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Miniman On Micro

Written by Interviste

Oggi facciamo due chiacchiere con Miniman On Micro, al secolo Alessandro Minissi, già rapper con i Rigor Monkeez e con un futuro nel giornalismo, che ci racconterà qualcosa di lui e del suo progetto REPORTI (“musica rap sulla publica res”).

Ciao Alessandro. Innanzitutto vuoi parlarci di te, del tuo rapporto con la musica e con il giornalismo?

Un saluto a Rockambula e ai suoi lettori! Io ho ventiquattro anni, faccio il Rap da quando ne avevo quindici e sono studente da quando ne avevo sei. Rappo nei Rigor Monkeez e intanto cerco di diventare giornalista professionista, dovrei riuscirci quest’anno. Mi piace riflettere su cosa accade, per anticipare cosa accadrà. E’ lo spirito che metto sia nel gioco del Rap che nel mestiere del giornalista. Un giorno li ho uniti ed è nato Reporti.

In due parole: cos’è Reporti, di cosa si tratta, come è strutturato, e dove possiamo seguirti?

Reporti è un esperimento di Rap-giornalismo, o di giornalismo-Rap. Un blog dove ogni settimana carico pillole Rap di un minuto e mezzo dedicate a temi di attualità. Potete ascoltarle all’indirizzo http://reporti.wordpress.com oppure iscrivendovi al canale youtube Reportiblog.

Come ti è venuta l’idea? Credi possa essere qualcosa che, nel suo piccolo, riesca ad avvicinare alla cronaca (politica, soprattutto) persone che altrimenti ne avvertirebbero solo il riflesso?

L’idea mi h venuta dalla constatazione che ci voleva un’idea. Sia per la mia musica che per il mio futuro da giornalista. Mi piace pensare che per qualche ascoltatore Reporti possa essere anche un servizio, oltre che un intrattenimento. Una sorta di accesso semplice a notizie complesse. Poi per quanto mi riguarda rimane una formula sempre in costruzione, mi diverto a sperimentare diversi flow e argomenti, e punto a costruirmi nel tempo un’identità precisa.

Credo che il rap sia un mezzo molto più funzionale di altri per commentare criticamente  l’esistente (in musica, ovviamente). Tu che ne pensi? Credi che il luogo comune “rapper = nuovi cantautori” sia abusato e ridicolo, o pensi che ci sia un fondo di verità, mutatis mutandis?

Secondo me il Rap è il ritmo più rappresentativo dell’epoca in cui viviamo. A me ha preso fin dalla prima volta che l’ho sentito. E mi spiace per chi non la pensa cosi ma, nel bene e nel male, siamo noi i nuovi cantautori. Neanche più tanto nuovi ormai. D’altronde utilizzare rime e versi per criticare lo stato delle cose si è sempre fatto nella storia. Ogni epoca ha avuto il suo di “Rap”. Io però non voglio fare solo critica, mi piace anche spiegarle le cose, e collegarle tra loro per trovare cause comuni.

Siamo quasi alla fine della prima stagione. Come sta andando? Di cosa hai parlato? Qual è l’episodio più riuscito, secondo te, e come mai?

Sono soddisfatto finora. Il lavoro si è rivelato lungo e certe puntate le ho chiuse per il rotto della cuffia. Ma l’obbiettivo era farne uno a settimana e per ora è stato cosl. Ho parlato degli ultimi grandi eventi, come le elezioni europee la canonizzazione dei papi e i mondiali di calcio, ma anche di cose piy vicine a me, tipo Facebook o la re(p)censione di uno spettacolo che sono andato a vedere. L’episodio più riuscito è stato quello in cui ho avuto più tempo per documentarmi e scrivere. Parlo del secondo, “Uh ma la Ue”, un tutorial sul parlamento europeo pubblicato anche su Linkiesta.it. Tuttavia ce ne sono anche altri che mi piacciono, in modo diverso, perchè sono più riflessivi e spontanei, come il sesto sul sistema democratico o l’ottavo sulla febbre da mondiali.

