Maggio, 2014 Archive

Sara Velardo – Polvere e Gas [VIDEOCLIP]

Written by Anteprime

Polvere e Gas è uno sfogo, un faro su quelli che sono i mali del nostro paese: il gioco d’azzardo, la corruzione, l’ostentazione di uno stile di vita che non ci possiamo permettere, la sperequazione sociale. Il nostro paese si sta sgretolando, e lo Stato costruisce nuove sale slot per spremere le povere anime che si lasciano risucchiare dall’illusione del “miracolo italiano”. L’Italia è il paese in Europa con il più alto numero di sale slot e il secondo a livello mondiale: dati allarmanti a cui nessuno sembra dare peso. Non c’è spazio per la musica, non c’è spazio per la cultura, non c’è spazio per l’arte. Forse, c’è bisogno di una rivoluzione, di un cambiamento, di un risveglio collettivo.

Ecco, in breve, il messaggio di Sara Velardo, la giovane cantautrice che, con la sua musica, racconta il mondo così come lo vede ogni giorno, con le sue ingiustizie, i suoi difetti ma anche con la gioia e la leggerezza di chi, dietro ai problemi, vede una possibile soluzione, semplice e alla portata di tutti. Il video di “Polvere e Gas” è stato girato a Consonno, quella che un tempo fu la “Las Vegas della Brianza”, ora abbandonata a se stessa. “Con sonno è l’esempio lampante dell’imprenditoria usa e getta, della totale indifferenza dello Stato verso la tutela del territorio e dei suoi abitanti a favore del guadagno di privati. Questo posto dimenticato rappresenta l’apice dell’ ipocrisia di chi non rinuncia all’auto di lusso, alla TV, allo smartphone, alla vacanza nell’albergo a cinque stelle ma sembra poter rinunciare senza problemi ad alimentare la cultura dei propri figli”. Al video, ideato e realizzato da Giada Canu, partecipa Laura Spada, seconda voce di “Polvere e Gas”. La produzione e il mixaggio sono affidati a Simone Momo Riva del TdE Studio (Aosta).

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Aa. Vv. – Loves You More

Written by Recensioni

Prima che inizi a parlarvi di questo disco, lasciatemi qualche secondo per raccontare una storia. Siamo a Echo Park, territorio limitrofo alla città degli angeli per eccellenza, Los Angeles, e tra gli alberi che avvolgono l’aria nei loro colori secchi d’autunno si nasconde il cadavere di un ragazzo di appena trentaquattro anni. È il 21 ottobre 2003. Lui è un musicista nato con Post Punk e Grunge nelle orecchie e poi diventato un eccelso cantautore, paladino dell’Indie a bassa fedeltà e tendente, soprattutto agli esordi da solista, a scegliere strade strumentali. Quel musicista ha un tatuaggio sul braccio, il toro Ferdinando, un gigante ma pacifico che alle corride preferisce i fiori, sgraffignato da un libro per bambini. In altre parole un fallito, per chi non riesce a comprendere coloro che si piazzano fuori dagli schemi stabiliti dalla società. Quel cadavere ha un nome: Elliott Smith. Lo stesso Smith che nel 1998 fu nominato agli Oscar per il brano “Miss Misery”, contenuto nel film di Gus Van Sant, Will Hunting – Genio Ribelle. Elliott Smith sale sul palco trasudando un’inadeguatezza quasi malinconica e tenera. Non è quello il suo posto. Forse non è questo mondo il suo posto. Elliott Smith si fa portavoce di una generazione di persone sbagliate nel posto sbagliato. Elliott Smith è infognato nella droga e nell’alcol e nella depressione. Quel cadavere quando ancora era uomo si è preso due coltellate al petto, quel lontano 21 ottobre 2003. Suicidio dicono, eppure pare strano suicidarsi con due coltellate al petto ed è bizzarro che la fidanzata col coltello tra le mani sedesse al suo fianco. Proprio in quei giorni Elliott, nato Steven Paul Smith, stava lavorando all’album From the Basement on the Hill e in quell’ultimo disco abbiamo cercato le tracce che ci donassero la verità, scovando però ancor più il turbamento dell’uomo dietro l’artista.

Loves You More nasce da un’idea di Davide Lasala dei Vanillina. Quindici brani e quindici artisti che all’Edac Studio reinterpretano Elliott Smith, registrando in presa diretta su nastro magnetico e mantenendo intatto quel sapore Lo Fi che ha sempre contraddistinto l’artista statunitense di Omaha. Si va da interpretazioni più canoniche, a scelte più rischiose e audaci, con qualche punta di vera e spettacolare emozione. Non sono certo io il primo sostenitore di tribute e cover eppure operazioni come questa sono qualcosa con un valore che esula dalla pura essenza artistica. Com’è accaduto con il tributo ai Fluxus di qualche mese fa, questi sono strumenti eccelsi che non solo aiutano a riscoprire i grandi del passato e magari proporli alle nuove generazioni ma hanno il duplice ruolo di promotori di nuovi talenti. Nel nostro caso pochi sono i nomi veramente noti al piccolo grande pubblico, Black Black Baobab forse, C + C = Maxigross, Dellera, Edda, Jennifer Gentle mentre gli altri sono soprattutto artisti dei quali, si spera, sentiremo parlare. Dennis di Tuono, Dilaila, Emil feat Cani Giganti, Eva Poles, Il Vocifero, Kalweit and the Spokes, Labradors, Mr. Henry, Nicolas Falcon e gli stessi Vanillina. Da brividi la versione di “Needle in the Hay” di Nicholas Restivo e Roberta Sammarelli dei Verdena ovvero i Black Black Baobab che reinterpretano il pezzo scelto per la colonna sonora del film I Tenenbaum di Wes Anderson. Edda ha optato invece per la lingua italiana intonando “Angels”, brano pubblicato nell’album Either/Or proprio come “Say Yes” dei Labradors e “Between The Bars” intonata da Mr Henry. Degna di nota anche “Bottle Up and Explode! di Emil feat Cani Giganti che azzarda strade di svecchiamento di un sound che in realtà mai suona vetusto, un po’ come propone Kalweit and the Spokes con “A Fond Farewell”.

