sheeran Rosemary calls” e certe dilatazioni bombastiche che appaiono tra i mulinelli di “Beautiful witch” o nella pastorale delicatissima che intenerisce emotivamente “It will be alright”; nove tracce percorse da ipnotismi e giochi di fondo, una sincerità d’esecuzione che fa dei Margareth la maturità interpretativa di un anima meticciata squisitamente musicale, un punto di vista sonico alto e,  a  tratti,  irraggiungibile  nelle sue venature hard-mantriche che ti frollano mente e corpo in una beatitudine elettrica senza uguali “Mind eyes”.

Un disco che abita più “tempi” felicemente lontano dai culti e dalle riformate occasioni di revival, un percorso già intrapreso dalle coloriture nell’esordio di White Line e che arriva integro all’intuizione di essere un buon frutto proteso di personalità e fuoco impalpabile “Shadows come”, traccia in equilibrio tra le scogliere di Dover e i Big Sur Thcizzati californiani; sensazioni in chiaroscuro messe a ponte di una solitudine espressionistica che porta questo straordinario disco alle alte vette dei sognatori spiritati. Da collezionare tra le cose più dolci che s’intende avere.

 

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“Diamonds Vintage” Perigeo – Azimut

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Giorni di gloria, d’amore e odio, il progressive italiano si rivolta su se stesso e sulle avanguardie degli Area di Demetrio Stratos pur di non vanificare gli intensi sforzi di staccarsi dalle ali madri inglesi che in quegli anni hanno il copyright assoluto dello stile. In Italia il prog vola alto ed in buona salute, molte le band che aprono gli occhi ma solo in pochi arrivano a cogliere il segno. Tra tutti i Dedalus e i Perigeo Giovanni Tommaso contrabbasso e basso elettrico, Franco D’Andrea tastiere, Bruno Biriaco batteria, Claudio Fasoli sax e Tony Sidney chitarra, un quintetto che in sordina tira fuori questo Azimut, un lavoro molto avanti, oltre la soglia dell’avanguardia, forte di una commistione jazz che li portò a paragonarsi – in linea astratta ma di segnale – con Weather Report e Soft Machine. Non solo fu amore a prima vista con la RCA che li mise immediatamente sotto contratto, ma anche uno straordinario successo di massa senza uguali e fiore all’occhiello della “nuova musica”, ottimizzazione ed evoluzione massima di quell’estemporaneità che il progressive perseguiva e ricercava nei borders della purezza frammista a contaminazione.

Jazz e soluzioni sperimentali, free-grove e istinti americani, questo è Azimut, un occhio sonoro che raggiunge il limite di un equilibrio informale stratosferico già dall’urlo psichedelico che raschia in “Posto di non so dove” e dove per sei minuti perde contegni e assume ritmi di un jazz-rock da capogiro; segue il caos incontrollato di “Grandangolo”, esempio di fusion ragguardevole dove sax e basso fanno amore e guerra, le linee Newyorkesi di “Aspettando il nuovo giorno”, lo sperimentalismo – a tratti cacofonico – di “Azimut”, il tratteggio mediterraneo e popolare che presenta “Un respiro” ed il rock che torna a farla da padrone tra emisferi Zawinulliani e scat elettrici dentro le giravolte senza coordinate della stupenda “36° parallelo”, traccia che chiude in un tripudio di fiatistica un capolavoro che è tuttora storia inaffondabile del Progressive tricolore.

Verranno “Abbiamo tutti un blues da piangere” nel 73, “Genealogia” nel 74, “La valle dei templi” nel 75 e “Non è poi così lontano” nell’anno 1976, anno in cui questa bella storia chiuderà i battenti per lasciare solamente echi e suoni di una melodia pazza d’inestimabile valore.

