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Klogr – Till You Turn

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Ascolto: durante la preparazione di un pranzo post sveglia.

Umore: impreparato per il metal di prima mattina.

Confesso una cosa che un recensore non dovrebbe mai dire: non sono il tipo più adatto per recensire un disco di metallo pesante, non mi appartiene come modo di sentire la musica e forse non mi apparteneva neppure quando avevo 14 anni e avevo capelli lunghi e rabbia adolescenziale ammassata in gran quantità dentro. I Klogr per di più non sono nemmeno male e il loro disco si lascia anche ascoltare: riff di chitarra molto energici e ben congegnati, sezione ritmica buona e inappuntabile. La voce è esattamente quello che vuole ascoltare un estimatore dell’Hard Rock, completo il campionario di graffi, urla ad ottave che confinano con i richiami per i cani, metrica dei testi sempre serrata e ben avvitata all’arrangiamento.

I Klogr suonano da manuale ma forse troppo in stile; il metal nei suoi mille e cinquecento rivoli diversi che non ho mai imparato né avuto la pazienza di capire nel dettaglio continua ad essere uno stile inossidabile e sembra nonostante tutto non patire flessioni, forse perché legato ad un pubblico coriaceo e ostile alle mode. Questo, va detto con fermezza, è un punto a favore anche dei Klogr che suonano il loro disco “Till You Turn” davvero con maestria e sorprendentemente come una band planetaria abituata ad esserlo da anni, il che è facilmente riscontrabile nelle ultime tracce registrate dal vivo. Il loro limite, o forse il mio nel doverli giudicare freddamente e senza alcun attaccamento a questo suono, è che non si capisce bene quale band planetaria sia, il disco suona talmente in stile che sembra essere un disco di un’altra band. La coriacea ostilità alle mode ed anche alle contaminazioni che spostano l’asticella del progresso musicale un po’ più in là colpisce, come quasi tutti gli ascoltatori metal, anche i Klogr: troppo attenti ad essere perfetti da sembrare perfettamente una band qualsiasi. Una band di cui non conosco il nome. Ampia sufficienza ai Klogr, pienamente meritata, insufficienza inevitabile per il recensore impreparato.

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Silent Carrion – Suprematism EP

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Molti filosofi nel corso dei decenni si sono dibattuti sul considerare o meno questo il migliore dei mondi possibili e se cuore non fa sempre rima con sole, spesso lo fa con amore, anche se ci sono delle eccezioni. I Silent Carrion, band trentina, infatti, faticano a sentirsi attori di questo giocoso gioco e con un nome che richiama saghe dal sapore horror si lancia musicalmente in un’ardita sperimentazione: Il primo EP, di una trilogia Drone Noise Metal, titolato Suprematism I Jupiter. Ora, per chi non si fosse perso tra cupcakes fluo e golosi pan di stelle, il Drone è un genere poco familiare alla penisola italica, figlio ingrato, forse, di Madame Black Metal e Monsieur Doom.

Non spaventatevi, quindi, voi che ascolterete l’EP, se il livello di gradevolezza e melodia scenderanno a livelli minimi, da fossa delle Marianne. Ammetto che ronzii e rumori non sono un ascolto facile per tutti i palati musicali, anzi si dovrebbe parlare di nicchia salvo che uno non sia nato in Norvegia. Con queste premesse le sei tracce, esclusivamente strumentali dell’Ep, non si presentano al meglio; i ragazzi trentini ci provano a creare nuove forme espressive del genere contaminandolo con l’Elettronica, l’Ambient e il Metal, ma l’esperimento non riesce alla perfezione e risulta poco convincente. Le classiche atmosfere Drone si perdono nel caos che si crea e sembra di vagare tra la casa di Dracula di una Gardaland attempata e un bosco del varesotto durante un raduno delle bestie di Satana. Perché anche se si parla di rumore, non vuol dire che questo non abbia delle prerogative o attitudini, e se in alcune tracce si riesce a percepire un non so che del primo Burzum sotto prozac, non si riesce a ritrovare lo stile da manuale dei padri Sun O))), creatori del manifesto programmatico del genere.

La sperimentazione spesso è un’arte e al tempo stesso una necessità per dei musicisti, e innovare e contaminare probabilmente ne rappresentano le chiavi, ma non sempre i generi lo permettono. Questo Ep non riesce a colpire nel segno, ma considero i Silent Carrion coraggiosi nell’intraprendere e nel portare avanti una loro visione musicale di un genere a dir poco ostico. Probabilmente nemmeno il Vegan Black Metal Chef avrebbe potuto, visti gli ingredienti, creare un piatto così amaro da buttar giù. Credo che questo non sia per i Silent Carrion il migliore dei mondi possibili.