Se riuscite a mettere le orecchie su questo piccolo gioiello, non staccatevene troppo in fretta se non per andare a riscoprire questo genio sofferente, un vero outsider e voce di migliaia di ragazzi troppo fragili per questo mondo. Non staccatevene se non andare a scoprire le nuove voci di una generazione sempre più in crisi e in lotta contro un mondo che sembra non amare la diversità.

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Il Video della Settimana: Hangarvain – “Get On”

Written by Senza categoria

Quando nel 2006 il cantante Sergio Toledo Mosca ed il chitarrista Alessandro Liccardo formarono una band Rock chiamata Shamat, non immaginavano che quasi dieci anni dopo sarebbero stati ancora insieme a suonare e sognare in grande con un nuovo progetto: gli Hangarvain. Nei primi mesi del 2013, poco dopo il rientro di Liccardo da Londra dove aveva vissuto e suonato per oltre un anno, al South Rock Studio di Ercolano iniziano le registrazioni del disco d’esordio del combo nel frattempo affiancato da due musicisti d’eccezione entrati a far parte stabilmente e con entusiasmo della band: Alessandro Stellano, bassista degli April Fools e turnista di grande esperienza, ed il batterista rock Andrea Stipa che aveva già militato nelle fila dei Mind Key per oltre dieci anni. Il disco viene completato al Cluster Sound Studio di Cuma per la fase di mixing, mentre il mastering viene fatto da Steve Corrao ai Sage Studios di Nashville, Tennessee. A giugno 2013 esce il primo singolo “Free Bird” che raggiunge la posizione numero 3 della Italian Rock Chart di Reverb Nation mentre il videoclip su youtube viene visto nelle prime settimane di pubblicazione da oltre cinquemila utenti singoli. A novembre 2013 dopo l’uscita del secondo singolo “Through The Space And Time”, la band è impegnata in un breve tour in Inghilterra dove tiene un concerto allo storico live club Nambucca di Londra. A gennaio 2014, gli Hangarvain sono al fianco dei DGM, storica formazione progressive metal italiana, nell’ambito del Music Against Festival al Duel Beat di Napoli. A maggio 2014, anticipato dal nuovo singolo Get On, esce “Best Ride Horse”, primo disco ufficiale della band pubblicato per Red Cat/Audioglobe e disponibile in tutti i negozi di dischi e nei principali store digitali. Per l’autunno 2014 è prevista la pubblicazione in Europa.

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Banana Mayor – Zombie’s Revenge

Written by Recensioni

Dopo anni di attività live, i baresi danno alla luce il loro primo EP autoprodotto.
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Islands, il nuovo album dei Verily So

Written by Senza categoria

Si chiama Islands il comeback dei toscani Verily So, band Shoegaze, Slowcore in uscita il 3 giugno per V4V-Records e W//M a distanza di tre anni dal loro esordio self titled che riscontrò un grandissimo successo di pubblico e critica.
Dalle sonorità più compatte e Shoegaze, Islands arriva al termine di un periodo che ha visto i singoli membri della band dedicarsi a progetti paralleli (Luca ha dato vita a Barrens, Simone a Small Giant e Marialaura ha scritto canzoni per un progetto di prossima pubblicazione) e l’ingresso nella formazione di Antonio Laudazi (Orhorho) alla batteria. Il concept, non cercato, è quello dell’incomunicabilità: da qui Islands, sinonimo lampante di lembi di terra alla deriva, ognuno per sè. Islands è il primo disco dei Verily So scritto ed arrangiato interamente dalla band al completo ed il suono è il frutto delle lunghe sessioni in sala prove: più distorto, Wave, Shoegaze, un panorama che sacrifica all’altare del feedback l’aspetto più Folk del progetto.

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Trophy Scars – Holy Vacants

Written by Recensioni

Per la band del New Jersey, la ricerca del sound perfetto, almeno secondo il punto di vista dei quattro, sembra finalmente aver portato a una meta che rispecchi le più rosee attese e, se non si può certo definire questo Holy Vacants un punto di arrivo, per i Trophy Scars si tratta comunque del luogo più alto di un’intera carriera. Holy Vacants aggredisce e miscela temi che vanno dalla mitologia, alle antiche religioni, passando per le più inquietanti teorie della cospirazione sul gene dei Nefiliti (popolo nato dall’incrocio tra figli di Dio e figlie degli uomini, citato nella Torah e non solo). Le parole sono prese a prestito dagli scritti di Jerry Jones, voce della band, il quale racconta la storia di due amanti che non solo hanno scoperto che il sangue degli angeli contiene la fonte della giovinezza, ma anche la formula del Qeres, antico profumo egiziano usato per la mummificazione e che è l’unica sostanza mortale per angeli e Nefiliti.  Se la narrazione muove attraverso queste vicende quasi come fosse un romanzo, da tenere d’occhio è sempre la natura metaforica dell’opera, che vuole sostenere i temi dell’idealizzazione della giovinezza, la perdita dell’identità e l’innocenza corrotta. Come indica lo stesso Jerry Jones, l’album è stato un modo per esorcizzare una persona dalla mente e dall’anima.