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Stereonoises – Colours in the sky

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Hanno fatto davvero un buon lavoro questi siciliani Stereonoises, qui al decollo ufficiale con “Colours in the sky”, un nove tracce abbastanza intrigante, ben suonato e puntato direttamente oltre le scogliere di Dover, lì in quell’Inghilterra filtrata attraverso i Ray-Ban a goccia di Bono degli U2 Time”, “I’m still here”, “How long”, il Noel Gallagher “Something you should know” della spinta solitaria ed il concetto impattante di una certa ruvidezza morbida sullo stile Kelly Jones degli StereophnonicsTonight”, “Room on fire” e tutto ciò non fa altro che lievitare “in alto” le azioni di quest’album che riunisce due anime e culture diverse ma senza la presunzione d’essere “terrificante”, soltanto un buon esempio di come una qualità emergente sia all’altezza, pronta, per produzioni dalla mira verticale; la band da vita ad una ricchezza di suoni capaci di mediare brillantemente fra certe atmosfere indie che s’innestano come satelliti vaganti e lo spunto – ora uggioso, ora estetico – del brit meno glucosato, di quella concezione apparentemente non allineata che non si porta dietro i modelli generazionali, piuttosto le planimetrie riconoscibilissime di un’epoca che ha dato pathos e sangue dolciastro, fino a ritrovarle beatamente adagiate dentro questo registrato.

Buoni gli arrangiamenti ed il respiro internazionale che gli Stereonoises esaltano senza sforzo, una caratterialità quasi naturale che li rende autonomi dalle vetrofanie di tanti loro colleghi, una dosatissima miscela d’elettricità e tensioni melodiche che – una volta evidenziata dalla bella vocalità del cantante – si mette a disposizione di un ascolto molto, ma molto interessato; dunque antenne puntate sulle venature leggermente rock-wave tratteggiate nella title-track o nella punta di diamante dell’intero disco, quella ballata che ti trascina dentro consistenze vaporose e sofferte,  dove puoi incontrare sia il Billy Corgan, il despota del melone sfracellato sia il passo lento e ironico di un Lou Reed spelacchiato ed imberbe, lungo i marciapiedi umidi e tristi della Hassle Street NewyorkeseMakin’ a circle”.

Davvero un buon lavoro per una band che ha costruito le proprie basi su di un sound deciso, determinato, una dotazione sonora e poetica che sa rallentare e darsi a manetta con professionalità insospettata, che mi strappa un punto in più oltre la lode, semplicemente vincente, esordientemente grande.

 

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The Crocs – …And The Cradle Will Croc

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Correva l’anno 1998, un triste giorno di ottobre il mio compagno di banco Alessandro mi passò una cassetta con un bel teschio in copertina. In un primo momento mostrai la tipica ostile resistenza, classica per uno sbarbatello che fino a quel momento nell’insieme della musica rock inseriva solo pochi elementi nostrani come Litfiba e Ligabue. Ma alla fine accettai, un po’ come si accetta di andare sulle montagne russe anche se soffri di vertigini, tentato dal demoniaco sorriso del teschio disegnato a mano del mio amichetto.

Arrivato a casa subito dopo pranzo infilai il diabolico nastro nella mia piccola radio trasportabile. Giusto pochi secondi del “crrrrr” tipico del nastro (quanto mi manca, creava attesa adrenalinica) e fui travolto dallo spietato delay di Slash, che sembrò tagliarmi a pezzetti la gola. I Guns’N’Roses e il loro hard rock furente si erano impossessati di me. Da quel giorno  tutto è cambiato. I jeans si sono strappati, i capelli cresciuti a valanga, teschi orribili sono comparsi su t-shirt sempre troppo larghe e sono diventato (insieme ad altri 4 scapestrati del liceo) il più fuori moda di tutta la scuola dove in quegli anni regnavano fighetti, discotecari e punkettoni. Dopo quasi 15 anni e tanti (mai troppi) dischi masticati i jeans si sono ricomposti, i capelli si sono un po’ accorciati (alcuni in verità persi per strada!) e i teschi li sfodero solo in alcune giornate di eccessiva nostalgia. Però l’orecchio per quel genere così stradaiolo, così feroce e così chitarroso non l’ho mai perduto. E con gli anni l’ho forse un po’ addolcito e reso più docile, mischiando i riff con un po’ più di melodia.

