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Tony Hadley 17/07/2014

Written by Live Report

Chi pensava di trovarsi davanti a un viaggio malinconico negli anni Ottanta si è dovuto ricredere dopo aver assistito ad oltre novanta minuti di puro spettacolo. Tony Hadley e la sua band hanno dato il meglio, senza sbagliare un solo colpo e la cosa era già evidente dal pomeriggio, dal soundcheck (aperto al pubblico essendosi svolto in piazza, la stessa del concerto serale ovviamente) , da quando hanno provato estratti da dieci canzoni di cui ben nove degli Spandau Ballet. L’aspettativa in città per l’evento era davvero tantissima, perché tutti i teatini erano consci di essere forse davanti al più grande esperimento di marketing territoriale da quando alla Civitella si esibì Patti Smith con la sua band nelle cui file svettava un certo Tom Verlaine alla chitarra. Un esperimento riuscito certamente a pieni voti visto che c’erano molte persone venute da fuori regione (Puglia e Marche prevalentemente) e qualcuna persino dall’estero (ho conosciuto due coppie russe che sono venute a Chieti solo ed esclusivamente per l’evento).

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L’auspicio è quindi che non sia stato un caso unico e che l’anno prossimo la Settimana Mozartiana porti (almeno) un altro grande artista dello stesso calibro. Tony Hadley ovviamente non ha più vent’anni come quando uscì il primo singolo degli Spandau Ballet, “To Cut a Long Story Short”, riproposto anche a Chieti dopo l’iniziale “Feeling Good” (inedita), ma la voce ha la stessa potenza di un tempo. Del resto c’era persino chi lo considerava il miglior cantante degli anni Ottanta, forse erroneamente, perché a mio parere c’erano Jim Kerr dei Simple Minds, Bono degli U2, Mike Peters degli Alarm, Stuart Adamson dei Big Country che in quegli stessi anni dimostravano al mondo intero di cosa erano capaci ma preferisco non andare oltre in questo discorso anche per non incappare nelle ire di qualche fan sfegatata. Il concerto prosegue con un grazie, grazie in perfetto italiano (del resto Tony ha sempre avuto un grande feeling col nostro paese) e con quella “Higly Strung” che conquistò la posizione numero quindici nel Regno Unito. “Somebody Told Me”dei Killers e “My Imagination” (estratte dal suo ultimo lavoro Live from Metropolis Studios) seguono a ruota ma solo per fare da introduzione a quella “I’ll Fly for You” che decretò il successo dei “rivali dei Duran Duran” in Italia.

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“Only When You Leave”, per chi lo ricorderà, era la canzone che apriva “Parade”, da molti considerato il capolavoro degli Spandau Ballet. “Take Back Everything” è invece un brano tuttora inedito ma di cui Tony ha già parlato in alcune interviste essendo uno dei pochi già ultimati in vista di un prossimo nuovo album in studio. “Round and Round” uscì al tempo anche  in una speciale edizione solo per noi italiani in vinile 12” che includeva cinque foto, un poster e due cartoline e risentirla live fa un certo effetto. Oggi tale disco ha un valore commerciale bassissimo ma nonostante ciò rimane uno degli oggetti più amato a livello mondiale dai collezionisti di musica degli anni Ottanta peril suo prezioso contenuto. Con “With or Without You” (A fantastic song, the best from U2) si giunge alla seconda metà del concerto, quella parte forse più affascinante che comincerà altri grandi classici quali “True”, “Through the Barricades” e “Lifeline”.

Tutti singoli di grande appeal nei confronti dei presenti che però sono consci che lo spettacolo si stia avvicinando alla fine. “Every Time” e “Somebody to Love” dei Queen mettono in risalto la voce di Tony, sempre al top, anche se il confronto con Freddie Mercury  non reggerebbe per nessuno. Lui rimarrà per tutti il più grande entertainer che il Rock abbia mai avuto e difficilmente potrà essere superato in futuro. Del resto lo stesso Hadley lo chiama one of the best best best singer ever, a lovely man, a good friend

La scaletta prosegue con una cover che spiazza un po’ tutti… “Rio” degli amici / rivali Duran Duran! Peccato solo che Simon Willescroft (attuale sassofonista del gruppo) non fosse presente sul palco per eseguire il classico assolo insieme al basso. Chiuderanno la serata “Gold” e la cover degli Stereophonics “Dakota” (che potrete ascoltare sempre sul Live from Metropolis Studios). Peccato per l’assenza di John Keeble, la sua presenza avrebbe dato quel qualcosa in più allo spettacolo, ma per fortuna è stato egregiamente sostituito da Simon Merry che tra l’altro era per la prima volta dietro le pelli con Tony Hadley & co!!! Per un giorno Chieti è stata un po’ la capitale della musica ma la Settimana Mozartiana è un evento che quest’anno offre anche tanti altri eventi di grande livello quali i concerti di Richard Galliano e Uri Caine per una sette giorni davvero intensa in cui vale la pena immergersi a pieno ritmo.

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A Night Like This Festival

Written by Live Report

Metti un paesino di duemila anime vicino a Ivrea nel Canavese, magari con vicino un rilassante lago; mettici degli instancabili organizzatori e aggiungici tutti i volontari che riesci ad immaginare, tre palchi, quasi tremila persone, una buona dose di cibo e litri di birra e soprattutto, the last but not the least, una line up notevole composta da quasi venti band. Bene, ora immagina tutto questo calderone fotonico concentrato in un unico giorno. Sembra impensabile ed invece questo è successo veramente il 19 Luglio a Chiaverano, dove si è tenuto per il terzo anno consecutivo A Night Like This Festival. Un’edizione partita con grandi aspettative, che non ha deluso le migliaia di persone che hanno affollato il borgo piemontese, grazie ad una formula vincente basata principalmente sul binomio locale/internazionale. Il risultato è stata una line up varia ed equilibrata che ha miscelato i talenti del territorio come gli Yellow Traffic Light, gli Invers, i Niagara e i più conosciuti Nadàr Solo, a gruppi di respiro e peso internazionale con Austra, Slow Magic e The Soft Moon, senza ovviamente dimenticare nomi ormai affermati del panorama italiano come Soviet Soviet e His Clancyness. Un grande flusso musicale ininterrotto, un super tetris di gruppi e palchi, con incastri studiati per evitare eccessive sovrapposizioni, e non lasciare mai a digiuno lo spettatore. I live si sono avvicendati dalle 19.00 fino a notte inoltrata, seguiti da diversi dj set. Un vero tour de force per instancabili ascoltatori. Sul palco principale, chiamato il palco delle Colline, l’inizio è stato tutto rock e schitarrate con gli Wemen di Carlo Pastore e i Nadàr Solo. Conclusa l’esperienza Rock and Roll è stato il momento per l’attitudine Post Punk di prendere il sopravvento con l’energia diretta dei Soviet Soviet, una garanzia, e quindi la potente chiusura dei fratelloni americani, The Soft Moon, con il loro Post Punk dalle forti sfumature New Wave. Il tutto perfettamente alternanato con le sonorità Pop psichedeliche degli Hys Clancyness, non in formissima in questa occasione, e quindi con le atmosfere sintetico-siderali degli Austra, con la strabiliante voce di Katie Stelmanis, che all’improvviso ci  catapulta nel bel mezzo di un rito ancestrale, con una perfomance impeccabile.