Holy Vacants doveva essere anche l’ultimo della formazione nata poco più di dieci anni fa a Morristown ma il valore raggiunto sembra lasciare aperti spiragli per una nuova vita. Blues Psichedelico che in realtà si muove attraverso le strade più disparate di Post Hardcore, Rock Alternativo, Prog e Screamo, creando un andirivieni stilistico che lascia senza fiato, per intensità ed efficacia. Eccezionale l’uso della voce e la timbrica inquietante di Jerry Jones che spinge attraverso una sezione ritmica prestante ma non invadente, chitarre che riescono a mostrarsi in tutta la loro bellezza esteriore al momento confacente, con brevi assoli polverosi e caldi che non disturbano l’incedere del sound. Oltre alla strumentazione classica, e l’uso di piano, organo e Moog, eccelso l’uso di tromba (Taylor Mandel), trombone (Caleb Rumley) viole, violini e violoncello (David Rimelis) e quant’altro che s’inseriscono quasi come ombre, come fantasmi, come angeli dentro la musica aiutando l’ascoltatore a immergersi in un mondo incredibile e fuori dal tempo. Le esplosioni Hard Rock non sono mai anacronistiche, anche se convincono molto di più i crescendo chitarristici (“Extant”) i passaggi più pulsanti e sostenuti (“Qeres”) e i Blues strazianti e poderosi (“Archangel”, “Hagiophobia”, Everything Disappearing”). Quasi dal sapore Industrial Stoner alcuni brani come “Burning Mirror” ma il meglio deve ancora venire e si manifesta nella seconda parte del disco, quando una “Chicago Typewriter” degna dei migliori Mars Volta, anticipa la sensazionale doppietta “Vertigo” / “Gutted”, che mette in scena un dualismo che sembra riassumere alla perfezione ogni cosa legata a tutto Holy Vacants. Per non farsi mancare nulla, l’album ci regala anche perle di semplice e orecchiabile Alt Rock moderno e vintage al tempo stesso nella forma e nel sound (“Every City, Vacant”) per poi chiudersi nell’eterea, quasi Dream Folk “Nyctophobia”, cantata dalla bravissima Gabrielle Maya Abramson, solo uno dei tanti ospiti di questo Holy Vacants. Dobbiamo infatti ricordare oltre ai cori, la voce extra di Adam Fischer in “Chicago Typewriter”, quella di Reese Van Riper in “Guttered” e di Desiree Saetia nella stessa e in “Crystallophobia”. Holy Vacants è un concept album che avrebbe dovuto raccontare la fine di una grande band forse troppo spesso ignorata e che invece suggerisce una strada buia e tenebrosa ma illuminata dalla speranza. Un concept che racconta una storia apparentemente lontana dalle vicende umane dell’uomo moderno ma che, in realtà, scava nell’interno della sua psiche, aiutando una catarsi necessaria per accettare le condizioni dell’esistenza senza alcuna paura verso l’ignoto.

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La Noia Collettiva: La compilation di beneficenza [STREAMING]

Written by Anteprime

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Il collettivo artistico La Noia traccia un primo report dell’iniziativa benefica “La Noia Collettiva”, la compilation che ospita al suo interno tanti nomi della scena musicale indipendente italiana (tra cui: Tre Allegri Ragazzi Morti, Linea 77, Giorgio Canali, Nobraino e Management del Dolore Post-Operatorio) con il fine di raccogliere fondi per importanti interventi in Burkina Faso. Un’idea avviata nel dicembre 2013 e che oggi si accresce con nuovi importanti partner: Audiocoop, l’associazione di categoria rivolta a discografici, editori, produttori indipendenti ed artisti, Produzioni dal Basso, tra le principali piattaforme di crowdfunding in Italia, e due importanti webzine d’informazione culturale e musicale: Rockambula e Radiocorsara. La compilation di beneficenza sarà inoltre presentata in occasione del prossimo MEI 2014 (Meeting delle etichette indipendenti, 26 – 27 – 28 settembre, Faenza).

