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Sea + Air – My Heart’s Sick Chord

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Daniel ed Eleni Benjamin, lui tedesco che canta e suona chitarra, batteria, campane e piatti ma non sa leggere la musica, lei greca,  voce e suona clavicembalo, batteria, organo bass pedal, sono compagni di vita e d’arte riuniti sotto il moniker “naturalistico” di Sea + Air e  arrivano al fatidico esordio con l’album “My heart’s sick chord” come fossero calati dentro una bolla di vetro, fauni di un folk-pop arieggiato, un cantautorato silvestre e boschivo che rammenta gli Arborea dei tempi migliori e gli afflati espansi degli Appalachi, ma anche una certa agevolezza sperimentale rock messa a confronto con liscive Seventies teutoniche (Popol Vuh) e stranezze  sfaccettate alla Flaming Lips; tredici tracce che movimentano un album suonato con quattro/cinque strumenti e che mette al centro anche un amore per il barocchismo Bachiano, il clavicembalo e artifici cromati abbaglianti.

Però come in tutte le cose, “il troppo stroppia”, troppa carne messa sul fuoco a cuocere, molte strade sonore che fanno perdere l’equilibrio stilistico dell’ascolto e che generano un complessivo musicale che corre subito via, che si dimentica facilmente e senza lasciare una traccia indelebile nella memoria; un disco che raccoglie movimenti orchestrali congelati dal tempo, coperti sì da una coperta tenera e morbida, ma che non hanno una precisa identità, caratteristica o tic contagiosi che li faccia fermare e rintracciare dal tasto repeat. Pop, sinfonismi, forme canzoni alla Ghostla titletrack”, i citati ArboreaMercy street”, “Safe from harm” il pop versato alla Sting “The sea after a storm”, “Do animal cry? , i sintomi elettrici dei Flaming LipsYeah I know” e quelle tubolarità soft ottime per spot pubblicitari di dolcezze o affini “Ist life”.

Il duo di Stoccarda degli Sea + Air iniziano bene questo loro primo progetto ma poi si perdono in mille rivoli, nelle mille intrecciate arterie che non fanno altro che confondere il vero intento della loro prestanza sonica, forse è la necessità di dare tutto e subito, ma facendo così Mare + Aria non hanno mai fatto = Fuoco. 

Un disco a metà aspettando tempi migliori.

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Rossella Scarano – Guardando Fuori

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C’è poco da fare, buttiamo pure in pattumiera l’immagine del cantautore barbuto, pieno di banali vizi (ma che addosso a lui fanno stile), seduto sulla sua sgangherata sedia di paglia e con in mano una ancora più sgangherata chitarra acustica. Dimentichiamoci la figura della cantante con il vestito lungo e stretto con addosso l’ancora più stretto ruolo di interprete. Tutte a dar voce a poeti maledetti ispirati da troppo Lambrusco o da troppo sapore di mare.

Basta. In Italia, oggi (più di ieri), le donne scrivono canzoni, e hanno le palle di andare su un palco con chitarra legata con lo spago e magari anche un bel tacco dodici. La canzone italiana è sexy. E ci piovono addosso dolci pulzelle che sanno parlare dei loro sentimenti a cuore aperto, tenendo testa ai vari cantastorie di periferia, persi tra troppe letture del Manifesto e troppo tabacco che straborda da piccole sigarette girate.
Tra le tante “nuove proposte”, ho recentemente scoperto Erica Mou (l’unica ad avermi realmente stupito a Sanremo 2012), Elisa Casile (dalle terre astigiane) e la fanciulla in questione: Rossella Scarano.
Rossella ha origini napoletane ed è alla sua prima vera fatica discografica. Uscito da poche settimane “Guardando Fuori” pare stia riscuotendo già un buon successo.