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Black Sabbath – 13

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Da premettere che lo scrivente è (era) un incallito pipistrellone succube dello stupendo doom primario dei Black Sabbath, schiavo senza catene della loro “messa nera” fatta di basso compresso, chitarra sulfurea, ritmi e voce luciferini che ascoltava prettamente da mezzanotte in poi ( quando si è giovani queste sono normalità guadagnate contro vicini e genitori indiavolati ma di ben altro), e per anni – pian piano smorzati –  ci si è immedesimati come giugulari pronte a farsi succhiare da Mr. Ozzy Osborne, ma appunto poi tutto passa e tutto svanisce.

Ho appena ascoltato 13, il nuovo lavoro per la riformata band di Birmingham e. con tutta franchezza l’amarezza ha preso il sopravvento, il sound, la pressione atmosferica, il pathos digrignate mantiene qualcosa di allora, ma si sente, eccome si sente, la noia e la stanchezza e la vuotezza che prevale in un tutto sonoro, è come entrare nel Museo Egizio e uscirne con la consapevolezza che mummie e sacerdoti effigiati abbiano ripreso a muoversi per un allestimento pacchiano dettato da chissà quale interesse; le fiamme, i carboni ardenti sempre accesi, il diavolo tentatore sempre in agguato, ma non è più nulla come una volta, l’età gioca brutti scherzi e sarebbe meglio mettersi in disparte per non scadere nel ridicolo del revivalismo a tutti i costi, e questo progetto di Osbourne, The Geezer, Tony Iommi e il nuovo Brad Wilk degli RATM e che ha sostituito alle pelli il mitico Bill Ward, ne è la prova lampante – non di idee – ma di un pastrocchio pubblicitario pur di non rimanere a galla nell’oblio, nel dimenticatoio.

Gotic, Doom, Metal e “venghino venghino siore e siori al grande miracolo del Gerovital” non vanno a concludere niente, i Black Sabbath con questo loro diciannovesimo album in studio rifanno è stessi allo sfinimento – e questo potrebbe essere anche una virtù – ma  è la vivacità, l’energia e la forma che è sparita per sempre, un teatro dei rientri che non aggiunge nulla – anzi credo che tolga al mito – se non una sceneggiata metallica per vecchi ed imbolsiti fan che pur di non ammettere la “resa” di una della più grandi band della storia, ancora sta lì a sbattere la testa alla faccia della cervicale dolorante; “God Is Dead?”, “Zeitgeist”, “Live Forever” o “Dear Father” – per citarne alcune – sono il bardo indistruttibile del logo Black Sabbath, ma fanno parte del Novecento, e senza nessun aggiornamento, senza alcun passo in avanti, va a finire che anche i pipistrelli che affolleranno ancora le loro prossime truculente manifestazioni di lugubre magnificenza, preferiranno darsi a gambe/ali levate pur di non scadere nel ridicolo, pur di non cadere nelle riunion da cassetta. Anche gli animali hanno un orgoglio!

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Blinding Tears – Real Life Isomorphism

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Il cantante Niccolò Fontanelli, i chitarristi Giulio Poggi e Bruno ”JC” Malevoli, il bassista Alessio Cappellini, il batterista Filippo Ceres e Francesco Cacciante, keyboards e synth, formano i Blinding Tears, nati nel 2006 ma sostanzialmente nella formazione odierna dal 2008. Fin da subito il gruppo inizia a scrivere brani originali e fin da subito il genere appare molto chiaro: Metal. Ma quel Metal particolare che grazie alla sovrabbondanza di chitarre e tastiere si potrebbe inquadrare nei generi Power e Progressive, il che rende tutto molto più interessante, ritmico e ascoltabile. Il gruppo cita anche le sue influenze più forti: Dream Theater, Tool, Opeth, Rhapsody of Fire e ascoltandoli come non si potrebbe essere d’accordo?

Il primo lavoro ufficiale dei Blinding Tears è Real Life Isomorphism, uscito nel febbraio di quest’anno. L’album oltre che a presentarsi con una grafica moderna e computerizzata, si divide anche in quattro “atti”: Course of Freedom, contenente due brani dalle tipiche sonorità Metal e con quella bella puntina di Rock espresso dalle chitarre. S.O.S (Shape of Self), seconda parte più corposa e certamente quella più melodica data la presenta di brani lenti come “Flow Away” che potrebbe far ballare due innamorati. Descent, invece contiene due brani, “Haunted Asylium” di ben 8 minuti e 41 dove i sintetizzatori la fanno da padrone e sorvolo sul minuto 3 e 39 che mi ha fatto ricordare non so come le t.A.T.u. e “HH” già a mio parere più centrata. The Circular Maze invece è la quarta e ultima parte che scorre veloce per interi quattordici minuti. Piacevole “Beyond the Cold” con le sue chitarre acustiche che dopo il terzo minuto si trasformano in elettriche con un ritmo più incalzante, che via via si trasforma in brani sempre diversi. Insomma una vera e propria suite Metal.