Produzioni dal Basso

Report sull’andamento della compilation

 

1. Don Vito e i Veleno – La vita è un videogame (I)
2. Tre Allegri Ragazzi Morti – La tatuata bella (E)
3. Management del dolore Post Operatorio – La Pasticca Blu (E)
4. Laika Vendetta – Le tue fobie (I)
5. Giorgio Canali – Rossocome (E)
6. Dieci Unità Sonanti – Con tutta calma (I)
7. Kutso – Via dal Mondo (E)
8. Majakovich – Giro di vite (E cover)
9. Giovanni Truppi – 19 Gennaio (E)
10. Nobraino – Le leggi del mercato universale (E)
11. Ilenia Volpe – Preghiera (E)
12. Gabriele Deriu – Carcasse (I)
13. Sikitikis – Hey tu! (E)
14. Alcova – Adelheid (I)
15. Linea 77 – Un uomo in meno (E)
16. At The Weekends – Eastern Lights (E)
17. The Cyborgs – My sharona (E – cover)
18. Train to roots – Mommy’s Boy Gangsta (I)
19. Cosmetic – La cura (demo version) (R )
20. Unorsominore – Ci hanno preso tutto (E)
21. Adji – Pleure d’une femme (E)

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Sophya Baccini

Written by Interviste

Un artista dalle mille sfumature, una musicista degna di nota e piena d’inventiva, Sophya Baccini è colei che personalmente reputo la Regina dell’ Underground tricolore. Completa su tutti i fronti, abbiamo l’onore di ospitare sulle pagine di Rockambula questa icona del Prog. Tra una chiacchiera e l’altra siamo riusciti a strappare qualche informazione che riguarda lei, i suoi Presence e l’ ultimo disco che ha sfornato da solista con gli Aradia intitolato Big Red Dragon.

Sophya, tanto per cominciare che ne diresti di presentarti a qualche nostro lettore meno informato?

Sophya Baccini, cantante, pianista, autrice dei testi, compositrice. Carriera più che ventennale, una passione che è diventata un lavoro. Ho cominciato con lo studio del pianoforte e del canto, poi ho fatto alcune tournèe come vocalist al seguito di cantanti italiani. Dopo qualche anno ho sentito l’esigenza di dedicarmi alla “mia” musica, ed ho fondato i Presence, gruppo di Metal sinfonico con forti influenze Dark con cui ho pubblicato dal 1990 al 2008 sei dischi in studio ed uno dal vivo, prodotti dalla Black Widow di Genova. La prima cantante, dicono, a creare una commistione tra il Metal, il Dark e l’Opera Lrica, le mie tre grandi passioni. Due dischi come solista all’attivo, Aradìa del 2009 e Big Red Dragon, che è appena uscito. Molti dischi dei Presence, e BRD, sono stati stampati anche in vinile. In occasione dell’uscita del IV dei Presence, Black Opera, sono stata votata, bontà loro, la quarta miglior voce Rock femminile al mondo. Ho fatto dischi con l’orchestra (The Sleeper Awakes dei Presence) ed ho collaborato con tanti gruppi e cantanti della scena Rock e Prog, quali Delirium, Osanna, Banco, New Trolls, ed ultimamente per BRD Christian Decamps, (dei francesi Ange) Sonja Kristina, (Curved Air, che vedeva alla batteria Stewart Copeland dei Police) Steve Sylvester, Roberto Tiranti, Aurelio Fierro jr., Lino ed Irvin Vairetti. Mi piace sperimentare, fare quello che non è mai stato fatto, ma senza finire nella trappola della musica astrusa o incomprensibile.

Sei inserita nel campo musicale in diversi settori con collaborazioni che spaziano da artisti Underground a quelli più noti che addirittura hanno partecipato al Festival di Sanremo. Attraverso la tua ventennale esperienza cosa pensi che manchi ai gruppi o agli artisti meno conosciuti per aver l’ occasione di avere più visibilità e più notorietà? E soprattutto noti una differenza “artistica” nelle canzoni o nei lavori di un artista Underground rispetto ad uno famoso?

E’ sparita la musica dalla televisione innanzi tutto, parlo della musica suonata dal vivo, non ovviamente dei canali tematici che trasmettono video e cose del genere. Sono spariti i generi alternativi dalle radio. Oggi un’emittente a diffusione nazionale o quasi, un network, ti chiede cifre impossibili per trasmettere le canzoni, cifre che soltanto una major può permettersi. Il risultato è che i pezzi che girano sono sempre gli stessi, e l’appiattimento che ne deriva, per chi ha voglia di buona musica, è quasi deprimente. Sono spariti i disc-jockey coraggiosi che pescano nel mondo alternativo e ti fanno ascoltare qualcosa di nuovo e di estraneo al mondo commerciale, ma magari commerciabile! Quando succede, sono sempre artisti stranieri, questo sia perché le major sono ormai quasi tutte straniere, sia per una certa sudditanza che abbiamo noi italiani verso tutto ciò che proviene dall’estero. Peccato, perché la differenza artistica è abissale. C’è tanta spazzatura nell’undeground, c’è anche un’offerta esagerata, ma ci sono anche tante cose bellissime, a volte autentiche perle che andrebbero valorizzate dando una bella spinta e una boccata di ossigeno ai nostri musicisti.

Big Red Dragon è il titolo del tuo nuovo disco che vanta della collaborazione di diversi esponenti della scena Heavy nostrana. Come mai la scelta di queste special guest?

