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U2 – Songs of Innocence

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Martedì nove settembre è arrivata in mondovisione una fucilata. Uno apre iTunes e si trova davanti il nuovo disco della band più polare al mondo (sì, non sono The Beatles perché non fanno più dischi dal 1970 e non voglio credere che siano gli One Direction!). Io, tolto lo stupore iniziale, me ne sbatto della markettata soprattutto perchè non ci ho capito mai una mazza delle manovre di marketing. Quindi, che me ne frega se la Apple ha sborsato cento milioni di dollari? E allo stesso modo non mi tocca se ora gli U2 sono in vetta alle classifiche con le vecchie glorie mentre la gente punta il dito contro la mossa eccessivamente mainstream.

Attenzione, però, che qui la critica ci sta tutta, per altri motivi e non sarò certo io ad esimermi. Veniamo al dunque: questo disco è brutto! O meglio, insipido. Il più piatto e prevedibile di sempre della carriera del quartetto irlandese. Per quanto mi riguarda le aspettative nei confronti di un loro nuovo disco sono sempre esagerate e effettivamente parzialmente deluse da Zooropa in avanti eppure, in ogni caso, sono riuscito a trovare uno spiraglio, un ornamento che donasse nuova linfa a un vestito reso così sempre diverso, nuovo e sgargiante, sebbene con gli anni sia più plastico e meno colorato. Qui però l’abito è sbiadito, sgualcito, appiccicato con pezze sberluccicanti ma raffazzonate. L’inizio promette grandi cose ma il pretenzioso e divertente titolo sfoggiato in “The Miracle (of Joey Ramone)” crolla immediatamente all’arrivo degli inutili coretti “ooooh ooooh”, così inspiegabilmente Coldplay. Non bastano le rare pennate del chitarrone di The Edge a distogliermi dalla rilettura incredula di quel nome immenso: Joey Ramone; e dove sta l’antica anima Post Punk degli U2? La produzione di Dangerous Mouse (che per altro è affiancato da altri supernomi come Paul Epworth, Ryan Tedder, Declan Gaffney e Flood, sembrano messi lì quasi per il gusto di riempire la bocca) è sicuramente forte, presente, massiccia, moderna ma non porta in nessuna direzione, se non a una sterile autocelebrazione e ad un timido tributo alla musica Pop che passa dalle citazioni dei Police in “Every Breaking Wave” (una via di mezzo tra “With or Without You” e proprio “Every Breath You Take”) agli echi di “California”, che rimandano diretti a “Barbara Ann” dei Beach Boys.

Poi dopo aver scomodato senza successo l’eroe del Punk americano, viene chiamato in cattedra pure il Punk anglosassone. Ed ecco “This is Where You Can Reach Me Now” dedicata a Joe Strummer; ritmiche in levare da manuale e tastiere che rimandano ai primi anni 80. Finalmente un pezzo degno di nota nonostante i suoni lontani di una produzione che meno Rock’N’ Roll di così non poteva essere. Anche nei timidi tentativi di “Volcano” e “Raised by Wolves” la vena più elettrica fa fatica ad uscire. The Edge ne soffre, le sue parti alcune volte appaiono spinte a forza dentro i brani. Pure la coppia d’oro Clayton-Muller pare distante, persa nelle atmosfere una volta create dai loro tocchi magici e ora affidate ai guru del suono digitale. L’unico che pare essere a suo agio in questo marasma è Bono. Con grande classe salva un paio di pezzi con la sua voce che ancora fa rizzare tutti i peli che ho in corpo. “Songs for Someone” è spudoratamente ruffiana e già trita e ritrita, ma Bono, sornione, la asseconda regalando una prestazione vocale magica. Poi nel finale del disco intreccia le sue inequivocabili corde vocali con quelle mistiche e misteriose di Lykke Li, ospite azzeccatissima in “The Trouble”, danza Trip Hop ben governata da un pungente giro di basso e concluso da uno sbalorditivo (seppur purtroppo brevissimo!) assolo di The Edge. Mi spiace però, a questo giro non mi farò illudere da trucchetti. Questo album rimane privo di idee e, inutile colpevolizzare scelte di suoni o pompaggi digitali, mancano le canzoni. Manca quel senso di rivoluzione che è passato dalle scorie Punk di “Boy” fino alla Disco Music chitarrosa di “Pop”, ma manca anche una stupida canzonetta canticchiabile alla “Beautiful Day” o le prove Rock’N’ Roll di “Vertigo”, e non scomodiamo i capolavori. Spero davvero che tutto questo non si sia perso in mezzo a palchi 3D e occhiali da sole, perché forse sono troppo romantico, ma credo che il mondo della musica abbia ancora bisogno di questi quattro ragazzi. Sicuramente più di quanto la Apple abbia bisogno di farsi pubblicità con l’uscita di un loro disco.

