Tool Tag Archive

Tritonica – Disforia [STREAMING]

Written by Anteprime

Disforia è il nuovo lavoro dei Tritonica, bolscevica e stakanovista band nata a Roma nel 2016 dalla comune passione di tre studenti universitari per la sfera musicale sludge/grunge, stoner e progressive rock/metal.

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‘Chi suona stasera?’ – Guida alla musica live di ottobre 2017

Written by Eventi

Godspeed You! Black Emperor, Klimt 1918, Melvins, The Dream Syndicate… Tutti i live da non perdere questo mese secondo Rockambula.

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Zirkus der Zeit – A Shape in the Void

Written by Recensioni

Probabilmente, tra l’infinità di dischi che ho avuto il piacere di ascoltare negli ultimi mesi, nessuno come questo A Shape in the Void dei liguri Zirkus der Zeit è riuscito a mettermi nella stessa condizione di difficoltà valutativa.

Partiamo dalle prime impressioni e da quei fattori che servono poi a costruirsi un’iniziale opinione; cominciamo da quegli elementi congegnati dal duo e che, inevitabilmente, vogliono innalzare l’asticella del nostro interesse. Un nome in tedesco che significa Il Circo del Tempo; due membri di sesso opposto rintanati sotto gli pseudonimi di V e Z; un album dal titolo in inglese che si traduce in una forma nel vuoto; un artwork minimale, oscuro e accattivante; una foto/disegno che ritrae V e Z in una posa che ricorda un’altra coppia che, come vedremo, è da considerare punto di riferimento dei nostri Zirkus der Zeit. Se l’intento era di rapire la nostra attenzione, ci sono riusciti; quello che resta è andare al sodo con l’ascolto e qui iniziano i dubbi. Tanta “solennità” inizia a sciogliersi col passare dei minuti e la prima cosa che viene voglia di fare è incazzarsi per una sorta di tradimento artistico ma poi subentra la serietà di chi è chiamato a descrivere qualcosa che probabilmente non conoscete (nonostante sia il secondo album) e non avete ancora ascoltato. Quello in cui certamente riesce il duo è, prima di tutto, creare un immaginario che coinvolga reminiscenze che superano la sola musica e fornire elementi per fantasticare e viaggiare nello spazio e nel tempo, nel passato e nel futuro, dentro e fuori i confini del mondo. Quello che colpisce è sicuramente il coraggio, soprattutto di V che crea trame soniche complesse, articolate, dalle continue variazioni e sicuramente non consone alle più ovvie produzioni nostrane. Quello che, invece, diventa il punto debole dell’opera è, prima di tutto la voce di Z, la quale, sopra tappeti sonori contorti e oscuri, prova a fare sfoggio di muscoli ma non regge il peso con la sua timbrica mediocre e una tecnica non proprio fuori dal comune.

Eppure non è solo lei a non convincere perché, se è vero che di V possiamo apprezzarne il coraggio (del resto, in Italia essere coraggiosi, nel senso di diversi non è poi cosa di troppo sforzo) non possiamo dire altrettanto degli arrangiamenti e del sound nel suo complesso, che da più parti si vuol far ricondurre a influenze di prestigio quali NIN, King Crimson, Tool addirittura, ma che in realtà, finisce per forgiare solo una copia non troppo riuscita dei Dresden Dolls in chiave Rock. Sono proprio loro il punto di riferimento principale, o almeno l’accostamento più opportuno, nonostante mai citato a quanto pare, per i nostri Zirkus der Zeit, soprattutto nelle sessioni di piano/voce che sono poi anche le più interessanti. Proprio come la band di Boston capitanata da Amanda Palmer, i liguri lavorano su atmosfere cinematografiche noir, su sonorità da Dark Cabaret, su immagini nostalgiche come sbiadite foto in bianco e nero, alternando poi Piano Rock e un banale Alternative Rock misto a Prog e Metal senza vera convinzione ma che finisce per essere l’unica vera variante notevole dal più noto e già citato duo.

Se dunque la fortuna del duo americano è da ricondursi alla creazione di questo varietà grottesco e circense da Belle Epoque, non si può dire lo stesso di chi cerca di imitarne all’eccesso lo stile e se i primi hanno avuto non solo la capacità di essere primi e diversi ma anche di produrre brani eccelsi e immortali, unendo sensibilità e divertissement ad arrangiamenti notevoli e una voce incantevole e intensa, gli italiani non riescono a colpire nello stesso modo, riducendo il tutto a una sorta d’imitazione basilare che vorrebbe forgiarsi di derivazioni più complesse senza riuscirci.
Detto questo, sembrerebbe ovvia una bocciatura per il secondo album dei Zirkus der Zeit, ma da qui i dubbi palesati all’inizio. A Shape in the Void è come un tema copiato dal primo della classe ma un tema ben scritto, con qualche spunto interessante e comunque diverso dalle banalità di quattro asini che si scopiazzano tra loro senza riuscire a mettere insieme un pensiero decente. Dunque, dopo una serie innumerevole di ascolti, non posso che promuovere il duo, se non altro perché hanno tutte le potenzialità per andare ben oltre quei limiti. L’importante sarebbe iniziare a essere davvero se stessi e partendo da questo presupposto si potrebbe veramente capirne il valore. Avvolgere i Dresden Dolls di fumo e veli neri, di schitarrate e ritmiche pesanti e contorte, non può bastare.