BRD è un disco dedicato alla figura di William Blake, che come sai è stato un vero genio multiforme, pittore, poeta, filosofo, ideologo, inventore. Precursore del Romanticismo, vissuto alla fine del 1700, importantissimo per tutta la cultura Rock e non solo. Stranamente, a parte qualche omaggio isolato tipo copertine o canzoni, non esisteva finora un lavoro incentrato completamente su di lui. Io mi sono concentrata sui suoi lavori pittorici, ho scelto 11 quadri tra la sua immensa produzione e per ognuno ho scritto un pezzo. Quando ho deciso la tematica, ho pensato anche che un argomento così importante meritava degli interpreti altrettanto eccezionali, così sono andata da Massimo (della Black Widow) e gli ho fatto un elenco di “desideri”.. Lui ha accettato la proposta, ha rintracciato tutti e ci ha messi in contatto. Christian Decamps e Sonja Kristina mi sembravano perfetti, uno per la sua voce intensa e malinconica, l’altra per la sua fantastica carriera e il suo timbro unico e dolcissimo. Steve Sylvester era l’unico interprete possibile per un brano come “The Number”, ispirato al quadro della Bestia 666. Stesso discorso per Enrico Iglio, tastierista dei Presence. Loro due insieme lo hanno reso incredibilmente oscuro e potente. Lino ed Irvin Vairetti degli Osanna li conosco ormai da anni, sono innumerevoli le reciproche collaborazioni ed ospitate, ho pensato subito a loro per le parti di Dante e Virgilio ne “La Porta dell’Inferno”. Solo Roberto Tiranti, con la sua estensione illimitata, poteva reggere la tessitura di “Just”. Infine Aurelio Fierro jr., nipote del celebre omonimo nonno, con la sua voce potentissima era l’ideale per cantare la title track, “Big Red Dragon”. Devo dire che tutti hanno accettato con entusiasmo, e mi hanno regalato delle interpretazioni favolose, personali, in una parola uniche.

Insieme a te protagonisti in assoluto in questo nuovo disco sono gli Aradia. Perchè non li presenti al nostro pubblico?

Era sempre stato un mio pallino, un sogno, avere una band al femminile. Per pubblicizzare Aradìa, tra il 2009 e il 2011 avevo fatto alcuni concerti acustici dove c’ero io al pianoforte e voce, Chicco Accetta alla chitarra e Stella Manfredi al violino. Proprio la presenza di Stella, che ho conosciuto tramite Lino Vairetti, mi ha fatto ricordare questo mio desiderio. Tenendo fermo Chicco che per me è inamovibile, ho pensato di affiancare a Stella altre musiciste per questo disco. Ho messo un po’ in giro la voce, e sempre tramite Lino è arrivata Francesca Colaps, la batterista. Giovanissima come Stella – tra l’altro hanno legato subito ed insieme sono incontenibili – si è tuffata nel progetto con una passione ed un entusiasmo favolosi. Lei studia Jazz, quindi il mondo Prog e Dark le era totalmente sconosciuto. Questa cosa mi ha fatto piacere, perché io cercavo proprio un approccio non convenzionale. E’ stata meravigliosa, ha imparato in pochissimo tempo dei brani obiettivamente difficili nelle strutture, ed ha registrato la batteria in studio in pochissimo tempo. L’ho lasciata libera di esprimersi, ho fatto così con tutte loro, perché volevo un gruppo, non dei turnisti. Trovare la tastierista invece è stata un’impresa, quasi avevo rinunciato.. poi una mia allieva di canto mi ha presentato Marilena Striano, ed è stato amore a prima vista. E’ diplomata in pianoforte, quindi ha una base classica che nel Prog è indispensabile, ma ha anche una vastissima esperienza live con gruppi di Pop Rock italiani di fama, cosa che le ha dato uno stile ed un’apertura mentale davvero rari. Ascolta e suona di tutto, dai Pink Floyd ai ZZ Top a Battiato, al commerciale raffinato. E’ suo il pianoforte in Beatrice, che abbiamo registrato dal vivo in sala solo piano e voce. Io le ho dato la linea di canto, e lei ha arrangiato le armonie e le due parti strumentali. Buona la prima! Stella si sta diplomando in violino, e suona anche la viola. Questo suo talento mi ha permesso di arrangiare gli archi come se avessi un’orchestra, e pezzi come “William”, “La Porta dell’Inferno”, “While he’s Sleeping” non sarebbero gli stessi senza di lei. E poi c’è Chicco, che secondo me è il vero valore aggiunto di Big Red Dragon. Suono personalissimo, tocco magistrale, assoli sempre in equilibrio perfetto tra tecnica ed emozione. Particolarmente in “Just” e “Cerberus”, ha suonato in maniera divina! Un bluesman al servizio del Dark e del Metal. Infine, e questa è storia recentissima, da meno di un mese è arrivata Isa Dido, la bassista. Per BRD in studio mi sono occupata io delle linee di basso, che ho suonato con un synth. Ma dal vivo ci serviva un basso vero.. ed ecco Isa. Ce ne ho messo di tempo per trovarla, non mi accontento quando si tratta di musicisti.. lei è perfetta per noi! Brava, colta, carina, innamorata di Jaco Pastorius.

Prima il lavoro con gli Aradia e poi la scelta dell’ ospite d’ eccezione, ma fondamentalmente come sono nati i pezzi, come vi siete mossi?

Ho una piccola attrezzatura qui a casa, che mi consente di registrare e di arrangiare in MIDI i miei brani. Quando ho finito il disco, prima di entrare in studio mi sono resa conto che non volevo fare un altro disco da solista dopo Aradìa, volevo un progetto corale più ampio, un gruppo. Ho cercato gli elementi e quando li ho trovati ho dato ad ognuno di loro le demo senza le loro parti registrate. In questo modo hanno potuto studiare i brani senza farsi influenzare dal mio lavoro, e poi siamo andati in sala a registrare.