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Karenina – Via Crucis

Written by Recensioni

Ne avevamo avuto un anticipo con l’EP Verso, uscito nel 2013, ed oggi, ad un anno dalla sua uscita, possiamo finalmente ascoltare l’album Via Crucis del quintetto bergamasco Karenina. Un concept album di undici brani, un viaggio lungo tre mesi nei meandri di un’ Italia massacrata da incessanti e continue tragedie, il solito insomma. Anche loro, dopo tantissimi, provano a raccontare l’Italia e gli Italiani, e provano a suggerire il da farsi per salvarla e per salvarci. C’è da dire però che il tutto viene proposto con grande originalità: nascondendosi dietro una maschera Pop Rock; una sonorità massiccia e di forte impatto spiazza l’ascoltatore grazie all’emergere di tendenze Prog in stile anni 90 ed a sintetizzatori d’era moderna, il tutto mescolato in grande stile con schiocchi di dita, trombe e classiche distorsioni, creando una circostanza alquanto psichedelica. Il classico “tappeto musicale” si trasforma in una “gabbia sonora” da cui cerca di emergere una voce, quella di Francesco Bresciani, una voce che appare critica, ironica, indignata, consolata dalle candide armonizzazioni di Ottavia Marini. I brani abbandonano completamente la struttura e la metrica classica delle canzonette all’italiana, come si può evincere da “La Sapienza” (#4), le linee vocali e la (non)metrica utilizzate si accostano più ai discorsi che alle canzoni e ai ritornelli ai quali siamo abituati, infatti questi ultimi non sono molto marcati come nel loro precedente lavoro; e a proposito di discorsi, quando un disco mira a puntare il dito, non può mai mancare il brano recitato: decenni fa Fabrizio De André scrisse “Sogno Numero 2”, mentre oggi possiamo ascoltare “Hey Tu!” (#8), anche se la recitazione è mediocre, ci fa guardare allo specchio, e se ci soffermiamo a riflettere, potremmo scoprire di non essere poi tanto delle belle persone.Tra i brani meglio riusciti rientrano “Per Vederti Ancora” (#6) e “Nel Centro del Paese” (#3): brani molto diversi tra loro, il primo breve ed intenso, si apre con un riff da perderci il collo; l’altro è semplicemente geniale, il maintheme è suonato con mani e voci ed è tra i pochi brani che riprende strofe e ritornelli da poter canticchiare. Dunque è questa la colonna sonora della Via della Croce, undici tappe dove la croce non serve nemmeno portarla; data di partenza fissata per il “26 Novembre 2010”; direzione Ovest, dove deve andare chi cerca quello che non vuole trovare. Le “bestie” di questa “bellissima” Italia sono invitate a lasciare il paese nel cassetto ed emigrare speranzosi, essendo sempre consapevoli di ciò che ci circonda, pur omettendolo, poiché la prospettiva è migliore se nasconde un po’ le cose. In pratica il disco è un po’ il quadro dei tempi odierni, una musica moderna e ricca di influenze di qualsiasi tipo, colma di idee nuove spalmate sul classico dei tempi andati, ornata da voci intense e carismatiche che mirano al nostro paese e alla nostra gente, puntando il dito contro tutto ciò che di marcio ci offre gratuitamente la nostra bella Italia.

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Karenina – Via Crucis [STREAMING e FREE DOWNLOAS]

Written by Anteprime

karenina ok

La band bergamasca, al secondo disco, realizza un concept-album in download gratuito che è un viaggio nell’Italia smarrita del presente, fra i fantasmi della cronaca e un forte desiderio di rinascita. Pop Rock rigorosamente d’autore ad altissima intensità emozionale. Via Crucis è un disco sviluppato nella cornice di un fatto di cronaca eclatante, che insieme ad altri accadimenti non meno noti forma una dimensione collettiva e identitaria in cui rispecchiarsi: l’Italia è un Paese di sangue e silenzi, travolto dal brusio mediatico di continue tragedie, un rumore bianco che annulla vite, biografie e corpi e lascia un enorme sensazione di smarrimento e voglia di fuggire. Tuttavia la responsabilità di questo decadimento etico non è sempre degli altri, ma di noi singoli individui, travolti sì, ma anche conniventi e deresponsabilizzati, perché “l’Italia è bellissima, ma ci vivono le bestie”. E allora è il momento di riprendere consapevolezza di sé, non attendere che la salvezza arrivi, ma cercarla con i propri sforzi (“io prego dio ma credo più ai suoi limiti / non viviamo nel migliore dei mondi possibili”). Buon ascolto!