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Fabrizio Broda (Il Pensiero Sarà un Suono) | Intervista

Written by Interviste

Annot Rhul – Leviathan

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Ebbene, Annot Rhul, la creatura del polistrumentalista Sigurd Luhr Tonna, si è concretizzata, ha avuto la sua benedizione ed è pronta a far sognare. Tonna sforna Leviathan, un disco dalle varie sfumature che a tratti omaggia gli Anathema, a tratti pilastri come i Tool, i Goblin o i Porcupine Tree. Anche questo è un lavoro che solo una label come la mastodontica Black Widow Records poteva promuovere. Parliamo di un disco che è capace di far viaggiare e creare sottili momenti di riflessione attraverso le sue soavi atmosfere. E’ un lavoro a tinte Ambient, Gothic e Progressive.  Leviathan  è di facile ascolto, riesce a trascinarti con la mente in posti bui ma candidi al tempo stesso: un cielo stellato, un bosco ricoperto da lucciole o un mare tagliato a metà dal riflesso della luna. Sono pratici esempi dell’ espressione del disco: il connubio tra luce ed oscurità. La tecnica di Tonna è invidiabile sia sugli strumenti che sui missaggi e le registrazioni. Leviathan si ispira ai lavori di H. P. Lovecraft e con molta probabilità l’ operato del chitarrista/tastierista norvegese potrebbe fare da colonna sonora dei racconti del grande scrittore. Il disco si poggia molto sui giochi delle tastiere e non a caso queste ultime hanno un ruolo importantissimo se non principale. Ci sono gli elementi giusti per un sound che dal Prog passa allo Psichedelico e al Gothic in stile Goblin. Un buon lavoro è stato svolto anche per l’ artwork  molto suggestivo e particolare. Non solo è bella l’ immagine ma anche i colori adoperati che rappresentano al meglio la musica di Annot Rhul. E’ un disco che va assolutamente ascoltato e sono sicuro che piacerà perchè l’ operato di Tonna è davvero impeccabile.

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Fractal Reverb – How to Overcome the Ego Mind

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Scoperti per caso, i lodigiani Fractal Reverb hanno saputo stupirmi con il loro demo homemade How to Overcome the Ego Mind, un disco di nove tracce di varia origine (home studio, prove live, unplugged, ecc.) che raccoglie alcune canzoni del trio in attesa del loro esordio sulla lunga distanza. I Fractal Reverb mettono insieme in modo molto fresco e incauto un mood Grunge, lineare e ruvido, e strutture Math Rock dai tempi spezzati e dai minutaggi infiniti, con un gusto Post Rock nel riempire i vuoti con effetti ossessivi e chitarre precise e frizzanti, sempre nel punto giusto, con un’attenzione curata alle dinamiche e ai movimenti onirici à la Tool, sebbene con molta più melodia, cosa che li rende potenzialmente accessibili anche alle orecchie più sensibili. Gli arrangiamenti sono sorprendentemente attenti agli incroci tra gli strumenti (il basso è usato in modo semplice ma arguto, la chitarra, già si diceva, è sempre nel posto giusto, la batteria non esagera in complicati virtuosismi ma sa ritagliarsi il suo spazio con facilità). Il tutto condito con una voce femminile che però non è eccessivamente delicata, e che quando è effettata e bagnata di riverberi e delay accompagna gli strumenti senza distogliere dall’atmosfera cupa e psichedelica dei brani.

Arriviamo ai lati negativi del lavoro: la parte tecnica è senza dubbio da migliorare, ma ricordiamoci che si tratta di un demo, con tracce dalle origini più disparate. Al di là del sound della registrazione, si notano comunque sbavature e ingenuità, dall’errore d’entrata della batteria alla voce non sempre al massimo dell’intenzione, dai suoni di chitarra che possono essere migliorati a strutture che possono essere asciugate o comunque affilate, trasformando le canzoni, dai patchwork che sono ora, in opere magre, taglienti, che non lascino via di scampo, magari abbandonando le atmosfere più propriamente grungy (“Dystonic Wave”) per più folli (e interessanti) cavalcate oscure e penetranti alla Kubark (“Spleen”, “Natural Sounds”).

Insomma, c’è tanto da aggiustare e da calibrare nel lavoro dei Fractal Reverb, ma mi pare di sentire in sottofondo un’anima luminosa, un guizzo di gusto che non lascia indifferenti, e che, con il giusto sforzo, potrebbe portare la band in direzioni molto, molto interessanti. Sono dell’idea che band del genere, band dove si può indovinare qualcosa di più oltre l’errore tecnico o la resa sonora, siano band da supportare, non alla cieca, ma spronandole a levarsi di dosso le sporcizie dell’immaturità per levigarsi la pelle alla ricerca dello splendore sotterraneo che, forse, nascondono. I Fractal Reverb sono una scommessa, dipende da loro quanto vincente. Io aspetto, con curiosità e un po’ d’apprensione, la loro prossima fatica.