Potete ora capire quanto aspettassi di recensire un disco come quello dei milanesi The Crocs e come il titolo del loro album mi rimandi subito ai fasti liceali, riportandomi immediatamente al macchinoso e massiccio brano dei Van Halen (intitolato appunto “…And The Cradle Will Rock”). Appena scarto il disco capisco subito dalle facce dei 4 ragazzacci di cosa stiamo parlando e il sorrisino mi scappa.
Si parte in quarta con il brano migliore del disco: “I Wanna Trust In Santa”, è scopro che di pop ce n’è proprio tanto, ma ben mischiato con quell’hard rock classico molto sornione. Il tutto è poi condito dalla voce di Andy che, nonostante presenti alcune sbavature esecutive e una pronuncia un po’ da “americano a Roma”, spara altissimo il falsetto e pare abbia copiato la ricetta del frullato di testicoli proprio da un maestro come Justin Hawkins dei The Darkness.
Andando avanti: in “Bring Me Down“ si trovano sonorità più moderne e più corali alla My Chemical Romance, “Living On Danger” è hard rock classico con chitarrismo tamarro, strillo devastante e basso ben pulsante in primo piano, il funky di “All Alone” e la pseudo-ballad “Possession” invece sono gli episodi più glam-fricchettone, si vola in Scandinavia e si raccolgono le ceneri dal recente funerale dei The Ark.

I testi come nel migliore stereotipo sono (s)porchi e abbastanza scontati, ma forse è meglio così. Manteniamo bassa la frivola dignità del buon rock’n’roll cazzaro.
Insomma tutti spunti intelligenti e tutto sapientemente arrangiato dai quattro ragazzetti. Manca solo un po’ di personalità nelle loro melodie che, con un pizzico di ispirazione in più, potrebbero benissimo essere esportare con fierezza dalla provincia lombarda.
Niente di nuovo, niente per cui farsi ricrescere i capelli fino al culo, niente di eccessivamente hard rock da farmi rimettere su “Appetite For Destruction”. Ma almeno la vecchia maglietta nera coi teschi oggi me la fate indossare?

 

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Story Of Jade – The Damned Next Door

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Mai come questa volta ho trovato difficoltà a fare un’ analisi di un disco. Tanti sono stati gli ascolti di “The Damned Next Door”, il nuovo album della Horror Metal band Story Of Jade e diversi erano i momenti in cui l’ ho ascoltato. Automaticamente anche arrivare alle conclusioni si rivelava complesso perché da un lato si teneva tra le mani un disco di buona produzione,  suonato bene senza alcun dubbio e dunque con una tecnica discreta, dall’ altra parte troviamo un prodotto di un banale Thrash Metal che di Horror a dirla tutta ha poco e niente. Insomma, considerando gruppi pilastri come Daemonia, Death SS e Cadaveria che in Italia hanno messo le radici, sono i gruppi che in un modo o nell’ altro attraverso i riff e le atmosfere fanno proprio lo stile dell’ Horror: Citando sempre questi big e facendo un paragone con gli Story Of Jade,  vediamo che questi ultimi non hanno le atmosfere che creano i Daemonia, non hanno le sinistre e cupe melodie dei Death SS ne c’è quel tetro e grezzo suono che i Cadaveria riescono a creare con i loro massicci riff.  

“The Damned Next Door” è indubbiamente un disco piacevole, tralasciando questa questione sull’ Horror, il resto del lavoro è ben composto, non è eccezionale ne innovativo ma scorre facilmente. Tecnicamente il gruppo è preparato infatti avrebbe potuto fare molto di più, ma ad ogni modo non perdiamo le speranze perché se gli Story Of Jade riusciranno  a giocarsi le proprie carte, state certi che faranno centro.

