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Nympea Mate – Endio

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Ma avete mai osservato il vizio di paragonare alcuni luoghi, paesaggi, città ad altri luoghi, paesaggi, città più o meno vicini nello spazio-tempo? Questo vizio in genere mi fa incazzare. Mi fa incazzare perché il posto in questione perde di identità e anche di dignità.
Anche nella mia città, Rivoli, ma ancora di più nella vicina Torino, mi è capitato più volte di ascoltare deliranti discorsi di mediocri turisti (io sono un pessimo turista perchè non ho visitato quasi niente, ma per fare il turista non basta aver fatto tanti viaggi) che si sforzano a giocare a Memory con le celle della loro memoria, arruffando paragoni azzardati tra Torino e città europee più o meno vicine a noi.

In questo gioco a volte la città viene esageratamente sopravvalutata, perdendo così il meraviglioso contrasto delle sue radici nobili e industriali, oppure viene sminuita a cittadella di montanari operosi che è diventata così cool grazie a locali radical chic vicino al fiume e alle Olimpiadi.
Lo stesso identico discorso vale per la musica sfornata dal capoluogo piemontese e delle sue zone limitrofe. Spesso surclassato dalla immeritata prepotenza milanese, l’underground rumoroso sabaudo incassa colpi duri e rimane in cantina. Per poi non parlare di chi azzarda ad afferrare il bollente testimone dei mostri sacri oltre oceano o oltre Manica. Qui Torino diventa la Berlino priva di fremente luce artistica, le mummie del museo egizio diventano l’ombra della Stele di Rosetta e la Fiat una piccola costola della General Motors. E tutti i gruppi che senti nei sudici club allagati dalle piene del Po diventano schifosi tributi maldestri a Velvet Underground e New Order, se non peggio a Nada Surf e Radiohead.

Questo è quello che capita a una band chiamata Nymphea Mate, composta da quattro ragazzi ben piantati in terra sabauda e innaffiati con pioggia londinese. Tanto british da essere catalogati spesso come gruppo “brit-pop”, termine che mi da i nervi proprio come molte altre stupide catalogazioni: “indie”, “alternative” o “power-pop”.
I ragazzi suonano inglesi, è verissimo, ma non rinunciando ad interessanti variazioni sul tema come i chitarroni pesanti di “Billy Vanilla” e “Song for The Leader” che sembrano più di Josh Homme che di Noel Gallagher o le melodie della opener “Sir Constance” che sembra il nuovo singolo dei Band of Horses in rotazione su Virgin Radio. Insomma una buona porzione di U.S.A. se la ritagliano, e pure negli episodi migliori del disco.

I suoni e gli arrangiamenti vantano un grande equilibrio nel limbo tra i due universi pop e rock, le due realtà firmano un momentaneo armistizio e vivono in pace e armonia in ogni brano di “Endio”. Tra chitarroni rock’n’roll che ammiccano allo stoner, melodie ammiccanti e un tappeto sottostante (semplice ma efficiente) che guida la banda, le due parti ostili si abbracciano, si toccano e a volte si lasciano andare in una folle danza come nello scoppiettante finale di “Waiting for The Bang”.
Tutto sembra cotto a puntino, salato il giusto, ma manca di spezie. Mancano allo stesso tempo quel pizzico di personalità e quella spolverata ruffiana che farebbero entrare dritto dritto un loro brano nella top 10 di NME.
Insomma il disco scorre, ma proprio come la fastidiosa pioggerellina londinese ti lascia un po’ bagnato e non entra nelle ossa. Anzi con un buon impermeabile non arriva neanche alla pelle.

 

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Onirica – Com’e bella la mia gioventù

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Una piccola boccata d’ossigeno, finalmente una disco pop-rock che suona e parla “serio” nell’indie con un calore tutto vintage, profondo e libero da tutti quegli amori sfigati, di quelle belle che gira gira comunque non te la danno o appuntamenti buca con incazzatura inclusa, un disco che man mano srotola la sua tracklist rilascia storie, parole, ritmi nell’onestà di nessun costrutto strategico, con nessun abile sotterfugio che tenti di toccare le corde della mediocrità, ma una serena accettazione riflessiva di quello che succede o succedeva dietro gli angoli di vita.