Invece dei Presence cosa ci dici, li risentiremo? C’è qualcosa con loro in cantiere?

Stiamo preparando il nuovo disco, sto mettendo le voci sui nuovi pezzi.

Sei napoletana come me, penso perciò che la scena (assente) Hard’n’Heavy partenopea la conosca fin bene anche tu. A parer tuo, cosa credi si debba o si possa fare per farla rivivere o quanto meno crescere l’ affluenza?

La parolina magica è sempre quella: visibilità. Oggi abbiamo il web che ci dà una grossa mano, lo vedo con BRD. Quando è uscito il primo dei Presence, nel 1990, ho speso un patrimonio solo per mandare in giro il disco e farlo conoscere ai critici, alle radio, alle fanzine. Era un’edizione limitata, e se n’è andata quasi tutta in promozionali. Siamo stati fortunati perché siamo entrati in contatto con la Black Widow, altrimenti non saremmo qui a fare oggi quest’intervista, ma per anni l’alternativa che avevo era: spedisco i pacchi o vado in vacanza? La risposta la conosci, ma è stata veramente dura. Anche la sala d’incisione costava tantissimo, mentre oggi ho una piccola attrezzatura qui a casa che mi consente di fare i provini e di abbattere notevolmente i costi. Invece ora, appena è uscito BRD, è bastato mettere l’annuncio sulle mie pagine e qualche pezzo sul canale youtube per vendere subito, e tanto! Una cosa impensabile anche solo 10 anni fa.. Ma in Italia internet non è ancora diffusa a livello capillare. Accanto al web ci vorrebbero le TV libere, le radio. Io accendo la TV e vedo un gruppo sconosciuto che non suona solo musica napoletana, e che mi piace. Magari ho la possibilità di fargli qualche domanda in trasmissione, come fanno quelli della musica napoletana classica, o addirittura i neomelodici, che hanno praticamente monopolizzato lo spazio. So che suonerà in quel locale il tale giorno, me lo vado a vedere. Non ho dovuto fare una ricerca dedicata e laboriosa sul web, cosa che fanno solo quelli che il genere lo conoscono già. Insomma, per non essere più un genere di nicchia, dovremmo finalmente uscire, da questa nicchia.

Del tour cosa puoi dirci, dove suonerai nei prossimi giorni, che date hai fissato?

Ora che il gruppo è al completo, mi sto muovendo per suonare sia in Italia che all’estero. Saremo a Genova sul palco verde del FIM il prossimo 16 maggio, e poi qui a Napoli il 23. Sto chiudendo altre date a Roma e Milano in estate e in autunno.

Sei un artista che stimo tantissimo: coerente, passionale, fedele e piena d’ inventiva, l’ unica vera Regina dell’ Underground. Mi sono sempre chiesto cosa ti ha spinto a restare diciamo cosi di più nell’ ombra dato che di grandi occasioni ne hai avute?

Questa è una bella domanda.. Sì è vero ho avuto e continuo ad avere grandi occasioni, ma mai così grandi da farmi rinunciare a tutto quello che in questi anni ho costruito, con pazienza, con tenacia, con un pizzico di testardaggine. Non sono stupida o inutilmente idealista, non combatto contro i mulini a vento. Se sono qui è perché di buoni risultati, con la mia musica, ne ho avuti. Sicuramente migliori di quelli che avrei ottenuto “vendendomi”, in senso buono ovviamente, alla musica leggera. Questo perché mi ha sempre interessato molto di più la musica che l’apparire. Ho conosciuto tanti colleghi e colleghe che facevano carte false, e avrebbero suonato qualsiasi cosa pur di stare sotto i riflettori. Poi venivano puntualmente scaricati, perché considerati artisti non completi. Adesso fanno altre cose e suonano magari per hobby, mentre io sono ancora qui e pubblico il mio ennesimo album. Non sono prima in classifica? Magari è solo questione di tempo.. No scherzo.. Sai che comunque io lavoro anche in ambiti più commerciali, come arrangiatrice, come corista e vocalist.. beh posso dirti che ultimamente, a causa della crisi che nel settore dello spettacolo è fortissima, sto guadagnando di più con Big Red Dragon, specie da quando è uscito il vinile, che con il resto. Un segno dei tempi? Speriamo!

Bene Sophya l’ intervista si chiude qui, concludi come meglio ti pare…

Saluto tutti i lettori di Rockambula, che ringrazio, e ringrazio te per la visibilità. A chi segue questa musica vorrei dire di dare una piccola chance mentale anche a chi non è diventato famoso negli anni ’70. Le sorprese potrebbero essere fantastiche.. Ciao!

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Bretus – Bretus (Ristampa)

Written by Recensioni

Il Doom proposto in Italia va trattato con i guanti e in maniera particolare in questi ultimi tempi ed il motivo è semplice, almeno per il sottoscritto: la mancanza di band capaci di farti entusiasmare nell’ascolto. Non parlo di una mancanza della scena, di band se ne trovano ma molto spesso (e questo è accaduto a chi scrive) sfociano totalmente nello Sludge, nello Stoner oppure nel Ghothic. Nella nostra penisola se vuoi ascoltare qualcosa di buono devi fare affidamento sempre alle solite band come i Doomraiser, L’Impero Delle Ombre, Thunderstorm o Misantropus per citarne qualcuno dei “vecchi” senza sperare sulle nuove leve. Negli ultimi cinque o sei anni l’unico gruppo che veramente mi ha colpito viene da Napoli e sono i Kill The Easter Rabbit, purtroppo anche loro l’ anno scorso hanno messo fine alla loro storia.