La menestrella infatti sa sedurre, bilanciando bene questo suo charme tra poesia e chitarre elettriche, tra parole crude e soffici carezze, tra ugole d’oltreoceano (Ani DiFranco su tutte) e strade già più volte battute da maestre come Paola Turci e Cristina Donà.
“Tu chiamale se vuoi, emozioni” si diceva. Grande dote ha la fanciulla, la melodia segue sempre per filo e per segno il mood delle canzoni. Rossella è grande domatrice di voce e di sentimenti e riesce a governare con grande maestria questi due cavalli irrequieti. Forte e determinata sul soffice substrato musicale de “La cattiveria”, qui la canzone fa male tanto è schietta. E poi introspettiva e intesa nella title track: “Guardando Fuori” ci accorgiamo che tutto è leggero, e il peso relativo del macigno che ci portiamo dentro aumenta un pochino.

I cavalli però partono un po’ per la tangente quando la loro domatrice azzarda spunti più rockeggianti come nella filosofeggiante “Friedrich” (ispirata alla “Genealogia della Morale” di Nietzsche). Qui l’inglese rabbioso pare una forzatura e non si sposa troppo con le sue dolci parvenze. Il cambio di lingua si rivaluta poco dopo nella inaspettata ballata “Insensitive” che si barcamena tra melodia strappamutante (ricorda in alcuni tratti le grandi hit al pianoforte di Adele) e un allegro jazz da film di Charlie Chaplin.

Il sipario poi si chiude con la cover chitarra e voce di “Glory Box” dei Portishead, completamente spogliata dell’alone trip-hop e prepotentemente intensificata nella melodia.
Dirò una banalità, ma per me il primo teorema del pop è: spoglia una canzone di tutto, se è ancora meravigliosa è una grande canzone pop. Insieme a questo ultimo episodio in cui Rossella ha giocato facile, in questo album le canzoni sono molto spesso nude e crude, prive di inutili abbellimenti e soddisfano così pienamente il primo teorema.
Cari maschietti, la quota rosa sta aumentando. Sfregatevi per bene la barba e cercate nella salsedine o in nuovi inserti del Manifesto qualche idea che non sia la solita agonizzante minestra riscaldata di De Gregori, Guccini e Rino Gaetano.

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Giulio Casale – Dalla parte del torto

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Nel ritorno sulle scene musicali di Giulio Casale – l’ex voce degli Estra – l’ossessione di ritrovarsi nel cerchio del rock è forte; dopo molteplici esperienze nel teatro ed in altri paraggi artistici, la voglia di tornare a rapportarsi con la musica mischiandola con le lezioni di Gaber o della Fernanda Pivano è diventata per lui l’esigenza primaria per urlare tutta l’estetica del suo animo inquieto, di quella sua poetica ancora tutta da esprimere per raccontare, raccontarsi e svenarsi in un disco “Dalla parte del torto” che porta sulle note di copertina “dodici pezzi socialmente sensibili” e nello spirito musicale Bertold Brecht ed i pensieri non allineati della letteratura.

Un disco strano, a due livelli, il rock e il vezzo cantautorale appunto affiliabile al Maestro Gaber, della sua verve oltranzista emancipata e della poetica contro, tracce gravide di sentimenti che però non cedono al sentimentalismo, tracce che espandono similitudini ed interiorità a strani Nick Drake, Cave, per arrivare addirittura a Tenco e che iniettano un senso di instabilità poetica e sociale che si rizza sulla tracklist come una scossa elettrica improvvisa; fuori da logiche commerciali , il disco del rockers trevigiano si vuole riappropriare della vera scrittura musicale per definire e avvertire del tramonto della Società Occidentale e per tornare a far parlare quell’artigianato artistico che oramai non circola più, morto e sepolto da tempo.

Si diceva esigenza, ed eccola qui, intera e forte nei confini delle notti CelinianeLa febbre”, leggiadra nelle aerazioni GaberianeLa mistificazione”, “Un’ossessione”, “Fine”,  profonda nelle ombre di TencoSenza direzione” o delicatamente magica nelle rimembranze di un Battiato eccelso in “Magic shop” dove riecheggiano gli Hare Hare a mille lire, Cuccuruccucù Paloma e gli incensi di Dior.

Un disco ripeto, strano, ma la stranezza è la cosa più vera che possa esistere e se ti senti anche te dalla parte del torto ascolta queste canzoni ed il torto sarà la parte più accecante della ragione.     