Il secondo palco, quello dell’esploratore, è stato fin dall’inizio, ad eccezione degli oscuri rockettari, nonché ottimi, Invers, un crescendo di synth giocosi e psichedelie, dalle elettro sperimentazioni dei Niagara, al Pop fresco e giovane dei Love The Unicorn, fino al momento  dell’esibizione di Slow Magic che, indossata la usuale mascherona, nonostante si stesse sciogliendo, ha presentato un set immaginifico fatto di suoni, emozioni e accostamenti inusuali. Probabilmente lo spazio allestito e la mancanza di un’ambientazione hanno reso il tutto meno impattante ed esperienziale, ma il pubblico si è comunque dimostrato caldo e partecipe. Il terzo palco, quello del quieto vivere, lo spazio dedicato a emergenti e nuove proposte, è stato l’unico ad avere alcuni spiacevoli problemi tecnici dovuti a cali di corrente, che però non hanno fermato le band che si sono susseguite. La proposta in questo piccolo angolo ha spaziato molto; per citarne alcuni, dal Rock New Wave dei MasCara in set semi acustico, ai suoni più Folk e Blues dei Pocket Chestnut e al cantautorato di Johnny Fishborn. Dopo dodici ore di musica, e qualche zanzara di troppo, non si può che essere soddisfatti di aver partecipato a un festival così. A voler tirare le somme  credo che l’anima di questo evento si possa facilmente riassumere nel vedere sullo stesso prato a pochi metri di distanza la tipica coppia residente, lei ben vestita e truccata, lui un po’ meno, con mini cagnolino annesso e dei giovani ragazzi svizzeri muniti di zainoni e bicchieroni di birra, godersi lo stesso spettacolo, sotto lo stesso cielo e davanti allo stesso palco. Speriamo che festival così continuino a essere presenti e portare grande musica. nel nostro paese.

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The Rolling Stones – Roma – Circo Massimo 22/06/2014 Il Reportage

Written by Live Report

The Rolling Stones – Roma – Circo Massimo 22/06/2014 La Photo Gallery

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Normalmente, quando si fa un live report ci si astiene dall’analizzare anche alcuni fattori logistici legati all’organizzazione, ma quando il nome del gruppo che si esibisce in concerto è The Rolling Stones allora bisogna proprio cambiare incipit analizzando i pro e i contro relativi a un evento di tale portata internazionale.

Sicurezza: purtroppo tocca dire che ha lasciato molto a desiderare in quanto all’interno dell’area sono stati introdotti diversi oggetti “proibiti” tipo ombrelli, bottiglie in vetro (mentre a me è stato possibile introdurre appena una bottiglia di acqua ma senza tappo!), reflex digitali gigantesche (se lo sapevo…), telecamere e chi più ne ha più ne metta. Se davvero erano 1000 gli steward presenti (si vocifera anche di 300 forze dell’ordine, ma probabilmente queste erano di più),cosa facevano durante i controlli agli ingressi e perché all’interno dell’area scarseggiavano in quanto a presenza?

Disposizione degli spazi all’interno dell’area concerto: ancora ci si chiede il perché decine di gazebo con stand che ostruivano la visuale disposti a caso all’interno del prato. Normalmente, in manifestazioni simili, tali strutture vengono messe solo ai lati del palco mentre qui, vi assicuriamo, erano disposte in maniera casuale e tale da non far vedere nulla a chiunque capitasse dietro di loro anche a decine di metri di distanza. Non sono mancate quindi le polemiche all’uscita dei fan che hanno fatto notare che gli unici che hanno potuto usufruire di una visuale perfetta sono stati i pochi e fortunati possessori dei biglietti del Parterre Gold (che ovviamente avevano un costo nettamente maggiore rispetto a quello del posto unico).

Bagni: in quanto a numero erano davvero tanti e per fortuna sono stati sufficienti a reggere l’impatto di oltre 70000 presenti che ne avrebbero avuto bisogno nel corso della giornata. Peccato però che per raggiungerli ci voleva davvero molto tempo.

Trasporti: giustissima la scelta di chiudere la fermata locale della metropolitana, perché così gli spettatori sono defluiti in maniera più veloce, per la felicità di tutti, divisi fra le fermate di Piramide e Colosseo.

Audio: suono perfetto percepibile ovunque (merito anche di un gran lavoro fatto dai tecnici nel primo pomeriggio durante il sound check, che ovviamente abbiamo potuto ascoltare solo da fuori dell’area, tra l’altro coperta interamente da teli alti circa due metri).

Affitto dell’area: l’organizzazione pare abbia pagato circa 8000 euro al Comune di Roma, ma, come giustamente ha fatto notare il sindaco della città in un’intervista a RaiNews24, l’evento ha fruttato ben 25 milioni di indotto economico in alberghi, taxi, ristoranti, bar ed ha anche ovviamente assicurato un ottimo ritorno d’immagine a Roma. Una perfetta operazione di marketing territoriale quindi.

Biglietti: venduti sul circuito Ticketone, su Point Service S.r.l. (Greenticket) su Postepayfun e su qualche altro canale in limitatissima quantità (ad esempio sito del Corriere della Sera), sono stati i più economici del tour europeo nonostante venissero 78 euro + diritti di prevendita. Evento subito esauritissimo, tanto che alcuni hanno cercato di accaparrarsi il prezioso tagliando di ingresso usando circuiti alternativi, nonostante la Di and GiSrl., organizzatrice dell’evento insieme al Comune di Roma e al Postepay Rock In Rom, avesse comunicato nei giorni scorsi che alcuni biglietti erano stati falsificati. Ovviamente la ditta si era anche attivata presso la competente Autorità giudiziaria per far luce sulla vicenda.