Com’è bella la mia gioventù” è l’esordio dei campani Onirica, disco di suggestioni e pezzi di vetro che arrivano e si conficcano nell’animo come confidenze di un miglior amico, ricchissimo di pathos e straordinariamente bello nel tono da “ti racconto io com’è la vita”, quel simbolismo che raggiunge livelli alti come un depositario delle verità intime, umane.

Dieci istantanee che fulminano le immagini, uppercut e carezze, lividi ed ironia sono le casse di risonanza di un registrato che arriva anche ad emozionare in certi picchi lirici come lo squarcio su PasoliniGiulia GT” o il ricamo di corde acustiche che cade sul buio di una generazione e i veleni di Sindona e Gelli Canzone per papà”; un album che raccoglie in se un universo sonoro variegato, ma mai confuso, con un unico comune denominatore; raccontare immagini e realtà di ieri che poi sono quelle d’oggi e di domani, canta d’idee e occhiate che spesso vogliamo nascondere come il controtempo che beccheggia sulle differenze razziali “Pied-noir”, il ritmo carrettero che sottolinea i problemi delle morti sul lavoro “Macchine”, il No alla guerra “La preghiera del presidente” e i ricordi della guerra che poi in verità non è mai finita, seguita a vomitare ingiustizie, odi e rancori come una porta socchiusa ma mai chiusa del tutto “La guerra è finita da vent’anni”.        

Canzone d’autore e pop si mischiano in continuazione, elettricità e acustico danzano insieme in questa bellissima rappresentazione di “bellezza” suonata, sempre in sintonia tra realtà e grammi d’immaginario che – una volta assemblate insieme –  si fanno chiodo fisso di un benessere che ti entra in circolo e ti fa suo per una giornata intera “Una coppia”.

Onirica: non lasciamoceli sfuggire. 

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Esclà – Salta il tappo

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Okkio, il nome della band e relativa cover album potrebbero depistare  di non poco, perché verrebbe da pensare che  il tutto sia una stravaganza giocosa di cose messe in musica demenziali e per tormentoni tardo (issimi) estivi da piazzare da qualche parte; invece “Salta il tappo” del quartetto bolognese degli Esclà sorprende perché il suo cantautorato d’insieme fatto di giochi pop-folk striati di rock, fa pensare, riflettere e stare con i piedi in terra senza rinunciare a quattro bei salti di goduria folk nostrana.

Tredici percorsi atletici che infondono calore e forza motrice, tredici tracce ritmate, vive di sensazioni e coraggio che attraversano l’ascolto come un arcobaleno lasciandoti in dote – nel fondo dell’animo –  il senso di soddisfazione di aver ascoltato qualcosa, più di qualcosa, d’intelligente e vero.

Sincerità radiofonica, caratteristiche multi-matrice e quella bella semplicità declamatoria che ne fa un prodotto assimilabile immediatamente, una definizione sonica marcata d’autore che si fa notare specie nelle liriche e nelle ibridazioni che hanno un’inizio e mai una fine; se da stereo il disco da la voglia matta di dimenarsi a sfinimento, figuriamoci il quartetto complice su prestazioni live quello che potrebbero combinare e scatenare a loud al massimo, l’inimmaginabile, pogo e libertà di slogamento a go-go, anche per quel filo teso di nascosto che riporta virtuosismi alla Pogues e affini “Alfredo”, “Spazzanoia”, o per le contemporaneità  di rimbalzo rock-rap  “Io le odio le band emergenti” che non perdonano i momenti di stallo fisico.

Una band che brilla di suo e un vocalist che fa grandi numeri espressivi, teatralità e suggestioni a tutta voce che disegnano ballate sarcastiche “Salta il tappo”, smuovono spennate acustiche che si dondolano in due voci prima di accendersi d’elettrico “Voglio prendere in giro”, scandiscono il movimento di fianchi di un blues canaglia “Il sole a scacchi”  e finiscono in quei quattro minuti e quarantotto di magnificenza, di lusso d’ascolto della ghost track che segna numero quattordici della tracklist, un Guignolesco atto declamatorio di poesia che sanguina bellezza.

Eccellente come un vino d’alta genealogia, come dire…Esclà (mativo) senza riserve!

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