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Airportman – David

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Io non so cosa abbia potuto spingere gli Airportman a pubblicare un album del genere e a volerlo far girare in web e in copia fisica se non, forse, perchè almeno l’idea di base è davvero molto intrigante e interessante. David è il frutto di varie take di improvvisazioni che compongono le sei tracce del CD, completato da un book dove si trovano vari scritti riguardanti “il fantomatico David”, ma sinceramente non si capisce né dove bisogna iniziare a leggerlo e né tanto meno dove finisca. Il proposito dovrebbe essere quella di ascoltare ogni brano leggendo il book ma siamo qui a parlare di musica, è questo che conta più di ogni altra cosa e la musica sarà valutata prima che il resto. A tal proposito, ammetto di non aver avuto il coraggio di ascoltarlo più di due volte e a distanza di una settimana l’una dall’altra, perché questo è davvero un prodotto inquietante, noioso e piatto. Le take alternano tracce di chitarra, batteria, basso e  pianoforte più vari lead synth e pad, e sono proprio questi ultimi ad aprire l’album. C’è da dire che non sono utilizzati male, buona la scelta dei suoni e ottimo l’accostamento corale che ne viene fatto; la chitarra invece è priva di qualsiasi senso, a parte per un piccolo riff sulla “Traccia 3” che mi ricorda “Lateralus” dei Tool, anche se non per la somiglianza nelle corde; il pianoforte è monotono e ansiolitico, punta molto sulle note alte e anche in questo caso ha avuto rilevanza solo in una piccola chiusura; la batteria la si sente davvero pochissimo e quando attacca pare dare un po’ di speranza al brano, ma è mera illusione pronta a deludere di lì a poco; il basso..beh, quasi mi viene il dubbio che non ci sia davvero un basso, molto nascosto come è dietro i pad e la chitarra, ma per quel poco che si riesce a captare non sarebbe affatto male se spostato in primo piano. Inoltre, sembrerebbe che il primo ed il secondo brano, così come il terzo con il quarto, siano accomunati, come formassero tra loro una sola traccia divisa in due; il punto è che l’eventuale divisione è stata fatta senza un criterio tanto che se ascoltassimo solo il primo o solo il terzo pezzo resteremmo turbati da una chiusura improvvisa, tagli netti all’ascolto che disturbano non poco; allo stesso modo e per lo stesso motivo anche le aperture del secondo e del quarto pezzo risultano fastidiose, in quanto repentine e di cattivo gusto. Nel complesso è un lavoro studiato per catturare l’ascoltatore e farlo immergere nella sua complessità; il cd va ascoltato senza interruzioni provando ad accompagnare l’ascolto con la lettura del book eppure non è opera che suggerirei a nessuno, anzi, la sconsiglierei vivamente a chi è soggetto al cattivo umore, all’apatia e alla depressione. L’unico punto a favore, la sola nota positiva è per il sound adottato fatto di timbri caldi e intensi; per il resto è poco più di un tre pieno.

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Anubis – Hitchhiking to Byzantium

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Se qualcuno dovesse porvi la domanda, stupida a dire il vero, su quale sia, a vostro avviso, il genere, lo stile musicale che più incarna l’idea di vetusto, cosa vi sentireste di rispondere? Non ho dubbi che il principale indiziato sia il Progressive ed è abbastanza chiaro anche il motivo di tale scelta. Il Rock Progressivo ha, del resto, già nelle sue fondamenta qualcosa di maturo, serioso, poiché voleva essere lo strumento per dare un valore più alto alla musica Rock. I testi e i brani erano complessi, lunghi, articolati e tecnici e non certo adatti a un pubblico grezzo, impreparato e proprio questa lacuna divenne l’arma principale di diffusione del Punk Rock, che, al contrario si basava su velocità, aggressività, semplicità. Con l’avvento del Punk, fu questo, con tutte le sue evoluzioni future, a incarnare l’archetipo di stile “giovane” e, man mano, il Prog divenne la risposta all’insulsa questione che trovate a inizio articolo. Eppure, ci sono band che sono riuscite negli ultimi anni, a rielaborare le lezioni del Progressive tornando a suonarlo non solo per un pubblico di esperti e “anziani” ascoltatori ma anche per le più fresche generazioni. Ovviamente, questo processo è necessariamente passato per le più disparate contaminazioni che ne hanno modificato sia la parte formale sia quella sostanziale, ma è indubbio che quanto fatto da band come i Marillion negli anni 80, i Porcupine Tree il decennio seguente e Tool o The Mars Volta all’inizio del nuovo millennio, è qualcosa di sensazionale.