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Following Friday – Outside The Fence

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E’ già tempo di maturità al secondo colpo quello della Bay Area Band Riminese Following Friday, fortemente coesi per consentirci d’essere presenti con gli orecchi al secondo loro sforzo amperico “Outside The Fance”, ed è veramente un buon sentire, un perfetto incarnare lo spirito passionale e fun che sin dai primissimi giri di piatto si pone come una fistola prepotente sulle terga incontinenti di tanti Finley, Lost e dAri  che credono di imbambolare teen e ombrosi Emo senza catene; sei tracce percussive per un Ep che scalda il giusto, punk affiancato da arrembaggi rock che paiono arrivare anche dalla parte dell’attuale scena newyorkese con i protagonisti strapazzati di Ours o The Sea And CakeFuture lover back problems”, “A dive into the ocean”, dunque buone influenze e scuola quelle che i nostri FF utilizzano per costruire quello che è sicuramente un alto livello d’intesa sonica, ed anche – perché non ammetterlo – quella qualità ed estetica che può benissimo reggere il confronto con  altre magnifiche “banderuole” italiote che li hanno preceduti.

E se punk deve essere, che punk sia, Ep come questi, che ancora sopravvivono ai cavalloni spumosi e le tavole da surf  Californiane, vanno salutati con affetto e riguardo, sono piccole lezioni di una gioventù ribelle-educata che amplifica poesia, amore e dolorose istantanee generazionali che segnano il messaggio profondo della “voglia di esserci”, dell’essere protagonisti di una nuova era scalmanata mai autoreferenziale, piuttosto fondante; ed allora a manetta dentro il fuoco incrociato di “First shot is the hardest”, a radente nelle filologie hard-rock che permeano la ballata “Out on the deck”, al centro dell’ansia di tastiere e chitarre sincopate “Dear Charlie you ruined my life” o nelle sgassate di purissimo tween-pop che intossicano di pogo “Girls like that”.
Grandi schitarrate spigolose vi attendono disponibili per farvi un bel giretto a bordo di questa tensione elettrica dall’anima cortese, un modo di intendere la musica come un contatto da innescare tra pancia e cervello, tutte cose che una volta messe in moto da questa band dalla doppia Effe faranno da collante per un atletica artistica che vi mozzerà il fiato. Ammesso e non concesso!

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Old Time Rock & Roll, ma il Boss cambia (o meglio invecchia)

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A volte la vecchiaia gioca brutti scherzi ai rockers: perdi la voce, non riesci più a muovere le dita e impiastri mitologici soli di chitarra, ti rompi la gamba cadendo da una pianta tropicale in un’isola deserta, dedichi giornate a concimare il cuoio capelluto, attendendo che i fertili fasti della gioventù ritornino a far splendere denti ormai rifatti e occhi ormai scavati da una vita eccessiva.Per molti è così, e allora fioccano reunion e tragici tour-carrozzone in cui la setlist è un agghiacciante greatest hits targato inizio anni 90. Ma a dire il vero non sono neanche in pochi quelli che si salvano dalla facile caduta e evitano un rovinoso finale con un sobrio ritiro (onore a David Bowie) oppure prendendo faticosamente coscienza dei propri limiti e trasformando i difetti del tempo in forza e potenza della propria roboante musica.Tra questi ultimi potrei citarvi: Bob Dylan (i suoi recenti “Modern Times” e “Together Through Life“ sono capolavori di poesia blues), Robert Plant (il suo rifiuto alla reunion degli Zeppelin non pare affatto vile) e eroe indiscusso di grinta e purezza: The Boss Bruce Springsteen.Il boss non si discute e su questo credo siamo quasi tutti d’accordo. Già solo per il fatto che va in tour con 300 canzoni, fa uno spettacolo con due luci e una band che emoziona più di qualsiasi schermo a led e pirotecnico, suona per 3 ore e mezza fino a quando non lo cacciano dal palco. Già solo per il fatto che lui con la sua magica E-Street Band (e sottolineo con la sua magica E-Street Band) riesce a tirare fuori quello che a mio avviso è il migliore live set che si possa vedere in giro ancora oggi.Ma qui purtroppo per Springsteen non si parla solo di live. Perché oggi, insieme a lui nella geriatria della musica rock, ci sono ancora molti live set eccellenti anche se, a differenza sua, presentano il ruffianissimo greatest hits.Qui si parla di album e di canzoni, di parole nuove e di note che toccano il presente e il futuro, non ritrite da nostalgiche radio della East Coast o da autoradio marce che sfrecciano sulla Route 66. Vogliamo sentire la freschezza, la novità e non basta un semplice frullato di 45 giri, dischi di platino e scoloriti awards amplificati dalla frizzantezza di master pompatissimi o rullanti secchi e senza l’eco.Ma cosa ci si puo’ aspettare di nuovo da un uomo che compie 63 anni a Settembre, con rughe, (pochi?) capelli grigietti e un fisico massiccio (ma almeno botulino no dai!) che prova a mascherare i segni del tempo? Per altro da un vecchio marpione che dalla vecchia scuola american mainstream non si è mai distaccato più di tanto?