In generale, come scegli gli argomenti e come funziona il processo creativo/produttivo che sta dietro Reporti?

Parte sempre tutto da quello che vedo e che mi succede. Leggo i giornali, osservo la società, e quando sento che manca un’informazione, o la sua coscienza, faccio un Reporti. Per ora ho rappato principalmente su strumentali americane, come nei mixtape, ma mi piacerebbe trovare un produttore interessato a seguirmi in questo progetto. Se ce n’è qualcuno che si faccia avanti! Intanto ho la P Connection e i miei soci Otis ed Mt ad aiutarmi quando servono basi o idee per il pezzo. Insieme escono sempre belle trovate.

Hai già in programma una seconda stagione? Per quando? Cambierai qualcosa nella formula o ti sembra già vincente?

Ora penso solo a finire bene la prima. Ma credo proprio che poi continuerò, dopo l’estate. Non so di preciso quando perchè avrò l’esame da giornalista a fine ottobre, e vorrei anche aggiungere qualcosa al format di Reporti. Come ho detto prima è sempre in costruzione.

Hai altri progetti in corso, come musicista? Ci vuoi parlare di qualche ambizione per il futuro?

Coi Rigor Monkeez sto promuovendo da un anno l’ultimo disco Da New Bomb. Intanto lavoriamo alle nuove uscite, sia del gruppo che dei singoli, ma non posso dirvi altro. Se non di seguirci su Fb e venire alle nostre serate. Le ambizioni per il futuro sono: dare sempre più spessore ai Reporti, continuare a crescere con i Rigor, diventare giornalista e non precipitare nella disoccupazione.

Grazie per la chiacchierata, a presto!

Grazie a voi, ciao!

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Retrospective for Love – Retrospective for Love

Written by Recensioni

Omonimo Ep per i siciliani Retrospective for Love, il suono armonioso del Dub masterizzato dall’ingegnere del suono Noel Summerville (The Clash, White Stripes, Sinead O’Connor). Musicisti siciliani come dicevo prima che fanno nascere la loro avventura artistica dei Retrospective for Love niente di meno che a Londra, dove certe sonorità d’avanguardia sono pane quotidiano e certamente più coccolate. Dove le mode esaltano lo stile e i musicisti narrano liberi le proprie gesta senza problemi di adattamento culturale. Ma che poi ogni mondo è paese ad essere onesti, o quasi. L’Ep parte subito mostrando la propria nervatura rilassata, “Kill Me” interamente retta da una voce Reggae trova infinite gradazioni di Soul, come non ricordare la parte Dubstep dei nostri Africa Unite. La verità sostanziale è che i Retrospective For Love sanno amalgamare precisamente i riff a disposizione mantenendo sempre un suono pulito e compatto, i bassi spingono forte pur essendo delicati. Una questione di stile.

Dell’Hip Hop innamorato si materializza in “Leave Me Alone”, dove sono i fiati a giocare un piacevole scherzo alla mia fantasia, la sensazione è quella di sentirsi portare via, non si capisce dove ma bisogna certamente andare via. Tocca essere sinceri ed ammettere l’internazionalità del prodotto, non una cosa quotidiana, molto di nicchia considerata la nostra nazione. E dove non parliamo di nicchia ci troviamo davanti a sciagurate imitazioni della realtà della parte buona del mondo. Nel nostro attuale caso si sperimenta tantissimo rendendo il prodotto non di facile ascolto, dobbiamo arrivarci preparati e spensierati. Sembrano adorabili come sottofondo. Poi la parte più violenta dell’Ep viene fuori in “Read Into You”, l’amore combattuto dalla rabbia, tutto diventa improvvisamente meno confortevole. Sensazioni lasciate andare senza controllo, il brano picchia sulla faccia con gentilezza. “Breathe” chiude il brevissimo episodio di sedici minuti senza esaltare troppo le mie papille gustative, preferisco di gran lunga quello ascoltato in precedenza ma non ne faccio una colpa imprescindibile. Quattro pezzi ben calibrati e strutturati, lasciano piacere, potrei ripartire ad ascoltarli nuovamente con lo stesso entusiasmo della prima volta, ad ogni ascolto si lasciano scoprire in maniera diversa. Un Ep però non esalta come il lungo viaggio di un intero disco, concentrare la bellezza è più facile, attendiamo i Retrospective For Love alla distanza, nel frattempo hanno vinto questa tappa meritatamente. Torneranno mai in Italia?