Servizi extra: è stata lanciata la App gratuita per Android e Iphone“Room on fire” con le notizie, aggiornate in tempo reale sul traffico, il meteo, eventuali variazioni di programma ed altre informazioni utili, coi percorsi per raggiungere il Circo Massimo e la mappa per orientarsi nell’area, con l’indicazione dei punti notevoli, dalle fermate dell’autobus, ai parcheggi, alle uscite di sicurezza, e tanti extra, con approfondimenti sui Rolling Stones, sul supportact John Mayer, sul Circo Massimo e la photo-gallery del concerto.

Eventi in contemporanea: qualche polemica pure per lo svolgimento in contemporanea di una delle due date italiane dei Pearl Jam (a Trieste), ma chi voleva assistere allo show del gruppo di Seattle in fondo poteva anche optare per la data del 20 giugno allo stadio San Siro di Milano. Inutile quindi quest’ultima diatriba!

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Potremmo dilungarci su questi e mille altri aspetti, ma il nostro compito è quello di dedicarci prettamente all’aspetto musicale e quindi inizieremo col sottolineare che il cosiddetto supporter John Mayer, vestito con una shirt bianca, in realtà ha dato vita a un acceso miniconcerto di enorme qualità in cui hanno trovato spazio molte canzoni vecchie (tra cui “Gravity”, famosa hit del 2006, che ha chiuso l’esibizione) e le sole “Wild Fire” e “Dear Marie” dall’ultimo disco del cantautore statunitense, Paradise Valley del 2013. Da sottolineare che la sua è stata l’unica esibizione in suolo italico e che per ora non sono previste ulteriori date nella nostra penisola. Qualche minuto prima delle dieci è poi il turno degli attesissimi The Rolling Stones, trainati dal solito Mick Jagger che si presenta inizialmente con una giacchetta color oro e che saluta la folla dicendo “Che bello tornare a Roma!”. Durante l’intero concerto continuerà a ridere e scherzare col pubblico in italiano, soprattutto durante la presentazione della band, in cui si rivolge al suo amico Ron Wood dicendo “Ronnie non mangia abbastanza pasta…” e a Charlie Watts con un simpatico”alla batteria Charlie Roberto Watts“.

Nella scaletta romana pesanti sono state le assenze di hit quali “Angie”, “Harlem Shuffle”, “Lady Jane”, “Let It Bleed” e “Paint it Black” ma ciò era inevitabile considerato che gli Stones hanno “solamente” 50 anni di carriera alle spalle da coprire. Comunque sia andata, questo è stato sicuramente l’evento Rock dell’anno (c’è chi azzarda persino del secolo!) essendo stata l’unica tappa italiana del tour mondiale “14 On Fire”. C’è stato persino chi ha dormito davanti agli ingressi del Circo Massimo per accaparrarsi la migliore location possibile, mentre centinaia di fan hanno preferito presentarsi davanti all’hotel dove alloggiava il gruppo, essendoci stata una fuga di notizie nei giorni scorsi su tutti i mass media nazionali. Le grandi sorprese della giornata sono state l’esecuzione perfetta di “Respectable” (brano scelto tramite referendum online dai fans) con John Mayer ospite e “Miss You” dove uno straordinario Darryl Jones (ormai da anni a fianco della band) ha dato il meglio di sé stesso al basso con uno stupendo assolo introdotto da Mick con un “Darryl, come on…Come on, do it!”. Peccato solo per l’assenza di Bruce Springsteen, di cui si era vociferato da giorni un cameo sul palco dopo la sua apparizione sul palco a Lisbona dove ha cantato “Tumbling Dice”. Per ora però preferiamo ricordare la bandana giamaicana di Keith Richards, l’entusiasmo con cui Charlie Watts ha picchiato per tutto il concerto sulle pelli e sui piatti della sua batteria e la chitarra graffiante di Ron Wood e “ci si accontenta” di aver rivisto un Mick Taylor (nella band dal 1969 al 1974) sempre in ottima forma nonostante qualche chilo ed anno in più.

Tra il pubblico accorso diversi vip quali Livio Magnini dei Bluvertigo, Zucchero, Edoardo Bennato, Alex Britti, Beppe Grillo (leader del Movimento 5 Stelle), il giornalista Gianni Minà, Roberto D’Agostino, Lucrezia Lante Della Rovere, l’attrice e conduttrice televisiva Giorgia Surina, Emanuele Filiberto, Giorgia, Paola Cortellesi, Sabina Guzzanti e il premio oscar Paolo Sorrentino. E c’è già chi ha incoronato Mick Jagger, che ha salutato con un semplice “Grazie. Ciao Roma, ciao Italia, ottavo re di Roma giurando che gli Stones siano eterni come la Caput Mundi perché senella valle del Circo Massimo fosse avvenuto il mitico episodio del ratto delle Sabine, in occasione dei giochi indetti da Romolo in onore del dio Consus, oggi è stato tempo di un altro avvenimento che rimarrà per sempre nella storia. Poco importa alla fine se gli Stones non erano dei gladiatori, in fondo hanno acceso l’arena lo stesso. Alla fine anche un piccolo spettacolo pirotecnico dal palco.

Un ultimo aneddoto: Mick Jagger, pur non indossando la maglietta della nazionale di calcio come nel 1982, ha azzardato un pronostico sui Mondiali di Brasile 2014 “L’Italia vincerà la Coppa del Mondo, eh? In bocca al lupo per martedì. Penso che la partita finirà 2-1 per Italia”. Avrà avuto ragione sulla squadra allenata da Cesare Prandelli?