Bene se vi aspettate una svolta, il suo ultimo album è ovviamente la risposta sbagliata. Se invece volete ascoltare un bel disco di vecchio rock grintoso e onesto, questo è il posto giusto. E se poi volete un disco attuale, questo è il paradiso.Attuale non è ciò che suona nuovo, ma ciò che suona reale oggi. E Springsteen suona sempre reale, quindi mai anacronistico, anche se la musica che presenta “ora” è lo stesso grido da stadio che propone da ormai quasi 40 anni.Il disco in questione ha un nome violento: “Wrecking Ball”, sa di distruzione e di terra bruciata. E pare che del ruffiano ottimismo post-vittoria-democratica biascicato a bocca semi aperta e piena di speranza, non si veda nemmeno l’ombra. Prendere o lasciare: questo è il presente visto da uno dei più grandi poeti realisti dei giorni nostri.Lo si capisce subito dalla opener “We take care of our own” che si chiede senza tanti giri di parole: dove sono finite le “loro” promesse? (“where is the promise, from sea to shining sea”). Perché “abbiamo urlato aiuto mentre la cavalleria stava a casa” (“we yelled help but the cavalry stayed home”). Insomma il mare splendente non risplende più, anzi è pieno di merda e i dannatissimi soldi che erano l’ultimo dei problemi nelle canzoni del Boss, ora vengono a galla e noi “poveri cristi” ci ritroviamo a riva, con canne corte e esche rinsecchite a tentare di farli abboccare, ma sono banchieri e politici a portarseli in scia ai loro kilometrici yacht.Insomma nonostante i cambi di umore e l’incazzatura, ancora una volta Springsteen prende il microfono e parla a nome di un popolo, usa semplici parole di disperazione e di fiducia, di paura e di amore, di caduta e di forza. Sempre tutto nel nome della passione, che non muore mai anche in tempi bui. Il vecchio dunque non perde il vizio, ed è la solita magia: con la sua voce ormai polverosa trasforma bestemmie proletarie sputate tra denti sporchi e sorrisi puzzolenti in splendida poesia popolare.

E dentro il suo popolo scava tanto in questo disco, fino a ritrovare anche le radici della musica folk americana, già abbracciate nell’album con la Seger Session, ma lontane dalla divampante allegria di vento democratico di “Working on a Dream”, dai pompatissimi muscoli rocciosi di “Magic” e dall’urlo a pugni chiusi di “The Rising”. Qui del sogno americano rimane solo l’americano, stuprato e demolito da una violenta palla di demolizione a forma di dollaro. E proprio dalla figura umana parte il nostro boss (dai che non è solo un bovaro born in the USA ma appartiene un po’ a tutta la cultura occidentale) e l’uomo può salvarsi, certo! Ma da solo. Deve prendere in mano tutto ciò che ha: amore, famiglia, forza e anche soldi questa volta e combattere per la propria vita.Non so bene se le nuove generazioni abbracceranno questo spirito, forse però artisti attuali come lui ce ne sono pochi e se dobbiamo guardare alla nostra little Italy più che allo st(r)adaiolo Ligabue lo paragonerei a De Andrè. Più muscoli e meno cervello, più macchine veloci e meno pescatori, più patriottico ottimismo e meno cruda anarchia ma il cuore che pulsa per il popolo e per le loro storie sembra pompare sangue nelle stesse vene.E la musica che pompa sangue non muore mai. Anche se qui è solo semplice e vecchio rock’n’roll continua a surfare l’onda del cambiamento.