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Ronny Taylor – Dateci i Soldi

Written by Recensioni

Da quando il chitarrista solista della mia band, nonché compagno di liceo, mi passò ormai molti anni fa una cassetta con sopra scritto Joe Satriani pronunciandomelo come un Dio sceso in terra, il mio rapporto con il Rock strumentale ha subito avuto un rapporto difficoltoso. Virtuosismi a parte, il fastidio di non ritrovare parole e melodie vocali in un brano di 5 minuti scatenava in me noia e una leggera incazzatura nel riconoscere grandi riff sprecati in assoli che, benchè orecchiabili, risultavano di esagerata lunghezza. Facile dire che gli strumenti parlano il loro linguaggio. Io sono onesto con me stesso e mi tengo le mie tare mentali. E con questi pregiudizi attacco la recensione dei miei concittadini Ronny Taylor. La band nasce nel 2010 a Torino in mezzo ad altre realtà della zona (i ragazzi hanno militato in Oh No Its Pok, Into My Plastic Bones) che portano a mischiare sonorità e un bordello sempre sapientemente ammaestrato. Sprazzi di Funky, riff Heavy Metal vecchio stampo, synth e tastiere che aprono universi paralleli. Indubbiamente anche un cervello limitato come il mio non può che riconoscere già da subito una potenza inaudita in questo quartetto.

Copiano la copertina di Songs For the Deaf dei Queens of the Stone Age e jammano come dei dannati in questa mezz’ora di musica pura e cruda che è il loro primo vero lavoro in studio: Dateci i Soldi. L’intro dal sapore demenziale introduce al Rock duro di “Power Rangers”. Il basso simula uno spietato senso di vertigine mentre la chitarra macina licks e assolazzi (anche questi molto orecchiabili) senza mai scadere nella trappola del tecnicismo. Il perfetto incastro degli strumenti si ripete in “1945”. Le atmosfere si dilatano in un perfetto viaggio che nulla ha da invidiare agli anni d’oro del Progressive. Stortissima è invece “Clouds” con in mezzo anche un piccolo pseudo-rap che fitta benissimo con le ritmiche serrate dell’instancabile Mario Rossi. Non mancano ironia, fantasia e (senza farne abuso) tecnica. Sopra tutto però sta una nutrita dose di follia che porta a scrivere un brano come “My Chemical Orecchioni”. La follia non si ferma al bizzarro titolo ma fa sfociare un giro di basso funkeggiante in un assolo di tastiere che ricorda il compianto John Lord e le sue magie tra Classica e Blues. Per chiuedere il pezzo in bellezza, la chitarra di Giuseppe Franco si infila con un epico assolo. No, la mia tara rimane sconfitta. Siamo al sesto brano e la noia qui non riesco proprio a percepirla. Forse perché questa è una vera band e sa suonare live, anche su disco. Senza scadere in artefatti o in produzioni esagerate, solo quattro ragazzi bravissimi col loro strumento che suonano ore e ore in sala prove e escono con pezzi che li fanno divertire e che divertono (stranamente) pure l’ascoltatore in questione. Sinceramente, date le mie tragiche premesse, non potevo proprio aspettarmi di meglio.