Real Life Isomorphism, quindi, è un buon primo lavoro con molte idee centrate, belle chitarre, buona tecnica e amalgama musicale. Un lavoro che non si chiude nella sfera del classico Metal ma che viaggia e sperimenta sonorità anche più romantiche e questo per quanto mi riguarda salva tutto l’album. L’unica pecca forse è la voce, molto Metal e intonata per carità, ma che non contiene nelle sue corde un colore predefinito e particolare che la faccia riconoscere tra mille. Insomma per gli amanti del genere è un album da ascoltare e un gruppo da seguire, poi sta ad ognuno giudicare per consacrare o distruggere. L’unica mia curiosità finale sarebbe stata quella di ascoltare qualche brano in italiano e non perché io sia una sfegatata amante della nostra lingua, ma perché certe volte la lingua madre potrebbe risultare più impervia ma più soddisfacente.

Chiudo con la frase che apre questo album e che mi ha incuriosito: “Io ho avuto due padri, uno mi ha dato la vita, l’altro mi ha mostrato il suo significato…”.

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Pills (contraccettivo efficace) Consigli Per Gli Ascolti

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“Prendo la pillola contraccettiva da più o meno 7 anni, è possibile che una pillola anticoncezionale smetta di fare effetto sull’organismo e quindi non funzioni più?” (cit. di un forum medico)
Questa volta invece dell’esperto rispondiamo noi, beccatevi le nostre Pills dall’effetto duraturo e immediato.

Ida Diana Marinelli
Cibo Matto – Viva! La Woman (USA 2006)/ Pop-Trip Hop  2/5
Duetto newyorchese che dopo molti anni di silenzio e rottura torna, per (s)fortuna, sulla scena musicale con un sound che contamina Pop con Elettronica e il solito stile da giapponesine doc.
Lita Ford – Lita (USA 1988)/Pop-Rock-Metal   3.5/5
Terzo album della chitarrista/cantante statunitense. L’album del successo, molto anni ottanta, una via di mezzo tra Madonna e Bon Jovi.

Silvio Don Pizzica
Captain Beefheart – Trout Mask Replica (USA 1969)   Avant-Rock   5/5
Per Scaruffi l’unico album Rock che valga la pena di essere ascoltato, per me il disco che ha cambiato il mio modo di concepire la musica.
Pink Floyd – The Piper at the Gates of Dawn (UK 1967)   Psych-Rock   5/5
L’unico album dove Barrett abbia un ruolo chiave è l’unico con quel sound speciale ironicamente lisergico. Da qui in poi la musica dei Pink Floyd non sarà più la stessa.

Marco Lavagno
Ministri – Per un Passato Migliore (ITA 2013) Rock  4/5
Finalmente il disco che aspettavamo dai Ministri. La band non pecca più di pressappochismo e sforna un album semplicemente pieno zeppo di grandi pezzi rock, concreti e reali. Suonati con la solita rabbia. Rabbia di coloro a cui (per fortuna) ribolle ancora il sangue.
Eric Clapton – Slowhand (UK 1977) Rock/Blues 4.5/5
Sommerse tra le radici del passato spiccano alcune grandi composizioni del chitarrista britannico: “Wonderful Tonight” e “Lay Down Sally” proiettano avanti una musica mai destinata a morire.

Ulderico Liberatore
Slo Burn – Amusing the Amazing (USA 1996) Stoner Rock 4/5
Album e band praticamente sconosciuti ma l’idea partita da John Garcia, con la sua inimitabile voce, non fa altro che essere un estensione dei Kyuss e un pezzo imperdibile di musica tostissima.

Lorenzo Cetrangolo
Arctic Monkeys – Whatever People Say I Am, I Am Not (UK 2006) Indie Rock, Garage 4.5/5
Il debutto degli alfieri indie del nuovo millennio. Un disco che, bene o male, ha segnato un’epoca.
Vari – Nightmare Revisited (USA 2008) Alternative Rock, metal 3.5/5
Compilation di cover dalla colonna sonora di Nightmare Before Christmas, capolavoro di stampo burtoniano del 1993. Con, tra gli altri: Korn, Rise Against, Marilyn Manson, Rodrigo y Gabriela, Amy Lee…
Pino Daniele – Dimmi Cosa Succede Sulla Terra (ITA 1997) Pop, Funk, Soul 4/5
Un bel disco di pop italiano, scritto e suonato bene. Da segnalare il piccolo gioiellino naif di “Canto do mar”, con Raiz.