Bentornato Giulio.    

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“Diamonds Vintage” Black Sabbath – Paranoid

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Secondo lp dei Black Sabbath, a distanza di pochi mesi dal debutto ufficiale, Paranoid è la totemica pietra miliare che si erge assoluta e suprema in tutta  la storia, epopea e nera favola del rock duro e metallico e se anche l’heavy metal non sia tutta invenzione loro, quest’album n’è il capostipite e fonte d’ispirazione per orde d’artisti di settore.

Registrato con un allora stupendo mixaggio quadrifonico, Paranoid è un ricco menù di sangue lugubramente dark, urla di morte, nebbie ed insanità mentali condite abbondantemente da percezioni soprannaturali d’ispirazione pseudo-maligna e d’allucinazioni dovute a  droghe e rapporti sessuali incestuosi dove la voce insinuante e viscida d’un giovanissimo Ozzy Osbourne sguazza con piglio satanico e beffardo; un menù tremebondo ma essenziale che in seguito verrà spesso rielaborato con successi più o meno meritati fino a scomparire da dove era venuto.

Anticipatori se non addirittura fautori del rock cosiddetto doom, il Sabbath granguignolesco di Ozzy Osbourne, Bill Ward alla batteria, Geezer Butler al basso e Tony “Tommy” Iommi alla chitarra, impera e scorrazza in tutte le classifiche mondiali, portando il verbo della “cultura mortuaria” e l’ansimo necrofilo dell’oltretomba a filtrare tra le fitte maglie dell’hard rock atmosferico e pregnante d’insicurezze e deliri, creando tutta una trafila di storie e aneddoti – veri e frutto dell’immaginazione – sui comportamenti poco ortodossi e addirittura vampireschi della band di Birmingham.

Ma è anche un’epoca dove la zampata dell’occultismo graffia già altre band del main circuit come i Doors, Stones, Led Zeppelin, Deep Purple – lo stesso Hendrix ne verrà incluso a forza – ed allora questo immane rito filo-satanico si allarga a macchia d’olio tanto da far bandire in tutto il mondo ogni traccia “persecutoria” di questi suoni neri da parte di una schiera di puristi e ortodossi benpensanti che vedono in questo “malsano virus” un pericolo di dimensioni catastrofiche per le giovani e “innocenti” anime adolescenziali.

Il “..people think I’m insane because I am frowning all the time all day long I think of things but nothing seems to satisfy…” sgolato da Ozzy nell’intro di Paranoid diventa manifesto per milioni di “apprendisti stregoni” che fanno dei Sabbath un esempio orgasmico planetare, osannano il riff di chitarra di Iommi che contesta la politica di guerra e difende il ritiro dei soldati dal Vietnam War pigs, sballano copiosi nella psichedelia malata di Planet caravan e si svenano nelle distorsioni e muri di suono che paralizzano Iron man; ora con le dovute distanze degli anni e con il declino del metal, il sudicio subliminale dei Sabbath rimane unico vessillo a tempestare di “paranoica virtù” la memoria e la grandezza di un tempo che certo angosciava per via di multiformi disfunzioni sociali, ma portava a pensare che anche dal profondo buio una vera luce sarebbe potuta uscire. Pipistrelli a parte!

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PAOLO BENVEGNU’ e MASSIMO VOLUME

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2012 in tour: Roberto Angelini, Paolo Benvegnù, Calibro35, Dente, Andrea Franchi, Guano Padano, Julie’s Haircut, Lo Stato Sociale, ManzOni, Marta sui Tubi, OfflagaDiscoPax
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PAOLO BENVEGNU’ e MASSIMO VOLUME in un progetto speciale per l’estate 2012 che vedrà i Massimo Volume e i Paolo Benvegnù condividere lo stesso palco per una collaborazione inedita e sorprendente.
Con il suo ultimo lavoro “Hermann”, arrrivato secondo alle targhe Tenco e considerato all’unanimità uno dei migliori dischi del 2011, Benvegnù ha portato ancora più avanti il suo progetto, mentre i Massimo Volume sono tornati con “Cattive Abitudini” un disco ed un tour che li hanno ribaditi come una delle realtà più preziose e seguite della scena indipendente italiana.
MASSIMO VOLUME e PAOLO BENVEGNU’ insieme la prossima estate per riproporre ciascuno i propri brani e per costruire insieme nuove emozioni.
Lo spettacolo (uniche apparizioni live per i Massimo Volume per l’estate 2012 in attesa del nuovo album e nuovo tour per il 2013) è disponibile a GIUGNO/LUGLIO 2012 in date e location selezionate.