Questa sorta di crisi del Doom in Italia è nota ancor di più grazie a piccoli avvenimenti che messi tutti insieme fanno il punto della situazione. Per esempio una nuova edizione dell’ omonimo dei Bretus uscito nel 2010 e ristampato dalla slovena Doom Cult Records questo 2014 ne è la prova. Il nocciolo della questione è ancora più semplice e banale: è possibile che un genere come questo debba riemergere lentamente attraverso delle ristampe di un certo rilievo come questo lavoro dei Bretus? Ad ogni modo anche se questo andazzo lascia un pò l’amaro in bocca con la riscoperta di queste piccole perle il sorriso potrebbe tornare sulle labbra. L’omonimo in questione che anticipa lo split dei Bretus in uscita prossimamente, contiene cinque tracce di stimato valore, sono all’ incirca venticinque minuti d’ ascolto da mandare giù tutti d’un fiato. Ora che è stato riadattato con le nuove tecnologie il supporto suona decisamente meglio, tutti i particolari che prima potevano sfuggire adesso sono accentuati in maniera egregia. Per questo sarà difficile non notarli nonostante la band abbia cercato comunque di mantenere un suono “primitivo”, provando a mettere d’accordo tutti. Complessivamente l’operato dei Bretus è più che discreto, vi basti ascoltare “Sitting On The Grave”, la traccia d’ apertura, che nel bene o nel male soddisfa anche i guru di vecchia data. Un occhio di riguardo va a “Dark Cloaks” che anche se è la traccia più corta mostra comunque le grandi doti tecniche dei musicisti. Infine è d’ obbligo citare “In Onirica”, una traccia pulsante e baritonale, l’ esecuzione di questa mette a tacere chiunque abbia dubbi sulla bravura dei Bretus. La conclusiva “The Only Truth” chiude il lavoro alla grande. C’è poco da rifletterci su questo piccolo gioiello ristampato, si tratta di uno dei pochi lavori ben riusciti sfornato soprattutto da un gruppo nostrano, perderselo sarebbe un sacrilegio.

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Babbutzi Orkestar – Vodka, Polka & Vina

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Dopo il debut album Babbutzi Orkestar (2009) e Baro Shero (2011), oggi presentiamo sulle pagine di Rockambula Vodka, Polka & Vina (2014), nuova fatica discografica per la Babbutzi Orkestar, folta ed irrequieta compagine nostrana composta da Gabriele Roccato (voce), Ivan Lo Giusto (basso elettrico), Ivan Padovani (tromba), Massimo Piredda (tromba), Luca Butturini (chitarra/ mandolino/bouzouki), Mariella Sanvito (violino), Daniele Di Marco (fisarmonica/tastiera/ sintetizzatore) e Fabio Buono (batteria). L’ensemble in questione ama presentarsi come fautrice di una Balkan Sexy Music, sulla scia di Bratsch, Acquaragia Drom, Goran Bregovic e Kusturica; definizione piuttosto azzeccata, dal momento che le sonorità proposte spaziano agevolmente dal classico sound Balcanico al Punk, passando per il Folk, la Patchanka e le radici più intransigenti della Surf Music. Un viaggio alcolico dalle maleodoranti cantine serbe agli affollati mercati d’Israele, dalle maestose profondità del mar baltico alle languide terre orientali, dove ammalianti gitane agitano le proprie forme tra carovane in perenne ricerca di staticità, rischiarate da luci e colori che solo una dimora errante può offrire. Rispetto ai precedenti lavori, Vodka, Polka & Vina (prodotto dallo sperimentato Antonio Polidoro con l’ausilio di strumentazione rigorosamente vintage) segna tuttavia un indiscutibile cambio di rotta, privilegiando sonorità maggiormente orientate verso Surf, Punk Rock ed Elettronica (particolarmente evidente nelle partiture di synth), pur rimanendo saldamente ancorato a classici elementi d’ispirazione balcanica: passioni infinite, quasi al limite della più estrema follia, febbricitanti visioni autodistruttive e blasfema contemplazione della figura femminile (vedi “The Song of Arrapath”, ad esempio). Un album architettonicamente “live”, energico e possente come le vorticose performance del collettivo; un appassionante progetto concepito sulla polvere del palcoscenico, consacrato dal sudore della fronte e dall’indissolubile rapporto con un pubblico licenzioso ed esigente. Da segnalare la geniale rivisitazione dell’italico evergreen “Buonasera Signorina” (Fred Buscaglione, 1958).