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March Division – Metropolitan Fragments

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Tempi moderni. Suoni giusti al posto giusto, e soprattutto al momento giusto. Frenesia, elettronica soffusa tra chitarre ben pesate e liriche molto ritmate, ad intonare un ballo costante e ben scandito da secchi bpm.  I March Division vengono da Milano e pare nascano più come band di produttori che di musicisti live. Metropolitan Fragments è il loro nuovissimo lavoro dove i ragazzi non hanno di certo mezze misure. Il loro approccio è nettamente schierato e si sente: arrangiamenti magistrali, sound british che prende traccia dalle ultime orme sbiadite di Blur e Oasis per arrivare allo splendore odierno dei viaggi danzerecci dei Kasabian. La opener “Friday Will Come” non lascia molto spazio all’immaginazione e non dista molto dalle sonortità tanto amate da Pizzorno e Meighan. L’intermezzo di chitarra acustica e beat scarno colora un pezzo che già al primo ascolto ha il sapore del singolone. Per fortuna, nonostante la maniacale attenzione alla produzione non si perde il morso Rock’n’Roll. La dimostrazione ce l’abbiamo già con “Lonesome Prisoner” e “Black Noon”, così terribilmente graffianti e vicine alle composizioni dei fratelli Gallagher. Tutto è dosato in modo perfetto, tutto si mischia con matematica creatività. Le distanze sia allungano e si accorciano in continuazione nei sette brani. La danza etilica segue senza fiatare i colpi di rullante della lenta e cadenzata “Hangover Morning”.

La sensazione di ubriachezza e il presunto mal di testa passano piano piano con la spensierata “Out of Sight”, un toccasana, un’Aspirina frizzante bevuta di un sorso, un gioiello Brit Pop d’altri tempi. I suoni spaziano e ogni pezzo ha il suo sporco perchè, ogni brano potrebbe finire su qualsiasi radio mainstream, in ogni frammento si trovano tensioni e melodie. E nonostante i forti accenni e influenze, mai viene a perdersi la freschezza e il gusto di novità. Persino gli accenni Hard Rock di “Star Guitar” mandano su un altro pianeta, con un siluro sparato a velocità supersonica verso le stelle, dove troviamo un Dio che è più metropolitano che mai. “Urban God” è elettronica calda, che brucia le vene, si muove sinuosa tra le macerie e ci soffia in faccia il suo vento artificiale. Vento che per quanto possa sembrare fasullo, riesce benissimo a prenderci a schiaffi.

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Alessia D’Andrea – Luna d’Inverno

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Devo ammettere che nonostante il Pop all’italiana mi sia abbastanza avverso (fatta eccezione per alcuni rarissimi casi) la musica di Alessia D’Andrea tutto sommato non dispiace affatto. La voce della cantautrice calabrese ricorda molto da vicino quella di Fiordaliso (con le dovute giuste distanze però) ed Alessia D’Andrea ci mette del suo in tutto e per tutto per far capire che il sottobosco musicale rosa nasconde anche talenti come questo che, c’è da scommettere, non potranno passare per troppo tempo ancora inosservati . Notevole il suo personale palmares dove compaiono anche vittorie al Premio Mia Martini, al dodicesimo Premio Città di Recanati ed al Premio Musicultura che gli hanno permesso persino di entrare in contatto con sua maestà Ian Anderson (sì, proprio quello dei Jethro Tull). Quindi stiamo certamente parlando di un’artista talentuosa che inizia a calcare importanti palcoscenici.

Luna d’Inverno è prodotto in varie locations dall’etichetta indipendente RENILIN , si compone di dieci brevissimi episodi (nessuna canzone supera infatti i tre minutie “Anime Bruciate”, che conclude questo lavoro, supera di una manciata di secondi i due) che ad essere pignoli al massimo rappresentano l’unico vero (e purtroppo evidente) difetto del disco. Se non fosse poi per “Beyond the Clouds” Luna d’Inverno potrebbe essere considerato il primo lavoro interamente in italiano della cantante. Il primo singolo estratto, “Blu Occhi”, è stato scritta addirittura da Maurizio Lauzi, figlio d’arte del compianto e mai dimenticato Bruno, vero maestro e massimo esponente della scuola cantautorale genovese insieme a Fabrizio De Andrè, Umberto Bindi, Luigi Tenco, Sergio Endrigo e Gino Paoli. La malinconica “Alzami Nell’Aria”, nonostante sia un po’ statica nei ritmi, ha quel “qualcosa” che lascia estasiati e, senza togliere nulla a tutte le altre canzoni, è certamente l’episodio meglio riuscito del disco (pur dovendosi contendere il titolo in una lotta infinita all’ultima nota con la più complessa ed elettronica “Caccia Alla Volpe”). Promossa con debito formativo.

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Suntiago – Spop

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Il sound dei romani Suntiago è di quelli che quando li ascolti (magari per caso, mentre passano alla radio) non puoi evitare di battere a ritmo il piede destro, che tu sia in ufficio seduto alla scrivania in un piovoso pomeriggio primaverile, o a fine giornata, in fila alla cassa del supermercato. Pop Music come ripieno di giornate vuote di ogni ritmo, che alle ore 19 sei là in coda, assorta in considerazioni metafisiche quali la possibilità che sia finito il detersivo ma il grado di apatia è tale che piuttosto che tornare indietro a prenderlo consideri l’ipotesi di tornare a casa e fare del bucato sporco un bel falò. Se in quel momento la radio passa il pezzo giusto, che scioglie il torpore e ti concede persino un sorriso, collega desperate housewife, lasciatelo dire, hai avuto una gran botta di culo, che magari quel pezzo finisce per spedirti di buon grado a prendere il Dash salvandoti dall’avere l’indomani una giornata anche peggiore, che quelle che iniziano davanti ad un cassetto dei calzini vuoto non hanno possibilità di riscatto alcuna.