In tale ambiente, s’inseriscono con cautela gli australiani Anubis, a dire il vero mai veramente capaci di imporre il proprio marchio a un pubblico anche solo moderatamente più ampio e che, con questo Hitchhiking to Byzantium spostano un poco indietro quel processo di rinnovamento del genere di cui abbiamo parlato. Cerchiamo di capirci, non si tratta certo di un lavoro mediocre o di scarso valore, anzi, probabilmente è questo il migliore dei dischi della band capitanata da Robert James Moulding e gli appassionati non dovrebbero certo lasciarsi sfuggire quest’uscita ma il punto è che tanta “classicità” in un disco Prog rischia di diventare un’autorete in pieno recupero, se mi passate la metafora calcistica. La principale novità rispetto alle opere precedenti sta nelle liriche e nella sua composizione. Non più affidate al solo Robert James Moulding ma ora lavoro di tutti i membri della band e quindi non più un unico fluire narrativo ma un insieme di diverse tematiche ed esperienze.  Musicalmente nessuna novità, brani lunghi, epici, accenni di psichedelia, note di piano che fanno da sfondo agli assoli notevoli ma non eccessivamente sopra le righe. Tutto suonato alla perfezione, tanto che non ci sono dubbi che questo Hitchhiking to Byzantium possa essere annoverato tra le migliore uscite Neo Prog dell’ultimo decennio, almeno se a stilare un’eventuale classifica fossero fanatici di quel genere. Il problema è che io non lo sono, o meglio ho uno spettro di ascolti più ampio di qualunque tipo di fanatico ed ho interesse a che un album non sia solo di pregevole fattura ma possa anche rappresentare un passo avanti rispetto al passato, specie quando si tratta di musica che nella sua stessa definizione ha il nemico pubblico numero uno.

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InSonar/Nichelodeon – UKIYOE (Mondi Fluttuanti)

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Ogni volta che ci si prepara all’ascolto di qualcosa che sia stato forgiato dalla feconda e geniale mente di Claudio Milano, il sole della galassia InSonar/Nichelodeon, si ha sempre un po’ di riverente riguardo che non spinge istintivamente a pigiare il tasto play per far decollare le sue note. Sai che quello che ti aspetta sarà un lungo viaggio, intenso e profondo che ti travolgerà, volente o nolente, in un’esperienza che solo alla fine capirai in che misura incantevole, sulla base di quanto ti sentirai una persona migliore o meno. Serve del tempo per ascoltare, guardare, leggere, provare nel profondo del cuore tutto quello che è racchiuso in questo UKIYOE (il significato letterale è proprio mondi fluttuanti e si riferisce ad una cultura e conseguentemente un tipo di stampa nipponica) e proprio la necessità di tempo da dedicare all’arte è la peculiarità primaria che rende le opere targate InSonar/Nichelodeon quanto di più distante dall’universo musicale/commerciale attuale, dove le band durano il tempo di passare dalla neve al sole e i brani si metabolizzano come jingle pubblicitari. Questa disuguaglianza è la grande forza degli Insonar/Nichelodeon ed anche il colossale limite che forgia il destino di Milano dentro la gabbia senza sbarre della nicchia underground.

L’ultimo mio approccio con i Nichelodeon risale allo scorso anno, in occasione dell’ascolto di L’Enfant et le Ménure/Bath Salts che fu per me anche l’occasione di conoscere l’altra creatura nata dalla mente di Milano, gli InSonar, ormai diventati una sorta di gemello siamese del più noto progetto Avant Prog. Si trattava di un lavoro enorme, sia come durata (quattro i dischi che lo compongono) sia per energia; un album che mi trascinò per mesi e che, ancora oggi, mi divora lo spirito in quei giorni in cui la consuetudine non basta. Quel disco, che fu l’apice di tutti i miei ascolti di quell’anno, è diventato indiscutibilmente la pietra di comparazione per ogni altra realizzazione di Claudio Milano, che si parli delle fatiche precedenti o di quelle future, il punto massimo che probabilmente mai si potrà valicare. Proprio in quest’ottica, vado dunque ad approcciarmi al nuovo UKIYOE, cercando di tralasciare, per quanto possibile, gli aspetti formali e biografici che ormai dovrebbero essere noti a tutti o che altrimenti v’invito a ricercare negli antecedenti scritti inerenti al nostro Milano. L’opera (in uscita a novembre per Snowdonia), come spesso accade, non si limita a una proposta uditiva e, come per il precedente prodotto, si mostra come una raccolta di stelle, ospiti più o meno noti ma comunque tutti d’importanza capitale in ambito sperimentale e vocale. Troveremo dunque la complicità di OTEME, Deadburger Factory, Garden Wall/Genoma, dei compositori Josed Chirudli ed Erica Scherl, di alcune tra le più grandi voci italiane del momento come Dalila Kayros, Stefano Luigi Mangia, Laura Catrani e tanti altri. Il punto di partenza dal quale tutto muove, il concept attorno al cui orbitano parole, musica, disegni e immagini, è il mare con i suoi movimenti, la costruzione e la distruzione della forma qui trasformata in sostanza materiale attraverso il lavoro di Milano che ha condotto i diversi arrangiamenti dei tanti compositori, assegnando in studio a ognuno un canale, alzato e abbassato in maniera improvvisata per comporre una struttura sia consistente, sia luminosa, alternativamente.