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Primavera Sound Festival 2014 | Day 2

Written by Live Report

Sveglia di nuovo alle 15. Il fuso orario di questo appartamento nel cuore del Borne è ormai irrimediabilmente allineato a quello di Bangkok. Dei fantomatici autobus extra previsti per questi giorni tra il Forum e il centro ieri sera se n’è visto solo uno, che ci ha portati a casa alle 6.30 di stamattina. Tipo che a sapere di dover rimanere in strada piuttosto mi sparavo tutto il set di Jamie XX. Un tempo di merda ci accompagna fino al Forum, vestiti da turisti scemi tra ombrelli, improponibili poncho di plastica e messe in piega andate a puttane, che ho l’aspetto di un cocker dopo il bagnetto. Il diluvio sembra non voler affatto smettere e ogni momento vuoto è buono per riempirlo di birra, magra consolazione sotto gli stand al coperto, quando a un tratto si leva un grido collettivo di giubilo al veder spuntare dal mare un grosso nitido arcobaleno che tutti si affrettano ad instagrammare per poi correre sotto ai palchi. Arriviamo ai piedi dell’ATP giusto in tempo per gli ultimi due pezzi dei Loop. Una delle carte vincenti che da qualche anno a questa parte ha elevato il Primavera Sound al rango di grande rassegna è una scelta sapiente e variegata nel comporre la line-up, per genere ma anche per epoca, puntando molto sulle gradite reunion. Neopsichedelia in pieno giorno? Le chitarre graffianti e ossessive sembrano giungermi dimezzate da un palco dall’allestimento minimal e alla luce del seppur tanto atteso sole. La verità però è che a volte ci facciamo fregare dalle aspettative, perché al di là di quello che avevo immaginato ciò che ascolto in questi dieci minuti mi dice che questo dev’essere stato un gran bel live.

È ora di tornare verso l’area sud del Forum. Mentre il sole torna a splendere ci dirigiamo verso l’Heineken e le Haim. Ecco Big Jeff che mi sorpassa a destra correndo con in mano un panino di dimensioni proporzionate alla sua stazza e il sorriso stampato che mi contagia immediatamente come la prima volta. Se non sapete della mia prima volta con Jeffrey molto male, perché vuol dire che non avete letto questo. Durante il live ho un moto di compassione per quel poveretto di Dash Hutton, batterista e unico componente maschio della band, che è anche l’unico a non portarne il nome come cognome. Me lo immagino in tour con queste tre leonesse che sono le sorelle Haim, ignaro alla partenza che la sua è la stessa sorte di un quattordicenne che si iscrive all’Istituto d’Arte o qualsiasi altra scuola superiore covo di femmine incazzate. Mentre sogghigno e mi produco in queste inconfessabili riflessioni la mia amica Lorenza mi fa notare che le espressioni facciali di Este mentre si diletta in iperbolici giri di basso sono decisamente più divertenti. Non sono qui per loro in realtà. Sono solo in attesa di quello che accadrà tra un’ora sul palco di fronte (io che nella vita non ho mai concesso a nessuno di vedermi arrivare con cinque minuti di anticipo). Eppure questo Pop Rock mi coinvolge. Ci sono molte valide tracce in questo album di esordio, e si uniscono a tutta la presenza scenica che ieri un’altra line-up al femminile su questo stesso palco non è riuscita a tirar fuori (se non sapete nulla di ieri e delle Warpaint arriva la seconda ammonizione, perché vuol dire che non avete letto neanche quest’altro). Ops. L’app mi ricorda che tra mezz’ora al Rockdelux ci sarà il Noise di Body/Head, alias Kim Gordon e Bill Nace. Amen. Da questo momento in poi non vorrò ascoltare alcun tipo di trillo che possa rovinare il mood zen che ho assunto oggi aspettando un paio di appuntamenti essenziali.

Era il 1991 quando usciva quello che fu l’album di esordio degli Slowdive. Io avevo 7 anni, e per Natale mi ero fatta regalare Dangerous di Michael Jackson, che il mio insegnante di danza metteva su “Remember The Time” per farci fare i pliés di riscaldamento, ed io quella musica la volevo sempre con me, dentro a un mangianastri rosa a forma di borsetta con tanto di tracolla, che se ce l’avessi ancora farei invidia a tutti gli hipster cultori di tecnologia analogica dall’aspetto kitsch. Ho incontrato i sussurri Shoegaze di Neil Halstead e Rachel Goswell solo molti anni più tardi, quando loro erano già meteore di un mondo discografico che non esiste più ed io avevo età anagrafica e necessità emotive adeguate per provarne il bisogno. Come tutte le cose che accadono quando ormai è troppo tardi, ho consumato Souvlaki e ancor di più Pygmalion (quell’ultimo album a lungo incompreso da una industria della musica che nel 95 impazziva solo per il Brit Pop) con quella impropria sensazione di nostalgia che si ha di epoche per cui non potresti provarne, dato che non ne hai fatto parte. Questo lungo preambolo è al solo scopo di dare una vaga idea del mio stato d’animo nell’apprendere del loro ritorno, una specie di seconda insperata opportunità. Forse neanche la stessa Rachel se l’aspettava più. Sale sullo stage Sony con un sorriso dolcissimo e un velo di commozione, che trattiene a stento sulle prime note di “Crazy for You” davanti a un pubblico che le accoglie estasiato. Mi intrufolo come un sorcio e guadagno la prima fila, e appesa alle transenne mi godo tutto il live senza dire una parola mentre compio l’atteso viaggio nel tempo. Rachel è discreta ed elegante, e non ha bisogno di ricorrere ad alcun tipo di escamotage scenico per assolvere al suo ruolo di front-woman. “Souvlaki Space Station” è davvero un tuffo lento, inquieto e intenso, che mi fa dimenticare ogni frenesia di questi giorni. Le giustapposizioni di chitarre di “When the Sun Hits” mi rapiscono. Credo proprio di avere la faccia di una che in questo momento non vorrebbe essere in nessun altro posto, ma in realtà non è così, perché ho come l’impressione che non sia questo il luogo adatto per godere dei dettagli di cui vivono gli Slowdive, quelle sottigliezze essenziali e impercettibili schiacciate dalla potenza dell’impianto. La cover di “Golden Hair” che rispolverano in chiusura lascia senza fiato. Ma io volevo “Alison”. Ecco, l’ho detto. E ora la smetto di ammorbarvi con i dettagli di questa specie di estasi mistica, che è ora di cena.

Oggi siamo in modalità economy quanto saggia, perciò ci siamo portati da casa qualche metro di baguette ripiena di tortilla. La decisione che quest’anno il Primavera non me lo sarei perso è stata determinata in buona parte dalla presenza dei Pixies. Nel frattempo però sono successe un po’ di cose,  come l’uscita di Indie Cindy, la divina provvidenza che nel redigere la scaletta li ha piazzati appena prima dei National, e il fatto che Lorenza, che da gennaio non faceva altro che postare pezzi di Doolittle su Facebook, alla fine si è innamorata anche lei di Matt Berninger (e fidatevi che nessun uomo al mondo prima di lui era riuscito a scalfirle il cuore). Insomma, finisce che a Francis e soci sul palco Heineken concediamo giusto di farci da sottofondo mentre noi al Sony ci ingozziamo con la cena al sacco. Un sottofondo di tutto rispetto, ma di più non saprei dire, che sono ancora un po’ perplessa riguardo a quest’ultimo nuovo album che poi tanto nuovo non è, e soprattutto sono così presa al pensiero di ciò che accadrà tra poco, che il check della batteria di Bryan Devendorf che copre “Where is My Mind?” non mi infastidisce neanche.  È il 2005 quando i National, dopo l’uscita di Alligator, ancora ignoti ai più nel vecchio continente, si esibiscono a L’Aquila, sul palchetto più sfigato tra i due allestiti alla Festa dell’Unità. Posso dire con certezza che io c’ero, ma sono altrettanto sicura di essere stata sotto il palco sbagliato. Avrò espiato questa colpa al quindicesimo live di Matt Berninger che vedrò, e all’oggi la strada è ancora lunga.