Delle tredici tracce che compongono Spop almeno cinque sono dotate di martellanti ritornelli, Pop “sporco” di quello che si insinua in chissà quale piega cerebrale e ci resta senza che tu abbia dato il consenso. Credo sia lo stesso luogo della memoria dove risiedono i testi dei Take That, che del detersivo non ti ricordi affatto ma invece quelli dopo una ventina di anni ce li hai ancora perfettamente limpidi. Non è un caso che io abbia citato i cinque bellocci di Manchester, perché il problema di fondo di un album pieno di ottimi intenti è un timbro vocale che a poco è valso sporcare di effetti per distogliere l’ascoltatore dall’idea che potrebbe trattarsi della voce di un componente di una qualsiasi boy band. Senza nulla togliere alle band per ragazzine, la questione mi appare un limite perché durante l’ascolto mi sembra di capire che gli intenti dei Suntiago fossero altri: “Seguimi” apre il disco con qualche chitarra dalle pretese Rock, “Nausea” e “Linea Sottile” sono piacevolmente Funk. Il ritmo è fresco, tendente al frivolo, ma è accompagnato da un cantautorato non privo di sostanza, con un paio di rimandi colti (come la scelta di intitolare un brano a John Bonham), come a sottolineare in ogni caso l’adesione a un universo sonoro in realtà lontano dagli esiti di Spop (quantomeno perché, se è chiamato in causa il batterista dei Led Zeppelin, uno si aspetta qualche virtuosismo tra le percussioni, ma invece loro al posto di una ricca sezione ritmica scelgono per l’occasione di sfoderare un organo).

L’album è ricco di tentativi di contaminazione da World Music, chitarra flamenca spolverata senza lesinare e un amore per l’Africa che è più nelle parole che nel sound. Poi in “Viola” compare una tromba, è la chiave giusta per uscire dal tracciato Pop e intraprendere la strada del Funk un tantino più audace, che però non ha seguito in altri brani. “Funk Off” è invece il caso più lampante in cui un timbro più caldo (o più semplicemente tonalità meno alte, meno effettate e forse anche un po’ meno ostentate) avrebbe condotto – a dispetto del titolo – verso un buon Rock dal sapore vagamente 70’s. Trattandosi di un esordio, c’è da dire che nel complesso l’album appare un lavoro decisamente organico, anche se per la cura del dettaglio sembra ci voglia ancora un po’ di tempo.  Nella track di chiusura, in buona parte strumentale, tornano le chitarre gitane a ritmo sostenuto e pochi versi efficacemente in loop. Torna indietro a prenderti ogni rinuncia. Signorsì. Grazie per la piacevole compagnia. Prendo il resto, imbusto e vado.

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Stereoscrash Mode – Stereoscrash Mode

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Può succedere che ti arrivi tra le mani un cd perfetto sotto più punti di vista, ben confezionato, con una bella presentazione per la stampa (che è un fenomeno più unico che raro), una super produzione tecnico-sonora con nomi illustri a far da garante laddove l’orecchio non coglie certe sottili paternità produttive, eppure non ti piace. La situazione delineata è esattamente quella che mi sono trovata a fronteggiare con gli Stereoscrash Mode e il loro omonimo album. I pugliesi sono attivi da parecchi anni, hanno all’attivo numerosi live e tanta esperienza e, in ultimo, hanno avuto la fortuna di farsi notare da quell’Enrico Cacace nominato ai Trailers Music Awards per la colonna sonora di Gran Torino di Clint Eastwood, che ha deciso di prendersi cura del loro disco. E una sovrapproduzione in studio è evidente nel brano di apertura “Quella che ti Gira”, un mix di Rock e ariosa Elettronica su cui si staglia un cantato alla Ligabue che ha l’unico pregio di essere tutto, rigorosamente, in italiano. “Se Mai”, manco a dirlo, ha sapore tutto cinematografico d’oltreoceano, con un apertura lenta e cadenzata, contrappuntata da chitarre elettriche riverberate: ancora una volta, però, è la voce a non avere nulla di originale. Gli Stereoscrash Mode fanno un Pop Rock ben concepito ma molto poco originale, che prosegue anche in “Adesso Ormai”. La traccia successiva, “Cercare più in là”, si discosta per arrangiamenti dai primi brani del disco, tutta costruita su sonorità Elettroniche e artefatte, appesantite però dal testo in rima, croce e delizia della nostra lingua, tutte incentrate su parole tronche alla fine del verso. “Sogni della Mia Vita” è deliziosamente Pop: niente da invidiare a un singolo di Ligabue, ma proprio per questo, al di là del gusto personale, decisamente poco personale. Un tentativo di ispessimento lirico caratterizza il testo di “Alessia”, in cui la voce, per una volta, sembra abbandonare il Liga tra i riferimenti stilistici e si ispira più al Cantautorato per tematica e scelta lessicale, sostenuta anche da un arrangiamento più particolare, con uno splendido pianoforte che strizza l’occhio alla dissonanza spesso e volentieri.