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The Divinos – The Divino Code

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The Divino Code prende le mosse da una singolare e temeraria intuizione del frontman/songwriter partenopeo Max Russo (chitarra acustica/voce), accompagnato per l’occasione da una compagine di indubbio talento e provata versatilità: Chiazzetta a.k.a. Corpus Tristi (Rap vocalist), Roberto Pirami (batteria/programmazione elettronica: Vinnie Moore, Michael Angelo Batio, Uli Jon Roth, Blaze Bayley), Simone Massimi (contrabbasso elettrico: Vinnie Moore), Marco Bartoccioni (chitarra southern/mandolino) ed infine Licia Missori (pianoforte acustico: Steve Hewitt, Spiral 69). Il concept in questione narra le fantomatiche vicissitudini della sgangherata famiglia Divino (un infelice alter ego dei celeberrimi Sopranos?), attraverso un insolito itinerario Noir/Pulp/Western particolarmente intriso di ironia, drammaticità, tragicommedia. Cinematografia musicale (sulla scia di Tarantino, Rodriguez e Leone), indissolubile sinergia visiva/uditiva in cui vengono scarnificati e messi a nudo (in maniera piuttosto semplicistica e puerile) alcuni cliché tipici del famigerato sistema malavitoso italo/americano (“more power, more business, more women, more respect”), efficacemente evidenziati dalla peculiare contaminazione linguistica impiegata a livello semantico/testuale, come testimonia l’interessante rivisitazione della closing track “It’s Wonderful” (“Vieni Via Con Me”, Paolo Conte).

Detto questo, ammetto di non aver mai gradito i progetti di tal fattura, profondamente convinto che il linguaggio musicale debba essere, in un modo o nell’altro, veicolatore privilegiato ed assoluto di messaggi, emozioni, ricordi (positivi o negativi che siano), non impressionistica ed asettica rappresentazione di una qualche realtà immobile e precostituita. Apprezzabile, d’altro canto, l’innegabile spessore della proposta stilistica: una feconda e traboccante cornucopia espressiva dove convivono armoniosamente Classic/Southern Rock, Ballad (“Criminal’s Confession”), Opera, Musical (“You Have to Give Respect”), Rap (“The Divino Code”) ed Elettronica (“I Live Just for the Best”), il tutto cesellato da una produzione imponente ma troppo spesso incline alla saturazione e perciò fuori controllo. Da segnalare il videoclip del brano “Doll’s Amore” (secondo singolo in Europa ed U.S.A.), recentemente prodotto in territorio transalpino dalla prestigiosa Cité du Cinéma del regista francese Luc Besson.

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Ard – NeurodeliRoom26

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La Campania, si sa, è un territorio difficile come lo è la Sicilia, la Puglia ma infondo tutta l’Italia (e tutto il mondo) mangiata dalla mafia. La mafia, detta in parole povere, è un potere più forte che schiaccia quello più debole, infiltrandosi dappertutto e anche nella musica che diventa veicolo pulito attraverso il quale far passare i messaggi del clan. Questo ce lo dice Roberto Saviano in alcuni suoi racconti ma anche il rapper Lucariello che, fortunatamente, fa parte di quella schiera di musicisti davvero puliti, cui fa parte anche il salernitano Ard, protagonista di due altre autoproduzioni e varie collaborazioni.