Prima di passare alla musica, merita attenzione l’artwork del digipack, realizzato con le illustrazioni dello stesso Milano. Disegni splendidi, gonfi di colori freddi che si mischiano a immagini confuse creando una specie di fusione tra un mondo reale, dato dalla solidità apparente della terraferma delle umane certezze, e uno formalmente illusorio dato dalla fluidità della coscienza, dal mare e da tutti quei movimenti dell’animo che esso inevitabilmente genera e che l’hanno reso il protagonista di una vastità di opere letterarie divenute capisaldi anche della nostra personale formazione culturale e umana, da Proust a Melville, da Conrad a Hemingway. Dopo aver goduto delle illustrazioni che ho potuto apprezzare anche nel formato originale, si passa all’altro elemento non prettamente musicale dell’opera. Il Dvd che affianca il disco è un breve film del regista d’avanguardia Francesco Paolo Paladino, promotore del progetto e finanziatore dello stesso. Quickworks & Deadworks, questo il titolo, affronta lo stesso tema partendo dalle inquietudini che l’atmosfera marina suscita, ovviamente con l’aiuto della musica degli InSonar/Nichelodeon. Le fotografie del film, della durata di circa mezz’ora, saranno le stesse che, mescolate alle illustrazioni, comporranno l’artwork. Una piccola nave spiaggiata ai piedi d’un bosco, una voce fuori campo che descrive il momento, due coppie, una di giovani vestiti di bianco, una di adulti in nero, si allontanano dall’imbarcazione, avvicinando l’obiettivo. Si ritrovano su una terrazza. La telecamera è fissa e riprende il quadrato nel quale i quattro sembrano idealmente imprigionati. I giovani chiacchierano allegri sul parapetto, gli adulti, preoccupati e quasi disperati, sono seduti alle sedie d’un tavolino. I loro mondi paiono distanti ma con il passare del tempo, il salire del vento, quei mondi finiranno per collimare.

A questo punto approdiamo alla parte musicale, ai sei brani che compongono i mondi fluttuanti qui dipinti. Come i più attenti seguaci del verbo Nichelodeon potranno immaginare, oltre alle sette ottave donate dalla voce di Milano, il tutto si compone di una marea infinita di strumenti e musicisti. Violino, violoncello, arpa, viola, clarinetto, sax, voci di ogni tipo, chitarre di ogni tipo, elettronica, le più disparate percussioni anche non convenzionali e tantissimo altro. Scegliere dei punti di riferimento precisi è difficile. Si citano da Robert Wyatt all’accoppiata Nico / Cale, dagli Swans recenti di The Seer a Henry Cow, da Fausto Romitelli a Scott Walker, passando per David Sylvian, Kate Bush, Radiohead, Liars, Ulver, Carla Bozulich, Tim Buckley, Burial, Nine Inch Nails, Tool, Joy Division, Dead Can Dance, Current 93 e tantissimi altri. Talmente numerosi che pare di aver detto tutto che è un po’ come non dire niente. Perché alla fine non mente Milano quanto indica tutti questi come punti di riferimento; in fondo, ogni album che un musicista ascolta nel profondo fino a farlo veramente suo, finisce per costruire anche un solo piccolo frammento della personalità di quell’artista e, inevitabilmente, ogni pezzettino di sé andrà a costruire in un modo o nell’altro, ciò che poi è il risultato del suo estro. Tuttavia non lasciatevi ingannare da questi nomi. Le sperimentazioni di Claudio Milano solcano gli stessi mari già attraversati in precedenza. Dunque sarà la Modern Classical a farla da padrone, sullo sfondo di una voce sempre tesa tra melodia e sperimentazione (“Veleno”) o ancora le reminiscenze da scena di Canterbury (“Fi(j)uru d’acqua (Fiore/Figlio d’acqua)”), le tensioni nervose dell’Avant Prog (“Marinaio”), la teatralità di certo cantautorato (“Ohi ma(Nel Mare che hai dentro)”) che non disdegna di usare il dialetto per rendere al meglio certe suggestioni. “I Pesci dei tuoi Fiumi (Ezechiele 29:4; 29:5)” è forse il momento più terrificante, spaventoso e violento, certamente a suo mondo più moderno, quello che più si strappa dal passato per protendersi verso le future trepidazioni di un certo Art Pop sperimentale, enigmatico e apocalittico, quasi musica astratta se non fosse per le parole (in questo disco sempre o quasi in lingua italiana) che imprimono precise linee di demarcazione che altrimenti sarebbe impossibile seguire. Avanguardia pura che trova il suo compimento nella conclusiva “MA(r)LE”, che regalerà anche magnetismi autechriani ma dal sapore mediterraneo oltre ad un’infinità di altre immagini che spazieranno attraverso tutte le influenze suddette dei nostri, in una sorta di lungo excursus riassuntivo.