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culiduri – Ci Hanno Rubato il Disagio

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Una band dal nome altamente discutibile. Nasce a Padova il trio culiduri, dall’incontro fra Il Signorino, Il Disagio e Il Conte (così si fanno chiamare). Una formazione inconsueta: basso, voce e batteria. Una musica di cui dirò nelle prossime righe. Ci Hanno Rubato il Disagio è un EP che in circa dieci minuti riesce ad esibire una tracklist di ben cinque capitoli, il che conduce, attraverso un banale calcolo, a stimare una durata media dei brani pari a due minuti. Tuttavia, abbiamo un outlier: “Il Germe si Lamenta del Mondo”, traccia numero quattro, che vanta ben 2’34’’ di impegno. Ma noi, attenti e crudeli recensori, non badiamo a queste cose ed in presenza di scarsa quantità puntiamo dritti alla qualità dell’opera. Premessa: la musica Post Punk mi garba; la musica Post Hardcore mi garba ancor più. Ma veniamo a noi… L’extended play realizzato dai ragazzi padovani propone un titolo altamente interessante ed una copertina hardcore al punto giusto. Tutto sembra iniziare per il meglio e mi fiondo sulla traccia numero uno: “Tonietta”. Non mi è ben chiaro se si tratti di una blasfemia celata o di una sofisticata critica alla di certo più nota Maria Antonietta, ma in entrambi i casi i tre ragazzi padovani hanno scelto un’apertura che lascia alquanto spiazzati. Non che io mi scandalizzi innanzi a tali situazioni (no di certo!), ma il ripetere instancabilmente la stessa frase funziona solo se la frase stessa funziona. Mi spiego meglio: sai che c’è? Ti dico una bugia! Se fai la spia sei figlio di Maria (Tonietta) è un esempio lampante di frase che non funziona. Vero, la storia della ripetitività è classica del genere (e di questo i ragazzi abusano un po’ in tutto l’EP), ma vorrei che in testa mi entrasse un messaggio e non una frase da cui estrarre qualcosa di utile proprio non mi riesce. Ma noi non siamo mica così superficiali! Andiamo avanti e ci concentriamo sul resto del testo e dello strumentale, che riporta i nostri ricordi ai tempi in cui, nel garage di Peppe, io mi mettevo alla batteria, lui alla chitarra ed improvvisavamo pezzi stonati fino all’arrivo delle luci blu. Se è vero che non ci è concessa una seconda possibilità di fare una straordinaria prima impressione, è pur vero che non ho pregiudizi e passo al brano numero due: “Super Perfetto”. Questo sembra un brano seriamente funzionante! Autocritica alternata fra canto e parlato che ci dona una gran bella carica e ci gasa al punto giusto per dire “Ok! Mi ero sbagliato! ‘sti culiduri sanno quel che fanno!”. Nei limiti artistici imposti dal genere, la suddetta traccia è senza dubbio uno sfogo interessante e degno di pogo. Un capitolo messo lì per far saltare la gente e divertire…e ci riesce bene! Anche il testo sa il fatto suo: critico, interessante, si fa ben seguire. Bella, la prossima me la sento buona. Tuttavia, “Finestre” è un pezzo che definirei ambiguo. Sono a quota cinque ascolti e non riesco ancora a capire se è un buon pezzo o se segue la scia di “Tonietta”. Ma non voglio credere che la precedente traccia sia un caso isolato, così mi concentro e scopro un giro di basso di notevole spessore. Isolo la voce e ritorno per un attimo indietro negli anni, alla ricerca di una band che mi ricordi tale sound, ma il ritornello incalza, mi distrae e mi spiazza. Il basso si adagia su una distorsione eccessiva, la cassa fa vento e crolla il mio castello di carte. Per un attimo avevo pensato ai Tre Allegri Ragazzi Morti. Peccato. Chiudiamo un occhio e dedichiamoci al precedentemente definito outlier. Ora definibile delusione. L’apertura incuriosisce e, una volta accettata l’idea che i testi siano messi lì tanto per riempire spazio, si riesce a percepire uno strumentale ben pensato crescere lentamente e donare ottime aspettative all’ascoltatore. Il basso, incredibilmente lavorato, si articola in un giro perfettamente orecchiabile, accompagnato da una batteria tutt’altro che prepotente. Ops, è saltato il disco e adesso graffia di brutto. Ah no, è solo il ritornello. Ultima chance per i ragazzotti in questione. Bruciata. La quinta ed ultima traccia spegne ogni possibile speranza, riproponendo un testo noioso e ripetitivo ed un sound che in nessun frame cattura la mia attenzione.

Via le cuffie, è ora di tirare le somme. Disse J-Ax che il rap è come il porno: ci nasci. Io non voglio essere così drastico e dico che il genere oggetto di analisi sia un genere arrivabile; pertanto scartiamo la possibilità che il problema dei culiduri sia il genere. L’assenza di chitarra è certamente una trovata interessante, che non di certo condanna, anzi, genera un buon numero di apprezzamenti. La voce calza perfettamente su un sound così crudo come quello generato da un basso portante. Il problema allora dove sta? Beh, il problema sta nel fatto che a me ‘sti tre ragazzi hanno trasmesso voglia di far casino e non voglia di far musica. E se è vero che il Punk è anche far casino, è pur vero che la musica è anche il trasmettere un messaggio. Isolare i testi infantili alla ricerca di note positive è stato quasi snervante. Le note ricercate le ho trovate, ma sulla bilancia pesano poco più della copertina e del titolo dell’EP. Si consigliano maggiore impegno nel realizzare omogeneità all’interno delle singole canzoni e più attenzione per i testi; si consiglia, inoltre, di lavorare sulla totalità della traccia e non di limitarsi ad un’intro funzionante. E se in giro si vanta la rapidità con cui è stata tirata fuori “Tonietta” (soli due giorni, dicono), io questa rapidità la percepisco nella sua accezione negativa. Han citofonato! Lascio un biglietto sul tavolo e vado via: “Ritenta, sarai più fortunato”.

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