website: www.paolobenvegnu.com – www.massimovolume.it

Per costi ulteriori infos etc…
Lorenzo cyclorenzo@gmail.com
Cecca cecca@estragon.it

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ALL WE NEED: il concorso nazionale per gruppi musicali emergenti

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Aperte le iscrizioni per ALL WE NEED, il concorso che porta 400 band emergenti sui palchi dei migliori locali di 20 città italiane.

Il progetto prevede un contest online, un progetto discografico e un tour in cui suoneranno anche grandi artisti, fra cui Marta Sui Tubi, Bugo, Diaframma, Mariposa, Motel Connection, Joy Cut e Aucan.
Il concorso si svolge sul sito internet www.radio-utopia.it, dove è possibile iscriversi, ascoltare e votare i gruppi.
Il progetto discografico finale prevede la produzione di un doppio compact disc che conterrà i brani dei 40 gruppi più votati e verrà stampato in un minimo di 30.000 copie.

ALL WE NEED è un sistema innovativo e completo che, oltre a valorizzare e comunicare il nuovo panorama musicale italiano, proponendosi come momento di aggregazione giovanile virtuale e reale, si sviluppa nel pieno rispetto dell’ambiente sposando una politica “ad impatto zero” e utilizzando materiali riciclati per la produzione dei cd.
ALL WE NEED è realizzato in collaborazione con Radio Utopia, Jack Daniel’s, Coop Adriatica, Audiocoop, Aics e L’AltopArlAnte.

PROGRAMMA
Venerdì 20 Aprile, Estragon (Bologna)
Special guest: Marta sui tubi, Bugo, Diaframma, Mariposa, Motel Connection dj set
Sabato 21 Aprile, Piper club (Roma)
Domenica 22 Aprile, St.James Irish Pub (Chieti)
Martedì 24 Aprile, Mamamù (Napoli)
Mercoledì 25 Aprile, Afterlife (Perugia)
Giovedì 26 Aprile, New Demodè (Bari)
Venerdì 27 Aprile, Cecilia Joy Cut (Potenza)
Sabato 28 Aprile, Da Melina (Reggio Calabria)
Domenica 29 Aprile, Linea notturna (Cagliari)
Domenica 29 Aprile, I candelai (Palermo)
Martedì 1 Maggio, Level music bar (Ancona)
Mercoledì 2 Maggio, Calamita (Reggio Emilia)
Giovedì 3 Maggio, Magazzini generali (Milano)
Special guest: Aucan
Venerdì 4 Maggio, Hiroshima mon amour (Torino)
Special guest: Bugo
Sabato 5 Maggio, Viper (Firenze)
Domenica 6 Maggio, New Ghost club (Genova)
Giovedì 10 Maggio, Officina 49 (Cesena)
Venerdì 11 Maggio, Deposito Giordani (Pordenone)
Sabato 12 Maggio, Pop Corn (Venezia)
Venerdì 18 Maggio, Spazio Off (Trento)

info e contatti
RADIO UTOPIA – Official Site
http://www.radio-utopia.it/minisito/

ufficio stampa
PROTOSOUND POLYPROJECT – www.protosound.net
L’ALTOPARLANTE – www.laltoparlante.it

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Heike Has The Giggles – Crowd Surfing

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Insospettabile! Nel Ravennate cova una forza motrice non indifferente alle sollecitazioni punkyes dal tipico sapore di chewingum masticato con stizza: nome Jeike Has The Giggles, prodotto “Crowd Surfing”, undici piste che mirano “ad allontanare i giorni bui dei cattivi auspici” con un sound che scalda e che entra nello stomaco come fosse un enzima elettrico pronto e scattante per digestioni lente  e ascolti impennati.