C’è dell’Indie Rock americano nell’intro di “Quello che C’è” che cede subito il passo al Rock nostrano del cantante di Correggio. Il disco chiude con “Sono Nato in Italia”: può non piacere l’arrangiamento onirico ma sicuramente si apprezza, come già nella precedente “Alessia”, una maggior cura del testo e una cifra stilistica più personale. La questione insomma è questa: puoi anche scrivere un numero di brani sufficienti per fare un disco, puoi essere intonatissimo ma purtroppo non avere un timbro personale, puoi essere circondato di musicisti validi e avere un produttore della madonna, ma se manca il messaggio, difficilmente riuscirai a distinguerti nella folla di band emergenti che ogni anno la nostra penisola sforna e dà in pasto al mercato underground. Non resta che augurare agli Stereoscrash Mode di capire il proprio limite e farne un punto da cui partire per individuare il proprio carattere personale, che, al momento, manca.

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Tuamadre – L’Invasione dei Tordoputti

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L’Invasione dei Tordoputti segna l’esordio discografico dei Tuamadre, un concept album carico di mistero, ricco di citazioni musicali e calembours, di featuring importanti (il noto comico Fabrizio Casalino e Mr. T-Bone, storico trombonista di Africa Unite e Giuliano Palma & the Bluebeaters) e parti recitate che proiettano l’ascoltatore nella storia portante del disco. Tanti i generi che si fondono e si miscelano fra loro di canzone in canzone, dallo Ska alla Dance, al Caraibico, al Pop Rock. Il tutto sempre condito con un tocco di tanta sana ironia ed ilarità (a cominciare dall’avviso iniziale contenuto nell’”Intro”). Filo conduttore sembrano essere infatti gli inframezzi scherzosi che aggiungono quel qualcosa che rende più piacevole l’ascolto (troppo esilarante “Lo Sherpa nel Bosco”). Presenti infatti dieci brani originali e quattro interventi recitati per catapultare chi ascolta nella storia ricca di piacevoli sorprese.

L’unica cosa che forse si sarebbe potuto evitare è il mescolarsi delle lingue (italiano ed inglese non possono coesistere in uno stesso disco, o peggio, nello stesso brano), ma per favore non cercate il pelo nell’uovo oppure inutili scuse per evitare questo lavoro che vi farà ridere, cantare e ballare nello stesso momento. Ad impreziosire il disco “Up & Down”, singolo estivo lanciato dai Tuamadre che ha riscosso ottimo successo in termini di download digitali e sul web in generale rimanendo in testa alle classifiche Reggae italiane di iTunes, Amazon e Google nella settimana di esordio, e “She Don’t Know Me”, ultimo videoclip rilasciato dalla band che consiste in Naim Abid (voce), Pietro Martinelli (basso, contrabbasso e cori), Gigi Magnozzi (chitarra, viola violino, cori), Eugenio Ruocco (batteria, voci), Lorenzo Bergamino (tastiere, vibrafono, marimba, percussioni), Francesco Mascardi (sax), Stefano Bergamaschi (tromba) e Tony Carvelli (trombone). Alla fine dell’ascolto mi rimane solo una domanda: “Ma chi diavolo erano i Tordoputti?”. La risposta è nella genialità dei Tuamadre (che ci regalano anche una ghost track).

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Euphorica – La Rivelazione

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Indubbiamente è quasi impossibile comprendere e percepire la distanza tra il mondo reale, quello dei megastore, dei dischi venduti, dei passaggi televisivi, dei video su Mtv e volendo anche Rock Tv o altri canali radiotelevisivi pseudo alternativi come quello XXX (mi autocensuro perché non abbiamo necessità di un’altra denuncia) di Virgin Radio e ciò che è il mondo di noi rincoglioniti che incurvati sul pc divoriamo recensioni su sfigate webzine, inseguendo una next big thing che in realtà non avrà mai un futuro, ascoltiamo migliaia di dischi e brani sconosciuti, provando a scorgere estro e genio, con la sottesa idea che magari saremo i primi a penetrare la grandezza dei futuri nuovi Joy Division. Se i nostri Have a Nice Life sono dei mostri d’inarrivabile talento, dobbiamo ammettere con disincanto che quelli cui frega sono veramente pochi. A questo punto, se proprio dobbiamo rotolarci nel fango del (quasi) anonimato, ci sia concesso quantomeno di godere di una qualità e un talento che mai proverà il pubblico dei suddetti canali radiotelevisivi pseudo alternativi di cui sopra. Se proprio voglio essere tra quelle duecento persone che ascolteranno il disco di una oscura band di una depressa provincia italiana, che mi sia concesso di origliare l’ostentazione dell’alternativo e non le brutte copie, o anche solo copie, di una delle band promosse da uno di quei canali radiotelevisivi pseudo alternativi di cui ho parlato prima. Come dire, se vuoi farmi provare del caviale da diecimila euro il chilo, fa che quella merda di uova abbiano un gusto fantastico perché di pagare solo il fatto che siano rare non mi frega molto.

