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The Geex – The Geex

Written by Recensioni

Inizia con un robusto fill di batteria questo ep, il primo,  dei The Geex e  poi ecco un giro di chitarra cazzutissima con un bel basso plettrato. Dopo appena dieci secondi di The Geex ecco che pensi di trovarti a che fare con un fottutissimo disco alla Placebo, ti sorprendi a sorridere pensando che ti aspetti una bella serata di musica Indie Rock nella tua stanzetta semi buia del tuo condominio di periferia.

Invece, come a volte succede nel sesso, ciò che ben comincia non è detto che non finisca di lì a pochi secondi: entra la voce in un finto inglese di quelli che si utilizzano per fare i primi provini e d’incanto mi trovo ad ascoltare un emulo di Rocky Roberts nel celeberrimo “Stasera mi buccio”: unica differenza è solo che qui un italiano cerca di sembrare inglese e non un nero che cerchi di sembrare Lando Fiorini; il pezzo si intestardisce in una melodia a metà tra lo scanzonato e il musicalmente scurrile, il giro di chitarra cazzutissima rimane lo stesso fino alla fine del disco mirando con cazzutissima precisione chirurgica al basso ventre dell’ascoltatore, la batteria non molla un attimo il charlie in sedicesimi e il rullante non molla il tre come nemmeno i migliori Def Leppard avrebbero osato, nel pieno degli anni 80. La voce, infida, insiste su parole appena appena stropicciate da qualche decennio di canzoni: Love, Hope e soprattutto Dream: ci tengo davvero a soffermarmi sull’inciso del secondo pezzo “Empty” dal titolo evidentemente riassuntivo dello spirito dell’ep; da quando ascolto musica non mi era ancora riuscito di ascoltare un vocalizzo di così tante note e così tanti secondi (sulla i di Dream per l’esattezza). Con un vocalizzo così lungo The Geex possono provare ad insidiare il record mondiale di vocale indoor dei migliori Verdena, i quali almeno allungavano vocali nella loro lingua madre. Vocalismo patriottico is better, passatemi l’inglesismo, anche io a scuola ho studiato un po’. Il disco volge al termine in altri due pezzi: “Africa” mi sembra giusto un pelino di un livello compositivo più alto degli altri. Ma è come se il sesso sia durato dieci secondi e poi ti abbiano propinato venti minuti di coccole. Che ne dite donne, quante volte avete provato la stessa esperienza con i vostri partner?

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The Hollyhocks – Pop Culture BOPS

Written by Novità

Eighties e moda, synth e effetti di chitarra, voce alla Spandau Ballet e ritmiche indie, tipo dagli Arctic Monkeys in giù. Insomma, in questo Pop Culture dei torinesi The Hollyhocks c’è tutto quello che serve per farne un must, un successone, una sequela di hit con cui far ballare tutti i dancefloor hip della penisola. E tutto ciò che serve, aggiungo, per non farmeli piacere. La bravura c’è pure, non confondiamoci: le sintetizzate analogiche sono fatte come si deve, gli incroci di genere non annoiano, l’orecchiabilità è costante, le melodie accattivanti, e la punta del piede tiene il tempo senza particolari difficoltà. Però basta, dai. Ho passato troppi venerdì sera davanti a gruppi del genere, e di nessuno ricordo il nome. Le canzoni sembrano una sola, lunga canzone di trent’anni fa, bagnata nell’effervescenza indie pop così tipica di questi anni ’10. Ora, so benissimo di essere io quello sbagliato, per cui andate ad immergervi nella time machine electrostyle dei The Hollyhocks e ballateli fino allo sfinimento, so che ne siete capaci! Ma, per favore, lasciate me al bancone a bere da solo, vi raggiungo dopo… P.s.: O sono io a non capire cosa diavolo significhi post-punk, o la gente usa il termine completamente alla cazzo…