Come di consueto, Matt sale sul palco visibilmente ubriaco. Non dice nulla ma canta in modo impeccabile. Sono i gemelli Dessner che tra un brano e l’altro si sorridono con aria rassegnata del tipo “ci risiamo anche stavolta” e rivolgono a turno qualche parola al pubblico. Lui vaga sul palco col suo gomitolo infinito di cavo, sorseggia cubatas, e ogni due brani fracassa a terra un microfono. “It doesn’t make its job!”, dice, ma non è vero, è tutto perfetto, e se state pensando che il tasso alcolico infici la sua performance sappiate che non è affatto così (anzi, inizio ormai a supporre che sia una condizione necessaria per la riuscita). I brani di Trouble Will Find Me il pubblico li intona all’unisono con Matt, ma con mio enorme sollievo questo non accade con il resto del repertorio (no vabbè, mi sa che “Terrible Love” la sanno tutti). L’inconfondibile preludio archi e batteria di “Squalor Victoria” è la consueta botta di adrenalina, poi mi sciolgo nella voce calda di “About Today”. Matt si lancia nelle sue note peripezie sul palcoscenico, si arrampica sulle casse e poi si lancia tra la folla, senza smettere un attimo di cantare. Un paio di ospitate sul palco (tra cui Justin Vernon, chitarra e voce sulla coda della struggente “Slow Show”) inevitabilmente passano quasi inosservate. Matt catalizza ogni sorta di attenzione. L’impressione che si ha è che quest’uomo sia nato per fare questo, con una naturalezza da frontman che non ricorre ad alcuno stratagemma per arrivare ad un pubblico che gli unici effetti scenici a cui assiste sono il vederselo saltare addosso o al massimo il rischiare di venir strozzato dal chilometrico cavo del suo microfono. Un esercito di gente cool che inspiegabilmente impazzisce per un tipo vestito da ragioniere? Ebbene sì, e questo insolito fenomeno mi suggerisce una chiave di lettura di tutto il percorso artistico dei National: l’impasto sonoro, basi melodiche ma sincopate a cui si aggiungono arrangiamenti virtuosi e mai scontati, risulta così efficace proprio grazie al suo essere intimamente classico, nell’accezione del termine che descrive ciò che è al riparo dal rischio di tramontare in quanto non è nato sull’effimera scia di una moda, e dell’apparire modaiolo non si è mai preoccupato.

Sì, lo so, ora ci sono quegli impronunciabili dei !!! ma io ho giusto le forze per affondare la faccia in una porzione di noodles allo stand thai e cercarmi un taxi. Domani sarà la più lunga delle giornate di questa fugace Primavera.

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Television

Written by Live Report

Anno 1977: Club Cbgb’s, New York dove sono cresciuti artisti quali Ramones, Patti Smith e Talking Heads.

Anno 2014: Alcatraz, Milano dove si esibiscono tutti i più grandi nomi del Rock nazionale ed internazionale.

Cosa c’è in comune vi chiederete voi ora? Ovviamente i Television, band attualmente composta da Tom Verlaine (chitarra e voce), Fred Smith (basso e voce), Billy Ficca (batteria) e Jimmy Rip (chitarra e voce), che hanno scelto quest’ultima location per tornare in Italia dopo ben quattordici anni, come ha anche ribadito il loro leader durante il concerto di martedì 3 giugno. Tra il pubblico gente di tutte le età e, si vocifera, persino Federico Fiumani dei Diaframma. Ad aprire la serata è stata Sarah Stride, meravigliosa cantautrice Rock milanese, che ha eseguito alcuni brani tratti dai suoi dischi insieme al fido Alberto Turra durante un set durato circa trenta minuti. Lei si presenta deliziosamente vestita in bianco e nero, lui alla sua destra invece con una semplice t-shirt. Il pubblico li osserva, scrutandoli ed ascoltandoli attentamente, apprezzando alla fine anche la scelta del cantato multilingue.

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L’attesa però per i Television non manca di farsi sentire, e quando mi giro a guardare indietro noto che le persone presenti non sono più appena un centinaio, ma che s’è addirittura riempito il locale (in capienza ridotta però!) e mi sento orgoglioso di esser uno dei tanti fortunati che avrebbe da lì a poco visto delle vere e proprie leggende del Rock mondiale. Nonostante il nome sia abbastanza noto anche fra gli addetti del settore, sul palco rimarranno solo qualche amplificatore, la batteria di Billy Ficca e tre microfoni per i rimanenti membri del gruppo. Scelta voluta? In fondo il Rock ‘N Roll non è esibirsi con tanto di ballerini e di scenografia esagerata alle spalle di chi suona, ma quanto appena da me scritto.

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Alle 21:10 circa dopo aver accordato gli strumenti inizia il concerto che tutti attendevano con “See no Evil” e “Prove it”. Tom Verlaine sta ancora scaldando la voce, ma nel complesso rimane ancora il maestro assoluto degli assoli di chitarra. Suo partner in questo ruolo però non è più Richard Lloyd come accadde anche quattordici anni fa ad Alberobello, ma uno scatenato Jimmy Rip, che in tutta la serata non si risparmia mai nell’esibirsi in affascinanti virtuosismi che ben si legano a quelli del suo collega Tom Verlaine. Alla fine della serata, tirando le somme, i Television proporranno solo undici canzoni, di cui ben otto estrapolate dal loro capolavoro assoluto Marquee Moon (del resto lo stesso biglietto dello spettacolo annunciava “performing Marquee Moon). C’è spazio anche per il loro primo singolo in assoluto, “Little Johnny Jewel”, per una lunghissima suite sonora inedita, ribattezzata “Persia” e per “1880 or so” estrapolata per l’omonimo album del gruppo del 1992 (primo tentativo di rimettere su la band). Rimane però anche un po’ di amaro in quanto l’album “Adventure”” del 1978 è stato totalmente omesso dalla scaletta lasciando tutti un po’ interdetti. A proposito. Ma perché al posto di concludere con “Marquee Moon” come tutti ci aspettavamo hanno scelto di fare il bis proponendo “1880 or so”? A volte la volontà degli artisti è ineccepibile, ma di certo tale preferenza ha lasciato tutti con un po’ di amaro in bocca. A fine concerto un discreto gruppo di persone (me compreso) aspetterà i quattro paladini che firmeranno autografi e faranno foto con tutti, nonostante l’ora tarda. Rimango conscio che questo è stata sicuramente una delle serate più belle della mia vita e la concretizzazione di un sogno per cui ho dovuto aspettare quasi venticinque anni (ma, credetemi, ne è valsa la pena!). Lunga vita al Rock ‘n Roll!