Il trio s’innesta subito tra le migliori rivelazioni della scena underground che possa ambire, in men che si dica, a palchi e attenzioni internazionali, producono un suono ultratatuato e shufflleizzato e quell’elettricità fun che – se consideriamo questo disco come terza prova discografica  e la prima con la Foolica – potrebbe diventare il classico “terzo rito” di passaggio per la maturità istantanea, per quella liberatoria guadagnata sul campo senza tante manfrine e con molte coccarde di live-set al bavero; canzoni, pezzi, melodie veloci, a presa rapida, radiofoniche e nervose il giusto, soundtrack speed  per disillusioni generazionali, silenzi e mutismi giovani, rabbie girovaghe che non arrecano danni fisici ma solo violacee ecchimosi all’anima ed al cuoricino pimpante di fregature.

Punkyes da atmosfere sfigate, carico e distorto nelle ossessioni che Emanuela Drei  voce e chitarra, Guido Casadio batteria e Matteo Grandi al basso guidano con voracità e sicurezza scalmanata fin dentro i più reconditi interstizi di woofer e casse stereo, sviluppando una manciata di minuti di piccole perline di vero piacere musicale; un disco che vive d’intensità e leggerezza, senza impegni e con le disinvolture californiane dell’urgenza come marchio di fabbrica impresso ovunque, tracce che non sono frutti Copernichiani, ma un modo per ritmare una mezz’oretta di una giornata qualsiasi, ottime come alibi perfetto per scaricare incazzature e palle che hanno preso la fisionomia di cocomeri.

Da “I wish I was cool” a “M.Gondry”, passando per “Next time” e “Time waster” fino al capolinea di “We all” e “I don’t know” è tutta una tensione “gentile” che da la scossa senza mai folgorare, incorniciando di un dolce pensiero una foto delle Dum Dum Girls, un bel poster a colori delle Elastica e la frenesia che la stupenda voce di Emanuela ci infetta come un virus a medio termine.  

 

 

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Mario Cottarelli – Una strana commedia

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Si chiama “Una strana commedia” ed è l’ultimo lavoro di Mario Cottarelli. Una produzione giunta a quattro anni di distanza da “Prodigiosa macchina” per regalarci un universo sonoro più accattivante ed orecchiabile. Il disco apre bene con il pezzo di circa 10 minuti che è anche il titolo del nuovo lavoro. Un intro sorprendente, in grado di trascinarti nel vortice tipico delle sonorità progressive. Poi, nei minuti successivi, si sente netta l’influenza dei mitici Jethro Tull. Una chicca per appassionati. Segue “L’occhio del ciclone”, mix esplosivo di alti e bassi ben orchestrati, tra i quali, spuntano tastiere taglienti tipiche del genere. Il terzo pezzo, “Corto circuito”, nei testi, richiama le tematiche ascoltate in “Pensiero dominante”, ma questa volta, il ritmo è molto più incalzante, notevoli anche gli intermezzi di chitarra distorta. Più vicina alle tendenze pop o comunque meno infarcita di sonorità progressive, la quarta traccia, “Bianca scia”. Chiude il lavoro, un pezzo più fresco e giocoso “L’orgoglio di Arlecchino”, un brano di 12 minuti strumentali che regalano anche qualche sorriso. Un gesto spontaneo nato dalle strane alchimie della musica di Cottarelli che appunto, descrive con le note – ditemi voi se questa non è una dote – una delle maschere più amate del carnevale. Sullo sfondo resta un lavoro degno e complesso, decisamente dedicato anche agli appassionati del genere, che fa onore alle grandi capacità di composizione di Cottarelli. Non solo, mentre ascoltavo, mi è venuto più volte in mente che questo disco, come altri dell’artista cremonese, potrebbe diventare ancora più incisivo, se i brani venissero liberati dei limiti del sintetizzatore e venissero eseguiti da musicisti singoli. Suonatori dotati di strumenti veri e soprattutto, di carattere musicale, per lo meno, come quello di Cottarelli. Insieme, per imboccare una versione “live”, di questo e degli altri lavori. Un invito senza pretese, ma che spero venga accolto.