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F.O.O.S. – Showcase

Written by Recensioni

E qui casca l’asino. Leggo nella presentazione di questa band la fatidica parola “electrock” che mi spaventa quasi come vedere il pagliaccio It, incubo della mia infanzia. Che cosa significa mischiare elettronica al rock? Club metropolitani e bui con piazze gremite di umanità. Dj col ciuffo dritto contro il sudore che gronda dalle mani. Luce solare scaraventata su neon prepotenti. Analogico con digitale.
Devo ammettere che la combo mi ha sempre un pò spiazzato. Da sempre ho considerato la musica elettronica come una facile scappatoia per giustificare il fallimento del rock’n’roll nei giorni nostri. Stupida e forzata proiezione futura di un mondo che necessita un presente. Per un purista come me insomma è difficile trovare un connubio tra due realtà così lontane e ritengo buona l’amalgama solo quando di mezzo interviene l’immortale collante: “il pop” (Kasabian, The Killers o gli U2 di “Pop”, tanto per far capire quanto sono “asino”). Ma qui il collante viene usato col contagocce e i due universi si scontrano senza mezze misure, uno scontro titanico senza tante carezze o addolcimenti.
I F.O.O.S. arrivano da Torino, città che da un certo punto di vista già da qualche anno strizza l’occhio all’elettronica. Sono in due, picchiano duro come fossero in cinque (li ho visto dal vivo, fidatevi che vi fanno sentire il vento in faccia) e non hanno alcuna intenzione di abbassare la testa per scendere a compromessi. Il loro esordio discografico è “Showcase” che da anche il titolo al primo brano dell’album. In questo inizio ci troviamo sommersi in un mare apparentemente quieto ma che odora di tempesta, puzza di nervosismo. Un braccio teso a tenere una testa sotto l’acqua per affogarla. La testa però presto si ribella e dal mare esce un terribile mostro (“The monster”), un incrocio devastante con corpo virile e testa robotica. Inizia così lo scontro a colpi di riff villani e tenebrosi synths, il tutto scandito alla perfezione dalle ritmiche di F, batterista precisamente in bilico tra la violenza dell’hard rock e il groove danzereccio.
I due giovanotti non mollano mai la presa, non rilassano neanche un muscolo. La battaglia si fa sempre più serrata in “Hot coals” e “G.O.L.”, la luce artificiale del dancefloor incontra qualche goccia di sudore. I due mondi sono sempre più uniti, ma non si abbracciano, sbattono clamorosamente l’uno contro l’altro e il risultato è pieno di spigoli, sebbene presenti la sua matematica regolarità. “Modermorphosys” è l’episodio più pop con l’intro molto Thirty Seconds To Mars, che poi vira verso terre meno battute fornendo anche a questa canzone la giusta dose di personalità. “Mirror Labyrinth” suonerebbe perfetta per un frenetico videogioco sparatutto e simula l’angosciante claustrofobia del labirinto (giusto per dare un esempio di come la band rifletta bene le sensazioni nella propria musica). Nel finale “The world we could have built” i toni si abbassano, la guerra sembra finita e si torna all’iniziale calma apparente. Il pezzo pare parlare da un altro pianeta e con un briciolo di fantasia calzerebbe perfettamente addosso alla voce toccante di Dave Gahan.

Eh si, devo proprio ammetterlo, questa volta il mix “electrock” è riuscitissimo. I pezzi sono tutti “killer” e il disco è prodotto alla perfezione. Lo dimostra la caparbia gestione del caos apparentemente anarchico (“Hot coals” e “Riot!” i migliori esempi). La testa robotica non ammette sbavature, tutto sta dentro lo schema. Ma lo schema è una terribile gabbia dove “il mostro” si dimena e grida libertà. La libertà non la ottiene, ma il suo grido pregno di umanità rende questo un grandissimo album.

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Sùr – Brainschift

Written by Recensioni

Certo che stiamo parlando di musica suonata con i contro cazzi, questo è un dato di fatto. Nessuno metta la mano sul fuoco, brucia. I Sùr sono tre ragazzi piemontesi forse troppo legati agli anni novanta per far esplodere e trasmettere le proprie idee artistiche negli avanzati anni zero. Ascolti immortali come Alice in Chains, Stone Temple Pilots, Kyuss e tutta la schiera forte di quel periodo devono aver toccato indelebilmente le menti di questi ragazzi che non riescono proprio ad uscirne fuori, ascoltare la loro EP Brainshift per rendersene conto. Indubbiamente quattro pezzi (belli lunghi lunghi) suonati a regola d’arte, è poca la differenza che si nota tra loro e un dinosauro del genere ma l’imbarazzo dell’epoca mette stranezza nei miei ascolti. Qualcosa rende il tutto stranamente insopportabile, il gusto di una cover band è troppo forte per passare inosservato, qualche piccolo accenno di nu-metal mi riporta quasi all’attualità ma è veramente poco per poter giudicare un lavoro di queste intenzioni. Sicuramente i giudizi positivi fioccheranno da tutte le parti, questo è ovvio, sono tecnicamente bravi e fanno musica giá testata e sperimentata venti anni fa, in più la fanno bene. Ma questo non basta per essere vincenti, bisogna caricarsi di nuove responsabilità sulle spalle, avere delle idee da mettere in pratica, sentirsi orgogliosi di essere i creatori di se stessi. Chi non lavora non fa l’amore.

Brainschift rimane nei miei ricordi come una buona demo suonata alla perfezione ma senza cervello, i Sùr sono una band che attualmente preferirei vedere in un pub piuttosto che comprare un loro disco. Rischiare ragazzi è un obbligo morale nei confronti di chi vi ascolta, avere una propria personalità vi aiuterà a fare il salto di qualità di cui avete bisogno, le altre carte le avete tutte.

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