Giunto alla fine, resta l’impagabile soddisfazione di non trovarsi mai tradito da un artista che indubbiamente amo ed ho il piacere di seguire in ogni sua nuova esperienza. C’è da tornare però a valutare l’opera usando come pietra di paragone quel già citato L’Enfant et le Ménure / Bath Salts e, non posso negarlo, questo UKIYOE (Mondi Fluttuanti) non regge minimamente il confronto. Il fatto stesso che si tratti di una sorta di concept finisce per ingabbiare l’opera laddove al contrario, il quadruplo album precedente aveva il grande merito di spaziare e svariare così tanto da somigliare a quello che in letteratura potrebbe essere un capolavoro come Infinite Jest di David Foster Wallace. Qualcosa di tanto complesso eppure coinvolgente che a ogni ascolto/lettura ti pare di scoprire una parte di te, una sorta d’immaginifica bibbia emotiva personale che non rappresenta solo un momento della nostra esistenza, ma la racchiude in tutta la sua complessità. In questo nuovo album invece, tutto quell’universo è ricondotto e fuso in un unico elemento che, per quanto denso, risulta di più complessa compenetrazione. A livello prettamente formale, resta sempre eccelso il lavoro di Milano e dei suoi musicisti, sia come esecutore e cantante puro e sia come regista, coordinatore e demiurgo capace di far confluire idee e concezioni ineluttabilmente diverse in un archetipo comune e ben definito, che sappia prendere le lezioni di un passato che ha visto protagonisti nomi quali i già citati Buckley, Wyatt o Cale e, allo stesso modo, legarle con le nuove idee di mostri come Swans, Burial, Walker. Le frasi dello stesso Milano spiegano meglio di chiunque altro come si sia giunti a tanto: “sono autore delle linee melodiche e ho strutturato gli arrangiamenti, a cui pure ho preso parte, chiedendo a diversi musicisti di realizzarne una propria “visione musicale”. Nessuno è stato messo al corrente di quello che stavano producendo gli altri. Impiegando infine lo studio di registrazione come “un musicista a sé”, ho poi editato e montato creativamente i diversi arrangiamenti, come mossi dai flussi delle onde. In breve, tanta gente a bordo, due soli capitani, io e il sound designer Paolo Siconolfi. Le prime cinque copie del digipack saranno accompagnate da plaquette dell’artista Gloria Chiappani Rodichevski. Ognuna delle plaquette recherà tramite illustrazione (io ho un sistema di notazione assai pittorico su pentagramma) frequenza, altezza, durata e intensità della singola nota/sillaba che va a comporre il brano U-KI-YO-E che chiude idealmente il CD. Le plaquette saranno dunque tutte differenti e se lette una accanto all’altro attraverso l’incontro ideale dei singoli possessori, permetteranno di cantare o suonare il “tassello mancante” di un lavoro, di fatto, strutturato alla stessa maniera di un mosaico”.

UKIYOE (Mondi Fluttuanti) è un’opera immancabile e imprescindibile per ogni amante di sperimentazione vocale e non ed è in questo che sta forse l’unico grande difetto di Claudio Milano. Qualche giorno fa, stavo chiacchierando con Miro Sassolini, membro degli S.m.s. e voce storica dei Diaframma di Siberia, proprio di sperimentazione e circa l’importanza della voce dentro la musica. Quasi in maniera scontata si è finiti a parlare di Demetrio Stratos, il più grande utilizzatore di corde vocali che l’Italia ricordi, ed io non ho potuto esimermi dal tirare fuori proprio il nome di Milano. Sassolini ha confidato: “Claudio, che io stimo immensamente, ha studiato e ripercorso l’intera fase sperimentale di Stratos; forse non ce ne era bisogno. Forse bastava coglierne l’essenza ma questo è solo il mio punto di vista. Io e lui abbiamo cominciato più o meno dagli stessi territori di sperimentazione. Mentre io, però, ho seguito la strada della forma canzone, cercando sempre la melodia dentro la musica, lui ha braccato la purezza, legandosi piuttosto ai suoni, alla ricerca della complessità e alla metodologia estrema. Semplicemente abbiamo avuto diverse progettualità dettate da difformi esigenze personali”. Una verità tanto schietta quanto un po’ malinconica perché proprio questo disco è destinato a essere amato da pochi, come tutte le cose che osano troppo e la consapevolezza che, in tal senso, ci sia stato quasi un passo indietro rispetto al passato, mi getta in una triste realtà in cui pare non esserci spazio per chi ha veramente qualcosa da dire, sa esattamente come farlo eppure parla una lingua sconosciuta a un popolo troppo pigro per imparare.