NeurodeliRoom26 di Ard è l’album d’esordio ma anche, come descritto dall’artista stesso, “un viaggio onirico, tra le paure e i deliri della stanza 26 (stanza ispirata al film “Eraserhead” di D.Lynch)” a cui si accede attraverso una breve intro di poco più di due minuti denominata “Deja Vu pt.1” che ha il compito di aprire la strada a “Deja Vu pt.2” che parte con un rap sparato ben strutturato nelle liriche e nelle basi sonore. “P’ cena” rinforza quanto detto prima, evidenziando le qualità di rapper di Ard, anche se ha un outro che si discosta molto dal resto del brano e soprattutto dalla successiva “StendhArd” che comincia simulando i Portishead per poi allontanarsi e in pochi secondi dirigendosi verso spazi musicali totalmente opposti. Il gioco di parole sul titolo fa capire che forse il brano in questione vuol essere quasi il manifesto sonoro di Ard ma forse la successiva “Passpartout” (complice l’uso della lingua italiana) secondo me lo identifica maggiormente grazie anche a un uso massiccio di scratch ed elettronica. “Ndr26” presenta rime interessanti e mai troppo banali invece “Hotline dei Suicidi” è un insieme di campionamenti ben incastonati tra loro ma in maniera forse un po’ troppo ardita che difficilmente potrà essere recepita da un ascoltatore in Italia ma probabilmente troverebbe apprezzamenti di critica e di pubblico soprattutto in Inghilterra e negli Usa. “Krmstr” inizia con l’intro di “Lullaby” dei Low, brano contenuto nel capolavoro Slowcore I Could Live in Hope ma poi “Ruorm’ ca è Meglio” attenua le atmosfere conducendo alla fine del disco.

Un lavoro che in linea di massima presenta molti buoni spunti e idee soprattutto nell’impasto musicale e nei testi che sembrano ben studiati ma la struttura dei brani rimane sempre statica con effetti e campionature sia all’inizio che alla fine di ognuno e per quanto riguarda le cifre stilistiche non sembrano esserci riferimenti alla scena rap italiana, quanto più che altro a quella americana, che tuttavia presenta testi più incisivi e violenti. Infine, forse con un mastering migliore e con un produttore, questo lavoro avrebbe guadagnato anche qualcosa in più in suono, stile e volume che se alzato al massimo distorce i suoni.

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Pico Rama – Il Secchio e il Mare

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Un personaggio veramente interessante, questo Pico Rama. Difficilmente inquadrabile in una scena definita, ci porta in dono un cappello a cilindro pieno di dreadlocks, uno sguardo personalissimo e uno stile variopinto e inafferrabile.

Il Secchio e il Mare, questo il titolo, è un viaggio mistico e simbolico in un mondo caleidoscopico e vorticoso, di un’elettronica libera e anarchica, che tocca mood e stili diversi, rimanendo sempre nel campo della leggerezza e del gioco, di parole in libertà e di streams of consciousness. La ricerca che Pico Rama tenta è quella della “scoperta del sé”, attraverso parole snocciolate una dopo l’altra come mantra, preghiere, incantesimi. Il simbolismo è centrale: le canzoni sono un ciclo, basato sulla successione dei tarocchi, ed ognuna porta con sé una serie di parole chiave, veri fulcri che fungono da centri di gravità per le evoluzioni acrobatiche del nostro eroe alla ricerca di sé stesso.
Il ragazzo è bravo (anche se la sua voce ci ha messo un po’ a suonarmi “comoda” – ma ad un certo punto l’ha fatto, e questo è l’importante) e la ricerca è approfondita: “Thor e Fatima” è un accurato racconto di mitologie, “Cani Bionici (Technotitlan)” (con l’onnipresente Dargen D’Amico) unisce passato precolombiano e futuro distopico in visioni suggestive e assonanze killer. “Alla Corte Del Pazzo” (un brano folle, per l’appunto) e “Manitù” esemplificano il senso di spiritualità anche religioso che pare pervadere tutto il lavoro (“io non so com’è / ma come la percepisco / so che qui con me / c’è Mohamed insieme a Cristo / […] / gusto con l’orecchio / e ascolto col palato / so che di per sé / esser vivi è un risultato / e posso viaggiare senza rischio di attentato”). La title track devia in un paesaggio marinaresco e ironico (“la più sexy della nave è Bob”), mentre in “Rosa Quantica” (con Danti dei Two Fingerz) si torna su temi più cosmici e universali, e in “Dopo il Patto Rise” si prosegue cantando di “crisi, transizione, demoni, angeli”.