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Venus In Furs – Siamo pur sempre animali

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Ho sempre avuto un’amorevole avversione per le storie dei 20enni disadattati. Insomma la mia frazione razionale non ha mai gradito troppo tragicomici racconti su insormontabili scogli di giovani incerti su un futuro che sembra per loro già scritto. Tutti paladini della libertà con una laurea in Lettere e Filosofia in mano. Tutto trasuda retorica e stereotipi, me ne rendo conto, ma non sono mai riuscito a frenare il violento impulso di curiosità verso questo filone di romanzi o film (vedi Culicchia e Virzì, tanto per citarne due)

Non voglio assolutamente sminuire il problema, anzi. Sono convinto che i ragazzi del 2000 (me compreso dai, non sono così antico) debbano battersi con mostri che da anni sembravano ben sotterrati da una scorza sociale ben dura. Oggi invece questa scorza fa breccia da tutte le parti e allora gli artigli feroci di queste bestie grame si catapultano in superficie in cerca di carne fresca da deturpare. E così ci sono affitti da pagare, la paura di una scelta universitaria sbagliata, una fede che vacilla verso qualsiasi tipo di santo, un alcolismo divampante, una fede in nulla, mass media che plastificano pure la realtà della cronaca nera e dulcis in fundo un’onda economica che precipita come il peggior burrone di Willy il Coyote.

Ma la cosa che mi fa un po’ incarognire è che almeno nelle storielle, che possono comunque darci qualcosa in più di ciò che ci sbatte in faccia la vita quotidiana, si dovrebbe avere qualche stimolo in più di un banale stereotipo incartato e venduto all’ingrosso al supermercato. E così forse si affronterebbe tutto questo scatafascio con un sorrisino che si tramuta facilmente in stretti denti digrignati. Alla fine i mostri spaventano, ma noi siamo bestie come loro e sappiamo bene come affrontarli.Tutto questo pare ce lo insegnino i pisani Venus In Furs che presentano il loro album con un nome che presuppone bava alla bocca (per rabbia, non per fame): “Siamo Pur Sempre Animali”. Preparatevi insomma a mettere un attimo da parte le emozioni e i sentimenti per essere veramente cattivi (e di questi tempi serve esserlo).

La scuola dei compaesani Zen Circus (Andrea Appino insieme a Gianluca Bartolo del Pan del Diavolo partecipa addirittura al bluseggiante crescendo finale de “In questa città”) è più che evidente e come la migliore tradizione delle correnti rock si porta dietro questi 3 giovani ragazzetti (l’anagrafe è sconcertante, tutti poco più che ventenni) che trasudano rock’n’roll da tutti i pori. Ci sono la rabbia agonizzante dei Linea 77, la botta in faccia dei Ministri, l’arroganza svarionante degli Afterhours più noise e addirittura (mi sbilancio) la roboante potenza di Led Zeppelin II. Il risultato pare un pastone, ma tutt’altro che stantio, è freschissimo come pesce appena prelevato dal fondale marino. Ancora vivo e scalpitante in superficie ti immerge subito in un vortice di volume con il riff di “Nefasta in testa”, brano apre il disco e sembra sgraffignato proprio ai Ministri, se la vacilla febbricitante tra hardcore e pop da classifica. Il prepotente e inaspettato boogie boogie di tastiera dell’opener ci conduce alla drittissima “Io odio il mercoledì”, una prepotente danza infernale in riva al burrone che a sua volta ci scaraventa nelle dinamiche ancora più oscure e tetre di “Cecilia e la famiglia”: “ciò che luccica e non brilla, si Cecilia, è la famiglia”.