*un ringraziamento speciale a Miro Sassolini per la piacevole e intensa chiacchierata sul lavoro proprio di Claudio Milano e per i suoi preziosi consigli

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Gletscher – Devout

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Metà Indie, metà Progressive e metà Metal e poco importa se c’è una metà di troppo in questo trio svizzero perché modo più diretto di farvi capire di che si tratta, senza costringervi ad ascoltare, non ce n’è. Da Zurigo giungono i due Marc Ysenschmid (basso) e Raphael Peter (batteria) mentre Joileah Concepcion (chitarra e voce) ex di Sleeping People (misconosciuta band di San Diego che merita più di un paio di ascolti) e Temporary Residence, pare arrivi addirittura dalla lontana Brooklyn e sembra anche abbia promesso un debutto solista a nome Victoria Concepcion. Se, come suggeritovi, vi siete messi già alla ricerca dell’omonimo del 2005 o del due anni più giovane Growing, o di qualunque altra cosa targata Sleeping People, potrete notare con le vostre orecchie quanto sia rilucente il legame tra l’attuale proposta della band svizzera e la band californiana, specie nella sua commistione tra elementi modernamente Indie Rock e testardaggine di stampo Math Core. La cosa che più traspare, visto anche l’uso ridotto all’osso della voce, è tuttavia una similitudine fortissima con l’Alternative Rock degli A Perfect Circle e (al disopra di tutto questo sarà il vero fattore negativo della valutazione) con la titanica creatura di Maynard James Keenan chiamata Tool.

Devout è gonfio di ritmiche poderose e chitarre taglienti e non pochi sono i momenti in cui l’ossessività e la ripetitività del sound creano una sensazione di potenza impressionante, eppure ciò in cui non riescono non è solo reggere il paragone con i succitati colleghi, quanto anche dare un’impronta omogenea alla loro musica, troppo spoglia per seguire la strada incominciata del Prog Metal e poco solerte e dinamica nei limitati ingredienti messi sul piatto. Alla fine, tolti un paio di brani come la first track introduttiva (“Eulenmann”) che quasi pareva preparare il terreno a un album Avant Folk (qualche elemento è ripreso anche in seguito, vedi “December”) e altri nei quali tutto l’impianto sonico messo in piedi dai tre regge bene l’impatto con l’ascolto, il resto è un continuo ripetersi di poche e non troppo brillanti idee. Ben compiute ma pur sempre smisuratamente esigue e esiguamente promettenti.

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Ecco le nuove uscite più attese del 2014!!! Prendete carta e penna…

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TEMPLATE2014

Evitando di farci prendere da facili entusiasmi, dai nostri desideri e di farci trascinare nel vortice delle “voci di corridoio”, cerchiamo di fare il punto su quelle che saranno solo alcune delle uscite più interessanti previste per il 2014, sia album che singoli ed Ep.  Dopo due anni o poco meno tornano i Maximo Park con il nuovo album Too Much Information in uscita a febbraio, insieme ai Tinariwen con Emmaar, a The Notwist e a St. Vincent. Ci sarà da aspettare molto meno invece per Metallica e il loro film documentario Through the Never e il nuovo full length Pontiak, INNOCENCE (28 gennaio), cosi come per il grande Mike Oldfield che dopo il non entusiasmante remix del suo capolavoro torna con Man on the Rocks (27 gennaio). Tra le tante raccolte che ci accompagneranno, da non perdere Original Album Series (24 gennaio) di Kevin Ayers e The Beatles con The U.S. Albums (21 gennaio).

Ci attende una svolta stilistica non indifferente e che non vogliamo anticiparvi, nel nuovo Alcest mentre segnatevi da qualche parte la data del 21 gennaio perché in uscita c’è il nuovo Ep di Glenn Branca, Lesson No. 1. Ci sarà non troppo da aspettare anche per vedere e leggere la recensione di Rave Tapes dei Mogwai mentre gli amanti dell’Idm si preparino al nuovo singolo targato Moderat cosi come i fanatici Ambient non dovranno aspettare molto per ascoltare  bvdub, già uscito nel 2013 (in coppia con Loscil) e prontissimo con un nuovo lavoro. Poche aspettative (eppure siamo molto curiosi) per il nuovo dei folli giapponesi Polysics, Action!!! (15 gennaio) mentre molte di più sono quelle per i Sunn O))) (che usciranno, quest’anno anche con Terrestrials, insieme agli Ulver) LA Reh 012 (13 gennaio). Per i fan più accaniti, annunciamo anche l’imminente uscita di Bruce Springsteen con High Hopes (10 gennaio) mentre proprio da due giorni è disponibile uno dei lavori più attesi, da noi amanti del Neo-Gaze, Cannibal singolo dei Silversun Pickups. Quasi dimenticavo anche l’ex Pavement, Stephen Malkmus & The Jicks con l’album Wig Out at Jagbags e poi Present Tense dei Wild Beasts.

Lasciamo per un attimo il panorama internazionale e guardiamo che succederà in casa nostra. Dente con Almanacco del Giorno Prima è pronto per gennaio. Con lui anche i Farglow, Meteor Remotes e gli Hysterical Sublime con Colours Ep. Tornano i Linea77 e speriamo che C’Eravamo Tanto Armati ne possa risollevare almeno un po’ le sorti. Quasi certa la prossima uscita per la ristampa di Da Qui dei Massimo Volume. Tra i lavori italiani più attesi non può mancare L’Amore Finché Dura, dei Non Voglio Che Clara mentre penso che si potrà fare a meno di ascoltare Omar Pedrini e il suo ultimo Che ci Vado a Fare a Londra, anche se un minuto di attenzione non si nega a nessuno. Paolo Fresu è in uscita con Vino Dentro mentre farà parlare, sparlare e litigare Canzoni Contro la Natura degli Zen Circus cosi come Brunori Sas e il suo Vol.3, Il Cammino di Santiago in Taxi. Nel frattempo ho già iniziato l’ascolto di Uno Bianca, il concept album di Bologna Violenta, in uscita il prossimo 24 febbraio.