Mi spiace che gli Euphorica e l’ascolto del loro secondo Lp La Rivelazione arrivi puntualmente dopo quello del nuovo lavoro di Kozelek, Current 93 e Have a Nice Life perché non posso negare che la cosa abbia fatto germogliare in me una discreta irritazione verso la musica italiana e la sua incapacità sia di azzardare e sia di promuoversi al di là dei canali di nicchia e ostentarsi a un pubblico che non sia solo appassionato di un certo specifico genere.  Mi infastidisce perché La Rivelazione, dopo diversi ascolti, si rivela un album di buona fattura, soprattutto se paragonato a quel tipo di Pop Rock nostrano i cui principali artefici preferirei non nominare. Piacciono molto le intromissioni del Folk (“L’Equilibrista”, “La Terra”) anche se ogni cosa, dalla sezione ritmica alle chitarre acustiche fino alle linee melodiche hanno lo scopo principale di intraprendere una strada Pop che vuole essere impegnata senza esserlo veramente. I testi, rigorosamente in madrelingua, raccontano secondo le più disparate sfaccettature, d’identità e maschere, di essere e apparire. Parlano di vita sfruttando riferimenti colti (“Demone”) ed episodi reali (“Il Predicatore”), raccontano la paura (“Shangri –La”) affrontando immancabilmente il sinonimo più poetico di vita stessa e cioè amore (“L’Ultima Danza”, “Tu”).

Il disco degli Euphorica spazia dall’Indie Pop accurato negli arrangiamenti (“Visione”) e dai riferimenti al Pop da classifica che però non si affanna dietro la ricerca ossessiva e ansimante di una melodia banale ma di successo, un po’ come il Niccolò Fabi meno noto (“Giuda”), fino al Rock attento a testi e armonie dei Tre Allegri Ragazzi Morti (“La Rivelazione”), con le quali le affinità vanno anche oltre le ovvietà delle linee vocali, che nel qual caso fatico ad apprezzare anche ben oltre gli aspetti puramente tecnici. Anzi, arriva a infastidirmi particolarmente quando insiste sulle vocali finali tanto che il pezzo che più riesce a emozionarmi non ha testo, né titolo e tuttavia non brilla neanche per originalità. La Rivelazione è un disco che ti fa arrabbiare quando poco prima hai ascoltato il mondo innaturale di una band del Connecticut ma che riesce anche a farsi perdonare, man mano che la musica si scioglie come neve nelle orecchie, magari lasciandoti nel cuore anche quel brivido di una goccia gelida che scorre sul collo. Non mi piace troppo quello che fate, non mi piace per niente anzi ma se proprio dovete farlo, per favore fatelo cosi.

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Be Forest – Earthbeat

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Luogo d’ascolto: davanti ad una puntata di Ballarò senza volume, il miglior modo per capire la politica, guardando solo le facce.

Umore: come di chi non si spiega perché ha voglia di pulire lo schermo con la carta igienica.

Secondo lavoro a distanza di tre anni (il primo Cold era del 2011) per i pesaresi Be Forest. Pesaro in musica, dove l’avevo già incontrata? Già, poco tempo fa avevo recensito il disco dei Soviet Soviet che condividono con i Be Forest la provenienza. Evidentemente non è un caso, seppur con mio sommo stupore considerato il clima e la vocazione estiva della città marchigiana, perché lì dove la cadenza abruzzese cede il passo a quella riminese deve esserci una scena molto devota a certo tipo di atmosfere musicali demodè e piuttosto 80’s. Non che i Be Forest siano simili ai Soviet Soviet, per carità, il punto di contatto è che entrambe le band sembrano attingere a quel lato più cupo e ipnotico di quegli anni Ottanta che furono di band come, la prima che mi viene in mente e senza nemmeno sforzarmi, i Cure. Operazione meritoria, troppo spesso e per troppo tempo quegli anni li abbiamo identificati con le spalline di Simon Le Bon e i colpi di sole di Nick Rhodes, invece in quegli anni si costruì quel movimento che avrebbe influenzato sotterranei di rock di almeno altri tre decenni, benché riconoscerlo non era facile e spesso lo si arguiva solo dai riferimenti che professavano band che risultavano molto diverse in termini di proposta musicale. In questa ventata di Alt Rock tutta italiana invece sembra di sentire proprio quell’odore di quegli anni, in maniera chiara ed inequivocabile, non solo per le armonie o le progressioni dei pezzi ma anche e forse soprattutto per i mixaggi. In Earthbeat i riverberi sembrano ricostruiti fedelmente ad immagine e somiglianza di quelli dei tempi che furono, tutto sembra esser stato scelto in funzione di un’idea onomatopeica della musica, di un disco che evochi i suoni della natura. L’uso insistito di timpano e di linee di basso ostinate sugli ottavi ricorda i addirittura i primi U2, i temi della chitarra sono così soffusi da integrarsi benissimo con la voce fredda di Costanza Delle Rose come due fari di una macchina nella neve al buio.