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Circo di strada, il Busking Tour dei The Zen Circus approda a Torino

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Poche settimane di assenza dai palchi e ci mancavano già.
Voi lettori di Rockambula avrete ormai capito che The Zen Circus sono tra i nostri gruppi preferiti, forse perché molto semplicemente sono tra i migliori prodotti italiani degli ultimi anni.
Dopo lo strepitoso tour elettrico in supporto allo strepitoso ultimo album “Nati per subire” tornano ora con un tour tutto nuovo, elettro-acustico e grezzo, che celebra i loro 10 anni di carriera riportandoli alle origini stradaiole. Si tratta di “urgenza folk”, come citano loro stessi. E noi di Rockambula siamo sicuri, anzi sicurissimi, che il sudore e la passione non mancheranno.
Tra pochi giorni i ragazzacci di Pisa approderanno con il loro sgangherato furgone a Torino, allo Spazio 211. Ad aprire la loro serata ci sarà il cantautore Stefano Amen, che ci presenterà il suo nuovo album “Berlino, New York, Città del Messico”. Ore 22, ingresso 10 euro.
Iniziamo a sgranare gli occhi e facciamoci ammaliare dalle nuove meraviglie del Circo Zen.

The Zen Circus – Busking Tour 2012
23 Mar Saluzzo (CN) @ Ratatoj 24 Mar Torino @ Spazio 211 30 Mar Fano (PU) @ Dylan 31 Mar Bologna @ Covo 04 Apr Roma @ Locanda Atlantide 05 Apr Lecce @ Officine Cantelmo 06 Apr Acquaviva delle Fonti (BA) @ Oasi San Martino 08 Apr Eboli (SA) @ Co2 15 Apr Firenze @ Sala Vanni 20 Apr Sommacampagna (VR) @ Auditorium Malkovic 21 Apr Barga (LU) @ Teatro dei Differenti 24 Apr Cesena Retropop @ Barrumba 25 Apr Empoli Festa Nazionale ANPI @ Palasport (SET ELETTRICO) 28 Apr Piacenza @ Piazza (SET ELETTRICO) 30 Apr Teramo @ Aspettando il Primo Maggio (SET ELETTRICO) 05 Mag Castiglion del lago (PG) @ Darsena

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My Speaking Shoes – Holy Stuff

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Ho sempre avuto un rapporto molto difficile con le voci femminili, soprattutto nel rock.

Escluse leggende del passato come Patti Smith e Janis Joplin, non sono mai riuscito a fare mia la rabbia di una seppur potentissima ugola rosa, anzi a volte la vedo come una minaccia dall’esterno. Forse provo semplicemente timore alle strilla di una fanciulla incarognita, impersonando in lei una mia pseudo-fidanzata che mi scaraventa addosso un set di piatti in ceramica per aver dimenticato la festa di compleanno del suo adorato chiwawa obeso in cambio di una serata con la mia cumpa ad un alcolico cineforum sui polizziotteschi di Tomas Milian.
Così quando approccio i My Speaking Shoes, parto molto spaventato dallo sguardo inquieto disegnato in copertina della vocalist Camilla e mi aspetto già la sua strillante gola franarmi rovinosamente addosso. E in effetti, così è.