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Bologna Violenta 15/03/2014

Written by Live Report

Il 15 marzo era una data che aspettavo da molto tempo; da almeno due anni infatti (a meno che la memoria non mi faccia brutti scherzi) Nicola Manzan alias Bologna Violenta non si faceva vedere da queste parti. A dare un ulteriore valore a questo week-end si è aggiunta, inoltre, la visita inaspettata in uno special guest ti tutto rispetto con il quale ho il piacere di avere in comune parte del patrimonio genetico, ma questa è un’altra storia. Come spesso accade mi trovavo al Blah Blah, ed il pubblico che animava i portici e l’interno del locale, quella sera, era davvero molto variegato: abbigliamenti “normali” affiancati a look sovversivi da pirata, con comparse sporadiche di chiome dal colore cangiante, dal blu elettrico al rosso vivo.

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Mi sento comunque di dire che il colore predominante era il nero, nella sua variante di nero con borchie. Anch’ io per l’occasione ho deciso di sfoderare il mio finto pellame da combattimento lasciando però le borchie a casa; non avrei mai voluto esagerare con la sobrietà. Tra i look “estremi” che mi circondano, vince il primo premio quello del tizio capellone e cotonato che mi ritrovo davanti durante il concerto, e che per l’occasione ho deciso di ribattezzare “Mufasa” (chi come me ha passato parte dell’infanzia a piangere durante la visione del Re Leone sa di cosa parlo). Il concerto è aperto dai Seitanist, ma l’attesa è tutta per Bologna Violenta che presto si palesa sul palco carico di strumenti accompagnato da Nunzia, carichissima anche lei. Un brevissimo soundcheck  per Nicola, e poi subito si riparte.

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Uno Bianca, l’ultimo album di Manzan, viene suonato per intero, senza interruzione: 27 brani di pura violenza emotiva per raccontare uno dei peggiori fatti di cronaca nera avvenuti in Italia, accompagnati da immagini di repertorio, video di quegli anni e scritte essenziali che meglio aiutano a descrivere i fatti e a comprendere la tragicità degli eventi. Si tratta di video minimalisti, essenziali nella loro forma, di contorno alla vera protagonista che rimane sempre e comunque la musica, che da sola riesce davvero a narrare e ad esprimere tutta l’angoscia, la violenza ed il terrore legato a quegli anni tristissimi. Terminata la performance legata ad Uno Bianca, Manzan procede con alcuni pezzi memorabili tratti dagli ultimi suoi due album; in questo caso i video di accompagnamento alla musica si fanno decisamente più espliciti sia nelle immagini che nei contenuti (Manzan non ti perdonerò mai per avermi fatto assistere alla decapitazione di un toro! Sappilo!). Terminato il concerto, Mufasa ed il suo branco assalgono BV con le loro domande. Io passo a salutare Nunzia nell’area “merch” e subito dopo raggiungo anch’io il mio branco. Mentre mi perdo in un interminabile monologo interiore di cui questo live report è figlio, penso che stavolta Manzan abbia superato sé stesso dando vita non solo and un album degno di nota, ma mettendo in scena un vero e proprio “spettacolo” dal forte valore emotivo, capace di coinvolgere anche i meno amanti del genere; un qualcosa che va oltre un semplice concerto, e che è legato in qualche modo col concetto di Memoria, per non dimenticare ciò che è stato, per fare in modo che non accada più.

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Boxerin Club 27/02/2014

Written by Live Report

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Ci sono giorni in cui tentare di programmare la propria vita equivale a mettere in moto una serie di eventi funesti e nefasti  il cui obiettivo è quello di annientare ogni forma di organizzazione, proprio quella volta che hai deciso di fare tutto con calma, e ti sei addirittura spinta a segnare gli appuntamenti in agenda con tanto di “cerchiolino” rosso sull’orario. Ma se al termine di queste peripezie ti ritrovi ad assistere ad un concerto dei Boxerin Club, che arrivino pure tutti gli stravolgimenti di orari e tutte le sfighe del mondo. Siamo al Blah Blah di Torino e la serata non è da birra, ma da amaro. Sono con una delle mie persone preferite ed entrambi, tanto per dare un tocco di originalità alle nostre esistenze, abbiamo mal di gola; la missione è quella di riuscire a mettere qualcosa di forte in circolo bevendo la minor quantità di liquido ghiacciato. Mentre aspettiamo che i Boxerin facciano il loro ingresso e siamo immersi in discorsi metafisici di gossip recenti, ecco che lo vedo, proprio lì, appoggiato al muro, vicino alla consolle: Max Casacci dei Subsonica. Chiedo conferma a chi è con me, sfoderiamo i telefoni e facciamo una rapida ricerca di immagini sul web; ci sembra proprio lui! Tuttavia c’è da dire che entrambi, oltre ad avere lo stesso segno zodiacale e lo stesso ascendente, siamo anche dei miopi irreversibili e vantiamo un numero non trascurabile di figure di merda in merito alla questione “Quello somiglia a…”. Il locale inoltre è molto buio, insomma, non ce la sentiamo di confermare questo scoop; questa però potrebbe essere una buona occasione per lanciare un nuovo giallo capace di annientare una volta per tutte la supremazia di  Jessica Fletcher e della sua Signora in Giallo: quello appoggiato al muro, era o non era Max Casacci? Ai posteri l’ardua sentenza.