Il disco inizia con ben undici secondi di silenzio prima di “Totem”, il primo pezzo, ed è sicuramente una scelta rischiosa perché presta subito il fianco alla battutaccia del recensore stronzo “sono gli undici secondi migliori del disco”; non sarà il mio caso perché il disco l’ho ascoltato più volte e l’ho gradito dal primo ascolto. Inizia e segnalo un arpeggio molto simile ad una suoneria di iphone: mi ha messo diverse volte in difficoltà perché pensavo di ricevere una chiamata ogni qual volta mettevo su il disco. Tra i pezzi da segnalare in una tracklist che scorre via fluida ma anche fin troppo liquida c’è sicuramente “Ghost Dance” tutta imperniata con melodie pentatoniche dal vago sapore giapponese che sembrano scritte usando solo i tasti neri di un piano, impreziosita anche da un bel suono di synth analogico molto vintage; inoltre “Sparale”, onomatopeica e ipnotica con il suo tema costruito su una scala maggiore ripetuto fino allo sfinimento che riesce a riprodurre mirabilmente l’idea visiva di uno scintillio, che poi diventa un abbaglio e poi colpo di sole che alla fine ti stordisce per quanto è ossessiva. Complessivamente i Be Forest, rispetto al primo lavoro (lo dico senza mezzi termini, mi è piaciuto di più) cercano una normale e fisiologica evoluzione che solo in parte si è sostanziata in idee musicali valide. Sembra che vogliano andare verso una direzione ma ancora non hanno chiara la strada da percorrere. I pezzi sembrano non esplodere mai e rimangono sempre molto sospesi in un terreno emotivo in cui l’ascolto finisce per essere disorientato. In questo disco è altissimo il rischio di non ricordarsi un pezzo più di un altro, altissimo il rischio di non mettere il disco per ascoltare ma per accompagnare con il sottofondo un’altra attività, fortissimo la sensazione che utilizzare lo stesso chorus su ogni chitarra del disco finisca per azzopparne la versatilità.

Forse però il vero problema è un altro ed è il mio: forse il problema che ho recensito i Soviet Soviet prima di loro e forse, non so se succedeva anche negli anni Ottanta, al secondo disco in quindici giorni questa scena comincia a diventare moda, comincia già a risultare un po’ posticcia. In due parole mi ha rotto un po’ i coglioni.

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Caligo – Fragili Ossessioni

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Ammirati dal vivo appena qualche settimana fa, non ho certo potuto esimermi dall’ascoltare il lavoro dei liguri Caligo anche su disco, quantomeno per controllare la resa del loro Pop cosi regolare, in un contesto meno triviale e casinista come può esserlo un live contest in un piccolo locale a cinquecento chilometri da casa. Innegabile che il mio desiderio di sviscerare abbia dato parecchie risposte convincenti ai miei dubbi. Se live l’ottima timbrica e lo stile di Marco Ferroggiaro erano spesso in contrasto con qualche imperfezione di troppo sia alla chitarra di Marco Maccianti, specie negli assoli, sia di Matteo Moggia alla batteria e se lo stesso Marco non era in grado di rendere complici gli altri musicisti, come Danilo Solari al basso, in quel fervore ineluttabile per suscitare empatia col pubblico, su disco, tutti questi limiti sono colmati e quello che resta in superficie sono le qualità di una band che ha ancora tantissima strada da fare ma che si dimostra prontissima a mangiare polvere e sudore e a macinare miglia. Il disco è autoprodotto e, com’è comprensibile che sia, il livello qualitativo della cover e del package non sono certamente il massimo. Allo stesso modo non convince troppo la registrazione, che, in alcuni brani ad esempio, sembra tenere troppo bassa la voce rispetto al resto (“L’Abitudine”) e non è l’unico difetto in cui ci si imbatterà.

Una cosa, però, sanno fare bene i Caligo; hanno ben chiaro come scrivere canzoni, riescono a scribacchiare quei pezzi di Musica Leggera che hanno fatto la fortuna di tanti colleghi in Italia. Brani come “Espiazione” o “Voce15” sono hit potenziali dal garantito successo se solo qualcuno le includesse nello spazio che meritano e che più si confà loro, ma anche i brani meno ordinari (“Eccomi”), più potenti musicalmente o anche solo fuori dagli schemi canonici del Pop tricolore, hanno degli scheletri melodici da far invidia ai più grandi. Quello che difetta ai Caligo per fare breccia è qualcosa che idealmente possiamo dividere in due parti distinte, poiché ho avuto la fortuna di osservarli anche in chiave live. Sul palco dovrebbero mostrarsi con maggiore trasporto e, soprattutto i chitarristi e non tanto il cantante e il batterista, dovrebbero assecondare Marco Ferroggiaro nella sua incisiva teatralità passionale. Troppo ancorati e l’idea di chi guarda è quella di una band occasionale messa al servizio del singolo artista, come fosse fatta da spogli turnisti. Inoltre i troppi strafalcioni trasmettono una difficoltà nell’esecuzione di certi brani, per cui sarebbe forse il caso di adattarli e arrangiarli in maniera più consona alle proprie attitudini.