Mettiamo da parte le uscite certe per questi primi mesi dell’anno e diamo ora uno sguardo più lontano nel tempo. Pare che Damon Albarn, leader di Blur e Gorillaz sia pronto per un album solista ma molto più atteso, almeno per quanto mi riguarda, è il nuovo album degli Have a Nice Life. Poi sarà certamente l’anno del nuovo U2, dei Foo Fighters e di Lana del Ray. Sale l’attesa per il nuovo di Beck, la cui uscita sembra quasi certa per il finire di febbraio, mentre ancora tutto da chiarire per quanto riguarda le nuove fatiche di Tool, Pharrell, Frank Ocean, Mastodon, Burial, Giorgio Moroder, Brody Dalle, Cloud Nothings, Flying Lotus, Grimes e The Kills.

Io mi segno almeno una decina di nomi, per gli altri vedremo. Nel frattempo speriamo che il 2014 ci regali qualche sorpresa in più rispetto a queste anticipazioni perché i nomi, nel complesso, non lasciano certo sperare in un’annata da ricordare. Comunque, ci sono sempre gli esordienti, magari ancora sconosciuti, da tenere in considerazione. Saranno loro a farci sognare, non ne dubito.

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Inert Project – Heartburn

Written by Recensioni

Non c’è storia, Heartburn di Inert Project è un lungo e appassionato amplesso con il cinema poliziesco degli anni 70.

È questo che ho pensato subito dopo aver ascoltato l’intero album. Poi, leggendo la nota biografica, è arrivata la conferma; dietro al progetto INERT si nascondono Raffaele Cileo (electronics) e Alessio Lottero (guitars) uniti dalla passione sfrenata per le colonne sonore di film noir e polizieschi; a dividerli, invece, sono i settemila chilometri che corrono tra New York, metropoli in cui vive e lavora Alessio e Pontassieve, la città toscana di Raffaele. Ma Heartburn, loro primo lavoro, dimostra che la distanza non rappresenta un ostacolo, le vie del web sono infinite. Ecco che un album di forte stampo cinematografico prende forma grazie alle fitte corrispondenze virtuali fra i due collaboratori. Fondamentale per lo sviluppo del disco è l’incontro con Beppe Massara, anima della Tarock Record che decide di produrre l’album affidando però le originarie sezioni ritmiche elettroniche a quattro musicisti pugliesi: Paolo Ormas, Marco Nicolini, Costantino Massaro e Francesco “Frums” Dettole.

In questo lavoro non c’è soluzione di continuità, niente è scontato e prevedibile, niente è netto o definitivo; tutto è in divenire. Questi due artisti sembrano aver incamerato nel corso del tempo diversi generi musicali per poi risputarli fuori sotto forma di Heartburn, disco che trae nutrimento da un immaginario musicale frastagliato tenuto comunque in equilibrio da una netta linea Funk Rock tendente al Jazz. Ma non basta. Questi alchimisti del suono c’infilano anche Lounge, Fusion, Industrial, Blues e sonorità afro. La sovrapposizione di suoni è evidente in tutti i loro pezzi che sembrano patchwork stilistici non sempre riusciti. “Police Radio” potente brano d’apertura richiama la base Funk tipica di The Pop Group e col suo suono pieno e pulsante sembra una folle rincorsa verso non so che. “Smokey” parte come la più Jazz del disco ma poi un’offuscata chitarra s’introduce per cambiare le carte in tavola trascinando tutto su un versante più Rock. “Land of Liars, Thieves And Bitches” è la traccia più oscura dell’album che, fredda e minimale crea un’inquietante e cupa atmosfera enfatizzata da metallici suoni Industrial. “Call The Coronal”, un Dub-Funk alla 23 Skidoo è un pezzo energico e veloce che ha urgenza di esprimersi a tutti i costi. L’intro Prog dell’ultima traccia “White Coffin Blues Pt2” fa pensare ai più pacati Tool ma poi tutto si dissolve quando ci si avvia verso il pallido leggerissimo finale. Un disco, Heartburn, non proprio dei più accessibili per la sua complessa struttura di fondo, un lavoro che per discontinuità di suoni rischia di confondere e disorientare l’ascoltatore. Personalmente avrei preferito una chitarra di stampo meno accademico, più libera da tendenze classico-didattiche sì, perché lei arriva come una maestra bacchettona a riportare ordine dove si cercava di sperimentare (“The Henchman”, “Bad String”). La chitarra che avrei voluto è quella sporca e ruvida che arriva al minuto 1.36 di “White Coffin Blues Pt2”, ma questo è qualcosa di personale.

E intanto, mentre ascolto, non posso far a meno di immaginare impostori, ladri e puttane inseguiti dalla polizia. Ma la polizia non ce la fa.

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