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Finalmente i Boxerin Club arrivano, e non appena si posizionano sul palco per me hanno già fatto un miracolo; se i miei occhi architettonici non mi ingannano, il palco/pedana del Blah Blah misura all’incirca 10 mq (ho visto bagni di dimensioni maggiori), nei quali riescono a starci in sei insieme a tutti gli strumenti, che non sono pochi. Chapeau! I Boxerin Club sono di Roma (ce lo ripetono più volte nel corso della serata) e nessuno di loro è mai stato a Torino; questa è la loro prima volta sotto i portici che hanno protetto dalle intemperie per molto tempo il “real” cranio savoiardo di re e regine. La band è arrivata in ritardo e non è riuscita a fare il sound check; il concerto pertanto ci mette un po’ a decollare, i primi pezzi sono  una vera e propria prova del suono. Risolti i problemi tecnici i Boxerin prendono il volo ed è subito fiesta. I brani sono quelli tratti dal loro album d’esordio, Aloha Krakatoa, che il mio collega Lorenzo Centrangolo nella sua recensione definisce freschissimo, dove finalmente possiamo vedere un gruppo (italiano) che evita la trappola dei generi e delle etichette per regalarci undici tracce di variopinta festa sonora, trovandomi pienamente d’accordo. Mentre loro procedono con la loro esplosione di suoni, mi accorgo che senza volerlo ho cominciato a muovermi a ritmo di musica, e non riesco a smettere. I Boxerin ci coinvolgono, ci invitano ad avvicinarci, e noi ci avviciniamo; ci invitano a battere le mani, e noi battiamo le mani; penso però che se ci avessero chiesto di andarcene non lo avremmo fatto così facilmente, Non so perché, ma l’atmosfera che si viene a creare mi ricorda un po’ quella di un concerto degli Honeybird & the Birdies, romani anche loro che io sappia, ma di adozione, provenienti da diverse parti d’Italia e del mondo. Chissà se Boxerin e Honeybird si sono mai incontrati. Quando è il momento di ascoltare “Carribean Town”, mi accorgo che ormai sono in molti a muoversi e a ballare; in tanti hanno lasciato i loro pensieri pesanti a terra e si sono messi a volare insieme a questi ragazzi romani. Subito dopo, quando ormai siamo quasi a fine concerto, qualcuno dello staff passa tra la folla e ci mette in mano fischietti, trombette, maracas ed ogni sorta di strumento musicale, rigorosamente in plastica; ci improvvisiamo tutti musicisti e cominciamo a fare baldoria. Lo stesso soggetto che ha distribuito strumenti in giro per la sala ha in mano un pacco di coriandoli che comincia a lanciare per aria facendoci tornare bambini per un attimo. Ovviamente me ne svuota mezzo pacco in testa, tornerò a casa piena di coriandoli fin dentro le mutande. È quello il tocco finale del concerto, seguito da un ultimo pezzo richiesto dai presenti.

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Al Blah Blah, in alto, più o meno sulla testa dei musicisti, c’è un cartello che riporta una domanda: “c’è qualcuno felice?”. Per me non è mai stata solo una domanda, ma anche una specie di monito, un qualcosa che sta lì, fermo, a ricordare quale dovrebbe essere il fine ultimo di ogni esistenza. Io non so ancora bene cosa sia la felicità. Penso sia qualcosa di effimero, volatile; una parola che si ha il timore di pronunciare per paura che scappi via. Non so nemmeno se a fine serata c’era davvero qualcuno felice, però ho visto tanta gente andar via con un sorriso enorme stampato in faccia, che non è poco.

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I Cani 16/11/2013

Written by Live Report

Non sono mai stato un fan sfegatato dei romani I Cani, anzi,  conoscevo appena un brano tratto da uno split realizzato con i simpatici e altrettanto grandi Gazebo Penguins. Eppure la possibilità di assistere a un loro concerto mi ha smosso un inquietante entusiasmo. Sarà stato merito di quell’unico pezzo di cui accennavo in precedenza? Chissà…

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In un Pin Up pieno a metà assistevo ancora tiepido alla performance del gruppo di apertura, i Testaintasca, quartetto capitolino e piacevole e inaspettata sorpresa che ha interagito meravigliosamente con il pubblico presente, sfoderando uno dietro l’altro i migliori colpi del repertorio, compresi alcuni brani del loro ottimo esordio, Maledizione! da “Un Minuto Duro” fino a “Maledizione!” passando per “Sai che c’è”, “Cazzi Tuoi”, “Collaborare”, “Blu”, “Settembre”, “Grazie al Cielo”, “La Musica (Mi Piace Tanto)”. Dopo mezzora di live il palco si svuota, avvolto dalla penombra e da un suono che ricorda le astronavi della pellicola Independence Day. Silenziosi, senza nessuna altezzosità, i quattro ragazzi si sono posizionati ai loro posti di combattimento. Il primo colpo diretto e micidiale è stato dettato dalla batteria metronomica di Simone, che scandiva l’opening di “Come Vera Nabokov”, una canzone viscerale e a tratti romantica, la summa della loro proposta musicale.

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Una a una, come da una Gatling, sono partite le altre tracce in uno spettro sonoro che racchiudeva molte song tratte dall’ultimo Glamour senza rinunciare ai classici come “Hipsteria” o “Velleità”. Menzione particolare va anche al brano citato in apertura di questa recensione,“Asperger”, delirio elettronico dai toni amari e malinconici. Ogni paragone con i vari Subsonica o Bluvertigo, raffronto che personalmente trovo fuori luogo, si demolisce nell’esecuzione disperata di “Storia di un Impiegato” e soprattutto della punteggiante “FBYC (Sfortuna)”, una piccola perla che ha traslocato da giorni nella mia mente e mi costringe a canticchiarla a oltranza. Un lungo e bellissimo concerto che si chiude con un bis nel quale Contessa da sfoggio di due suoi gioielli che già in tanti stavano reclamando, “Velleità”, presente nel precedente Il Sorprendente Album d’esordio dei Cani e “Lexotan”, già hit del nuovo lavoro. Il modo migliore per lasciarmi, appena dopo aver fatto conoscenza.

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Non sono ancora diventato un fan sfegatato de I Cani, per ora mi ritengo solo un giovane segugio. Tuttavia il mio fiuto col tempo è migliorato notevolmente.

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Skunk Anansie + Blastema 13/08/2013

Written by Live Report

Gli Skunk Anansie hanno infiammato l’antistadio Flacco di Pescara; circa tremila, infatti, gli spettatori che hanno seguito il loro concerto lo scorso 13 agosto nell’ultima data del loro tour italiano. È stata una grande serata: la band inglese ha entusiasmato il pubblico con una scaletta che si è rivelata un ottimo mix fra vecchi successi brani dell’ultimo disco “Black Traffic”. Skin ancora una volta impeccabile regala una performance di una grinta unica, come raramente capita di vedere sul palco.