Ma a parte le mie tare da psiconanalisi, il risultato (mi) fa paura. Già dal primo impatto è una bomba. Ma non una bomba a orologeria, di quelle che devi aspettare un bel po’ prima dell’esplosione. “Holy Stuff”, disco d’esordio dei ragazzi di Sassuolo, è una bomba atomica: appena tocca il suolo è devasto puro. Tutto e subito. Rock aggressivo e femmineo, leonessa che va a caccia per la sopravvivenza.
La band suona alla grande già dalle iniziali “Mushroom Head” e “Flies”, dove si intravedono dallo spioncino di una porta insonorizzata le innumerevoli ore di rabbia e repressione sfogata in sala prove. E avevo ragione, c’è da avere paura, la voce di Camilla (pronuncia a parte) tiene testa ad Anouk e alla tedescona Sandra Nasic (Guano Apes). Donna con le palle insomma. Di quelle che se la fai incazzare ti tira dietro pure il set di coltelli, altro che piatti in ceramica.
Il disco è registrato alla grandissima: basso che pompa ovunque come nella migliore tradizione alternative-rock americana, chitarre arricchite da suoni mai banali (non il solito “gh-gh” dei nu-metallusi californiani), batteria che corre veloce come la gazzella che prova a scappare dalla furia della leonessa. Produzione splendida, con una band che sa essere sufficientemente pop e allo stesso tempo sa jammare fregandosene degli schemi imposti dalle canzoni per Twilight.

Sfido chiunque approcci alla band a non trovare una somiglianza con le varie band per ragazzini cicciottelli lobotomizzati da MTV. Dai l’abbiamo notato tutti appena vista una loro foto. Non me ne vogliate cari My Speaking Shoes ma a mio avviso siete un po’ i Paramore “de noantri” (e non c’è niente di male dai!), e la conferma arriva nella geniale (il testo soprattutto) “L.O.V.E. Song”, squarcio più rilassato in un panorama frenetico, nervoso e ossessivo.
Un (altro) difetto? Troppi brani, troppa monotonia nelle corde vocali e nelle melodie. Troppa carne al fuoco insomma per un genere già molto monocromatico in cui reputo veramente difficile suonare coloriti. I ragazzi in ogni caso, propongono una formula solida ma ancora un po’ statica, che non spicca in fantasia.
Però non facciamo i pignoli, “Holy Stuff” è un gran bel prodotto ma per far entrare la loro quota rosa nelle “sacre scritture” i ragazzi di Sassuolo devono ancora predicare molto il rabbioso verbo.

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The PseudoSurfers – The PseudoSurfers EP

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In una canzone le parole sono fondamentali quanto la musica.
Di più, molto probabilmente, perché sono quelle che immediatamente ci comunicano un messaggio, sembrano chiarire il senso di tutte quelle note suonate e cantate, di quei colpi di batteria, di certi tocchi. Da sempre, il mio primo ascolto di un brano è dedicato tutto alla comprensione del testo, il resto viene dopo. A confermarmi o smentirmi le impressioni precedenti.
Per questo ho sempre diffidato di gruppi che tendono a fare della voce un mero strumento al pari degli altri, usandone solo il potere fonico e non badando al contenuto, limitandola allo sfondo del brano e facendola sopraffare dalla musica.
Ed è per questo motivo che The PseudoSurfers, progetto del compositore romano Enrico M. che dal 2011 si avvale della collaborazione della bassista Silvia S., col suo omonimo Ep, stava per esser liquidato all’ascolto di Jungles of Iran, che apre il cd con una risata sguaiata, improvvisa, che poco c’entra con le subitanee atmosfere distorte e chitarrose, che ci portano, su un giro piuttosto semplice ma dal ritmo incalzante magistralmente scandito dal basso, alla ripetizione ossessiva delle parole, le uniche veramente (e finalmente!) comprensibili, “Non mi muovo più da qui”.
Sonorità veramente lontane (e decidete voi se è un bene o un male) dalle più recenti e ben confezionate produzioni sedicenti indie, per quanto The PseudoSurfers si meriti tutta questa etichetta nella sua reale accezione: un brusio costante in sottofondo, che richiama subito la psichedelia di fine anni ’80, a cui vanno aggiunte la voce calda, ariosa e roca (sempre incomprensibile!) e una cura maniacale alla ricerca del rumore, un po’ in stile Verdena o Marlene Kuntz con Dan Solo.