Su disco questi grattacapi sono buttati alle spalle, anche se emergono altri limiti sostanziali. Escludendo il discorso su artwork e registrazione (siamo costantemente in contatto con le autoproduzioni e quindi non ci sentiremmo mai di condannare per qualche imperfezione di questo genere, se non troppo marcata) c’è da dire che i Caligo non possiedono certo una tecnica fuori dal comune, non sono provvisti di una voce che possa reggere da sola tutta la proposta artistica, non hanno un prodotto alternativo al resto da farci ascoltare. Sanno scrivere canzoni, questo sì, ed è su questo che possono e devono lavorare. Elaborano belle composizioni, con buonissime melodie, ma se questo vuole essere il loro punto di forza, si deve adoperarsi il doppio, con una ancor più meticolosa ricerca melodica e magari, creando una struttura dolce che possa fare da impalcatura alla musicalità più curata e che vada oltre l’esecuzione strumentale didattica di oggi.

In aggiunta, anche ai brani più buoni scarseggiano dei ganci utili a rapire immediatamente l’ascolto ed è su questo che devono lavorare, sul sound, su hook subito avvincenti che rapiscano l’orecchio di chi magari ascolta distrattamente per poi aprire la strada alle armonie vocali di Ferroggiaro, oltretutto avvantaggiato dalla lingua italiana usata con dedizione, visto che parliamo di ambienti popular. Una volta fatto ciò, le canzoni potranno suonare in mille modi diversi, più naturali come le hit già citate o più cariche come “Pioggia sulle Ossa” (che contiene una pseudo citazione di Bob Marley), non importa. Perché una volta che un brano ha un gancio, una melodia d’impatto, una buona voce, un discreto arrangiamento e una degna registrazione, tutto quello che serve è solo un posto dove far girare il disco, il resto viene da solo. Il Pop non è Musica Leggera ma molto di più.

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Placebo – Loud Like Love

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Ci sono stati momenti di vero panico per il mio elettrocardiogramma emotivo durante l’ascolto di Loud Like Love, ultimo disco dei Placebo. Alla vista di un tracciato piatto ed in presenza di un suono Biiiip  continuo, il medico di turno era pronto a decretare la morte di qualsiasi forma di emozione,  sentimento o stato d’animo, dalla felicità più sconvolgente all’angoscia più devastante, per citare solo gli estremi di un lungo intervallo di sfumature sentimentali che la musica è capace di generare. Tuttavia, prima di mettere nero su bianco una definitiva sentenza di morte, un ultimo brevissimo Bip ha rimesso in moto quella macchina infernale generatrice di turbamenti che i comuni mortali chiamano cuore, insieme a tutto ciò che è capace di contenere, risollevando in questo modo le sorti di un album che troppo spesso si abbandona ad un Pop Rock, passatemi il termine, “scontato”, ma che a tratti riesce ancora a regalare momenti di piacevole musica.

“Loud Like Love” (traccia che dà il titolo al disco) ad esempio fa pensare ad una corsa disperata dettata dal ritmo sostenuto di chitarra e percussioni, che si ferma a riprendere fiato proprio nel momento in cui Brian Molko canta Breathe. “Scene of the Crime” sembra voler tentare il colpo riproponendo il lato più oscuro dei Placebo, ma è un colpo che non va mai a fondo e si riduce a rimanere un graffio in superficie. La discesa comincia con “Too Many Friends”, una critica contro i social network che si perde in ovvietà di ogni tipo ma si salva grazie ad un ritornello orecchiabile, e continua con “Hold On to Me”, che potrebbe passare tranquillamente inosservata se non fosse per la voce di Brian Molko che resta comunque un elemento valorizzante, nonostante tutto. Segnali di ripresa arrivano con “Rob the Bank”, dove il ritmo si fa più sostenuto, ed “Exit Wounds”, dove i protagonisti sono i suoni elettronici della parte iniziale che esplodono in una moltitudine di chitarre, riprese poi nella successiva “Purify”. “Begin the End” annuncia, di nome e di fatto,  la fine del disco che si chiude con la melensa, più che romantica,  “Bosco”.

Un album che genera un elettrocardiogramma emotivo instabile insomma, fatto di momenti  in cui ti daresti per spacciato, e momenti in cui ritorna un barlume di speranza a farti credere che davvero qualcosa di nuovo possa ancora accadere. Ma quel qualcosa non accade. Non in questo album, almeno.

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