Attenzione: non fate l’errore di pensare che Il Secchio e il Mare sia un disco “pesante”. Nonostante i temi, la ricerca, le simbologie e la mistica, il disco è leggero, suona ruffiano quanto basta, a volte sembra anche cadere nell’autoparodia. Forse a parecchi Il Secchio e il Mare potrà sembrare una via di mezzo instabile tra un’intenzione “alta” e una messa in atto troppo “bassa”, ma questa scelta meticcia potrebbe essere anche la chiave giusta per leggere questo disco (lo stesso Pico Rama definisce la sua musica un “sound futuristico-sperimentale che pervade ogni brano dai testi spessi e dal chiaro intento narrativo simbolista, capaci di rivelare una fantasia mitica, poetica, giocosa e ironica”). Paradossalmente, questo “sincretismo” potrebbe anche essere il punto di forza di questo strambo, ironico figuro.
Un disco da ascoltare se vi piace la tecnica del rap come voce inconscia, se vi incuriosisce l’ambiente esoterico che permea i dieci brani, e soprattutto se avete l’apertura mentale per non farvi distrarre dalla mescolanza di stili e registri che Pico Rama mescola nel calderone, come un alchimista d’altri tempi.

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“Il secchio e il mare”, il nuovo album di Pico Rama

Written by Senza categoria

Con il suo nuovo nome, lanciato a marzo con un semplice tweet, PICO RAMA firma Il Secchio e il Mare, album di 10 tracce in uscita il 21 maggio 2013, che si avvale di prestigiose collaborazioni. La produzione artistica è di Marco Zangirolami, uno tra i più noti arrangiatori e produttori musicali italiani (come ad esempio di J-Ax, Fabri Fibra, Dargen D’Amico, etc.). Il disco è anticipato dal singolo Cani Bionici (Technotitlan), di cui potete vedere il video di seguito:

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Jack Folla – Jack Folla Ep

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I Jack Folla si presentano al pubblico con questo ep, omonimo, di 4 tracce, dove mescolano con abilità rap e rock duro, chitarre distorte e ritmiche serrate, nella gloriosa tradizione del crossover di stampo nineties.
Notizia buona e notizia cattiva. La notizia buona è che il lavoro suona benissimo (merito anche dell’ottima produzione di Cristiano Sanzeri di 29100 Factory, che personalmente mi ha stregato già in passato con la produzione di Ulysses dei Kubark). Scorre continuo e tutto è suonato bene: chitarre immerse in oceani di delay à la Limp Bizkit, batterie che pompano (e come suonano…), voci che s’intrecciano – il rap di Teo Zerbi ha un buon flow, mentre Dave Magnani ha un timbro da rock italiano che può essere un’arma a doppio taglio, discostandosi da quello che ci si aspetterebbe da un prodotto del genere, ma che almeno ne crea una versione peninsulare sui generis. C’è bravura anche negli arrangiamenti, e le melodie ricordano certi Crazy Town, ma anche parecchi di quei gruppi clonedei capostipiti del genere (Papa Roach, primi Lostprophets…).
Già, la cattiva notizia. Il crossover, fatto così, è nato, cresciuto e morto, e dal funerale ad oggi sono passati una decina d’anni. Siamo nel 2013 e nonostante la bravura indiscussa dei Jack Folla, a sentire questo ep si ha un senso nauseante di déjà vu. Sì, qualcosa di diverso dalla pletora crossover ’90-’00 c’è (le liriche in italiano, timbriche diverse, un approccio che possiamo considerare più orecchiabile e di facile ascolto rispetto ad alfieri del genere come Rage Against The Machine o Korn), ma non basta per fare dei Jack Folla un capitolo a parte.
Nella musica non si crea nulla, è tutto un ripetersi di cliché, smontati e rimontati in un circolo infinito di vita-morte-resurrezione. Detto questo, ascoltate (e godete) dei Jack Folla se il crossover è la vostra ragione di vita e non volete perdervi nulla (ma nulla nulla) di ciò che ne può scaturire. Altrimenti, fate un tuffo negli States di fine anni novanta e scoprirete un mondo.

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