E allora la musica ci è piaciuta, quel finto ritornello (perché compare solo alla fine) ci rimbomba ancora in testa, ci siamo dimenticati del nostro insoddisfatto feticcio letterario per i testi e possiamo passare a 1664, che prosegue dritta per la strada spianata dalla traccia precedente, col basso quasi protogrunge, semplice, diretto, rotondo e scanzonato (con un richiamo quasi immediato ai The Vaselines). Semantics, col tema principale alle tastiere, ci avvisa che qualcosa sta per cambiare: le armonie si complicano, lasciando emergere la preparazione classica di base e l’ispirazione post-tonale, e per quanto il buzz sia immancabile, viene coperto da brevissimi incisi di chitarre eteree.
Che Enrico e Silvia siano cresciuti a Sonic Youth e My bloody Valentines, qui, è inequivocabile.
È però all’avvio di Space, la ballad immancabile in un sample come questo, che il duo abbandona completamente l’influenza post-punk e si macchia di una vena pop che proprio non riesce a sposarsi col resto dell’Ep, specie considerando la prosecuzione in Irrotational, traccia di chiusura, coi suoi oltre quattro minuti di sperimentazione esclusivamente e squisitamente strumentale. Ritorna il noise, ritorna la chitarra a farla da padrona. La voce tace e neanche ce n’eravamo accorti.
A differenza dei brani precedenti, però, questo sembra guardare più ai 2000, alla Treefingers dei Radiohead di KidA, ma soprattutto ai Mogwai. Si carica di una maturità musicale e di una serietà che davvero stona con le prime due canzoni, tanto da sembrare posticcia.
Un’inversione di tendenza, quella delle ultime due tracce e mezza, che lascia l’ascoltatore decisamente spiazzato. The PseudoSufers è un Ep e come tale deve mostrarci un po’ tutto quello che la formazione sa fare, ma un po’ di omogeneità in più, specie negli intenti, sarebbe stata decisamente più gradita.
L’impressione che lascia è che il duo, le cui abilità tecniche sono indiscutibili, non abbia ancora tanto le idee chiare su dove voglia andare: un vero peccato.

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ANTONIO MAGGIO L’ESORDIO DA SOLISTA CON IL SINGOLO “NONOSTANTE TUTTO” IN ROTAZIONE RADIOFONICA A PARTIRE DA MERCOLEDÌ 21 MARZO

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ANTONIO MAGGIO, dopo l’esperienza con gli ARAM QUARTET, si prepara all’esordio da solista con il singolo “Nonostante tutto” (Rusty Records), in rotazione radiofonica a partire da mercoledì 21 marzo e già disponibile su I-Tunes. Il singolo anticipa l’uscita del primo album del cantautore salentino di cui è autore e compositore.

“Nonostante tutto” è un brano dalle danzanti atmosfere retrò, con forti tinte popolaresche, caratterizzato anche da una scelta degli strumenti che riporta al folclore, in contrapposizione “all’inglesizzazione della nostra musica”.

Il singolo è accompagnato da un videoclip realizzato da “Foto Glamour Studio” (www.fotoglamourstudio.it) e prodotto dalla Rusty Records. E’ possibile vedere il video anche in HD su YouTube:
http://www.youtube.com/watch?v=I6l-lvUlYy4

Il testo racconta, in chiave ironica e con divertenti giochi di parole , “quanto l’amore possa essere ostinato e testardo, a volte anche cieco”. In realtà, la storia vuole essere un pretesto per mettere a fuoco una seconda chiave di lettura, che poi è anche l’elemento principale del testo, ossia il bisogno di un bel bagno di positività: “contestualizzato in questo particolare momento storico che stiamo vivendo, quel ‘nonostante tutto va tutto bene’ vorrei che fosse d’aiuto a tutti noi per stemperare, in minima parte, i problemi e le paure dei giorni nostri”.

Per ANTONIO MAGGIO questa canzone ha anche un terzo significato, dalla valenza simbolica e personale, infatti il singolo è stato scartato a Sanremo, “ma ‘Nonostante tutto’ sarà comunque il mio primo singolo…”.

“Mi piace immaginare che ‘Nonostante tutto’ possa essere il mio biglietto da visita nella musica. Credo non ci sia per me canzone che possa rappresentare meglio di questa il mio nuovo progetto”.

19 marzo 2012

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