Il disco scorre veloce insomma e si fa ascoltare tutto di un fiato nonostante le sue 13 tracce (ambizioso mettere 13 tracce in un disco d’esordio, no?). Le sonorità si dimenano forsennatamente tra atmosfere seventies, urla sporche (complimenti alla voce di Claudio Terreni, che nonostante la giovane ugola mostra grande maturità canora), tastiere sintetiche, chitarre acidognole e grande botta generale (figlia di una produzione impeccabile) che non vuole rinunciare alla bellezza della melodia italiana, un po’ violentata, ma ben viva in brani come la stupenda “Naif” dove Manuel Agnelli sembra direttore di questa piccola orchestra elettrificata.Un bel biglietto da visita insomma, un disco che i giovani d’oggi dovrebbero ascoltare e assimilare, perché arriva proprio da loro coetanei incazzatissimi. Così, come cita la loro “Las Vegas (non mi rilasso)”,  buttiamolo nel cesso sto “manuale bignami per ventenni 2000”, perché a noi animali le “loro” regole non ci piacciono affatto. Occhi aperti e denti stretti.

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Redska – La Rivolta

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Tempi propizi, bollenti e puntuali questi che corrono e vanno a sbattere con “La Rivolta” del combo romagnolo dei Redska, il nuovo disco e prova muscolare in quattordici tracce che pare proprio arrivare come un temporale giustiziero a freddare i calori che, poteri forti, 27 che non si raggiungono più, tasse e situazioni estere che sfuggono ad ogni controllo, e i “troppi controlli” crudeli dei nostri giorni, ci sgozzano come pecore sacrificali; i loro amplificatori, trombe, ska no-limits, antifascismo, reggae, eroi quotidiani, nuove favole e vecchie storie, coraggio e sangue elettrico, sono da anni la risposta “carrettiera” che infesta di voglia di lotta e rivoluzione, le piazze di questa nostra Italietta zimbello di potenti e nuovi invasori, la loro forza “gunner” è quella di farci saltare il cuore in gola per riprenderci il mondo nelle mani e toglierlo a chi ci gioca come fosse un pallone da football.
Il combo romagnolo condensa nella tracklist la “ventilazione sonora” dei quattro anni di tour nazionali ed europei sold out che li hanno visti protagonisti unici di un apparato spettacolare idealistico e di power-force sociale, un disco stradaiolo, ideato, concepito e nato dalla voglia di far esplodere mille NO in mano ai tanti Mangiafuoco della società.

Jumping, pogo, stage-diving e pensieri per un mondo migliore e senza scordare i piccoli grandi uomini che hanno lasciato loro malgrado un segno nella nostra mente, Stefano Cucchi ucciso dalla Polizia “Bastardi senza gloria”, Vittorio ArrigoniEroi”, e le tantissime prese di posizione politiche che urlano danzando per la loro libertà come il No al razzismo “Legato dalla Lega”, il No all’omofobia “Quello che sei”, i giovani precari dentro lo ska-swing “Studente precario antifascista” che ospita la voce di Kino degli Arpioni, poi la lotta alla pedofilia dei porporati “Lettera a sua santità”, contro il calcio violento “Holligan RudeBoys” insieme al cantante degli Offender e altre scosse telluriche che fanno tremare le circonferenze irte di questo bel disco epilettico.

Clash, Red-corner, Southampton, ed un’inesauribile carica di “contro”, una convincente massa di “Sveglia” che tra ragamuffin, Jamaica di casa nostra, punk rossastro e grandi idee in avanti da quello schiaffo robusto e danzereccio necessario per riaprire gli occhi, casomai ce ne fosse bisogno, ma a vedere i tempi d’oggi pare proprio di sì, e loro i Redska sono di nuovo qui a ricordarcelo, a farci sudare, divertire e a darci quel calcio in culo per non arrenderci mai, come dice il Subcomandante Marcos all’ingresso nello stereo di “Sounds of Revolution”.
Pugni chiusi in alto e Hasta Siempre Redska!

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