Riccardo Merolli
Interpol – Antics (UK 2004) Alternative Rock 3.5/5
Un modo fantasioso di suonare Rock, una maniera inconfondibile soprattutto nella voce. Un disco interessante con tante cose da dire. Non è il paradiso ma neanche l’inferno.

 

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Christopher Walken – I Have a Drink

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Arrivano da Genova i Christopher Walken, e giungono alle orecchie incazzati e potenti, con una spennellata ironica e grottesca che fa tanto stoner, di quello meno atmosferico e più metal (“Miss Fraulein much?” “E perché non i Deliriohm, con un po’ più di forma canzone?” – piccolo riassunto dei miei dialoghi interiori).
La cartella stampa ci informa che I have a drink “propone 35 minuti di stoner e psichedelia”, e in effetti è questo che fanno i Christopher Walken: canzoni dirette, tirate, rapide e infuocate, con un alone scuro a bagnare il tutto. Bassi gonfi, ritmiche serrate, e una menzione speciale agli inserti di chitarra, che, quando non appoggiano bordate buie sotto la cupola frizzante di piatti e voce, sono pronte a scattare avanti, in faccia all’ascoltatore, con movimenti inusuali e passaggi sorprendenti (il piccolo solo di Nell’abisso del tempo, ad esempio, o in generale Winter love).
Stranamente (e imprevedibilmente) li gusto di più quando tentano la strada dell’italiano (Nell’abisso del tempo, ma soprattutto Camion Babylon): suonano più freschi, meno clone, e anche più divertenti, più “giocherelloni” – e non lo trovo assolutamente un male in mezzo al marasma power che abita il disco: è un bel modo per spezzare una violenza che, sebbene gratificante, potrebbe avere il rischio di stancare, dopo un po’.
Quanto al lato psichedelico, non si mostra molto, in verità; ci sono però ottimi spunti (l’intro di Long way to fall, i minimali inserti di synth in I have a drink) che magari sarebbe interessante veder sviluppati nel futuro. Per ora ciò che rimane protagonista nelle musiche dei quattro Christopher Walken è il rock duro, immediato (la durata media dei brani è di 3 minuti e mezzo).
Concludendo, I have a drink è senza dubbio un bel disco, e se siete fan della scena stoner/metal dategli assolutamente una chance. Ad ascoltatori meno abituati potrebbe risultare un po’ affaticante, ma in quel caso l’errore è vostro.

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Ideogram – Raise The Curtain

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E’ vero, le parti del nostro essere sono fatti sia da quelle buone che da quelle cattive. Ed è anche vero che tutti noi in un certo senso indossiamo una maschera che forse nasconde il nostro lato quieto o forse quello aggressivo e violento. Gli Ideogram si fanno avanti per farcelo notare e lo fanno con stile, attraverso un Gothic Metal sperimentale per cosi dire che strizza anche un po’ l’ occhio al Prog. Per dirvi, i Sonia Scarlet dei Thetres Des Vampires apprezzerebbe la proposta di questi cinque ragazzi che si prestano a queste sonorità tra il cupo e l’ aggressivo. Gli Ideogram si fanno notare attraverso un demo di cinque tracce che suscita davvero strane sensazioni.  Trattasi di “Raise The Curtain”, un mini disco dalle mille attenzioni e lavorato veramente nei minimi particolari: partendo dalle tematiche per passare al sound e concludere con le registrazioni ed i mixaggi. Sarò sincero: in quest’ ultimo periodo difficilmente ho ascoltato dischi che sono riusciti a far conciliare cupezza ed aggressività, gli Ideogram sono riusciti attraverso la candida voce di Opera, quella in growl di Kabuki e quella in scram di Grang Guignol, (il tutto chiaramente condito con la potenza della chitarra e le melodie della tastiera) a mettere in accordo i due stati dell’ essere. Le tracce si fanno ascoltare con molta scioltezza senza annoiare, anzi, dopo il primo ascolto viene subito la voglia di far ripartire il lettore con “Raise The curtain”. Insomma, se questo è il biglietto da visita  degli Ideogram, vale a dire che da loro possiamo aspettarci solo ottimi risultati, con l passare del tempo faranno un po’ d’ esperienza,di questo passo il loro prossimo disco sarà un capolavoro. Per adesso godetevi “Raise The Curtain” e date un opportunità a questi cinque ragazzi, che, credetemi, la meritano.

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