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La vocalist ha fornito prova di quanto sia una trascinatrice di folle; ha riso e scherzato ed è salita letteralmente sulle persone durante una canzone. La sorpresa più grande l’ha riservata però nel finale, quando ha chiesto a tutti di abbassarsi e si è messa a camminare tra i fan delle prime file che la guardavano quasi increduli. Straordinario l’invito al pubblico a non usare i telefoni cellulari per scattare foto per cercare solo di godere al massimo della musica.

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Tornando al live, tanti i momenti “top”: fra questi “Hedonism”, “Secretly” mentre una menzione speciale va sicuramente a “You Follow me Down” eseguita in una versione acustica chitarra e voce da brividi. Grande assente della serata la hit “Squander”, una delle tre canzoni inedite contenute nella loro unica raccolta, “Smashes and Trashes” (2009).  Sin dagli esordi della carriera gli Skunk Anansie hanno avuto un legame speciale con i fan italiani che li hanno aspettati e accolti con il solito calore anche dopo la lunga pausa (ricordiamo che si erano sciolti nel 1999 per poi ricompattarsi nel 2009). A testimonianza di ciò anche quest’ultimo tour estivo, sicuramente fra quelli di maggiore successo della stagione.

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Il concerto è stato aperto dai Blastema, band italiana (rivelatasi, dopo anni di gavetta, allo scorso Festival di Sanremo) che ha scaldato a dovere l’atmosfera con una mezzora granitica. Le due band hanno legato molto a tal punto che i Blastema hanno fatto da supporters in tutte le date italiane riscuotendo grandi consensi e presentando alcuni brani tratti dal loro nuovo album “Lo Stato in cui Sono Stato”.

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Il cantante Matteo Casadei inoltre si è rivelato un “animale da palcoscenico” e la band è stata raggiunta per ben due volte sul palco dagli Skunk Anansie pronti a incitarli durante la loro esibizione.

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Insomma, uno spettacolo in tutti i sensi!

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Dimartino 02/11/2013

Written by Live Report

Voi non ci crederete ma dopo il concerto dell’altra sera al Circolo degli Artisti, la prima cosa che mi viene in mente se penso a Dimartino è Niccolò Fabi. Non perchè sia possibile accostarli stilisticamente, questo nessun recensore in Italia avrebbe l’ardire e l’ardore di dire (notate il gioco di parole che denota la padronanza linguistica del sottoscritto, altro che “scusate il gioco di parole”), ma perchè a pochi passi da me al concerto di Dimartino c’era Niccolò Fabi. L’ho incontrato in fila, era dietro di me, lui ha pagato ed io avevo l’accredito stampa; mi ha guardato mentre dicevo “ho un accredito” (magari solo perchè gli ero davanti) e io l’ho riguardato sprezzante negli occhi con uno sguardo western che nel mio cervello di idiota significava chiaramente “Stai attento a quello che fai con la tua chitarrina, sono un recensore spietato, se mi fai un disco di merda ti stronco”. Nel suo sicuramente significava: “mo’ a sto’ pigmeo si nun’ ze leva ooo meno”. Avrebbe fatto bene. Comunque sono qui per parlare del concerto di Dimartino e cascasse il mondo lo farò.

Apertura di Valentina Gravili, brindisina di nascita, romana d’adozione cantautrice dalle influenze mediorientali sia in viso che nelle melodie. Mi ricorderò della sua performance per il pedale che il batterista aveva collegato al microfono il quale moltiplicava le voci in maniera che la Gravili sembrasse accompagnata da un coro di Bonzi. Bell’effetto. Ma arriviamo al concerto del cantautore siciliano: Dimartino si presenta in total black: giacca, pantalone, barba rifilata e t-shirt scollatissima senza peli sul petto: non aggiungo altro. Bel trio, quello di Dimartino, dal suono particolare e dovuto al fatto che lui suona alternativamente il basso o la chitarra e quindi pur in ambito rock complessivamente risulta molto pulito e ben equilibrato. Talmente equilibrato che quando in qualche pezzo vengono utilizzate delle sequenze la voce finisce per soffocare in mezzo al volume sonoro accresciuto. Una per una sfilano molte delle canzoni che compongono i suoi primi due dischi e l’ultimo ep Non Vengo più Mamma e in più una bella e intensa versione di “Sobborghi” di Piero Ciampi. Giusto Correnti alla batteria sembra suonare in un gruppo Indie Rock inglese più che in una band di un cantautore, Angelo Trabace con la partecipazione teatrale e la gestualità facciale di un cantante neomelodico dà bella mostra delle sue indiscutibili doti di pianista. Complessivamente il live è piacevole ed anche più energico di quello che mi aspettassi dalla produzione in studio, una bella sorpresa. A volte ho avuto la senzazione che l’ interplay fosse ancora un pò acerbo, come se fosse la risultante monolitica di tre diversi modi di sentire il repertorio, poco comunicanti tra di loro e ancora un pò postadolescenziali.

Nulla che non si acquisti con qualche altro anno di live. Spettacolo nello spettacolo la presenza di Fabi vicino al bancone e gli sguardi furtivi di molti degli spettatori per cercarne di capire le impressioni dalle reazioni, quasi a volere da lui una legittimazione per farsi piacere il concerto. Una sorta di imperatore musicale che con lo scuotere della testa invece che con il pollice in alto poteva legittimare o meno un pezzo piuttosto che un altro. Spettacolo nello spettacolo, nello spettacolo all’uscita: alcuni vanno verso il banco del merchandising di Dimartino ma molti di più rimangono a chiedere autografo e foto ricordo a Fabi. Non cambieremo mai.

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Dimartino + Stazioni Lunari + The Electric Flashbacks

Written by Live Report

Note Sulle Ali di Farfalla @Teramo (Villa Comunale) 07/09/2013

La mente era lì che viaggiava verso il paradiso, pensando a Federica Moscardelli e Serena Scipione (due studentesse tragicamente decedute nel terremoto dell’Aquila nel 2009), per molti degli accorsi a questa manifestazione che, giunta alla sua quinta edizione, ha saputo fidelizzare il suo pubblico e creare anche un po’ di turismo culturale in una regione come l’Abruzzo. Per loro, e anche gli altri presenti, l’evento aveva quindi un sapore diverso rispetto al classico concerto Rock o al solito festival Indie.

Sembrava quasi, per citare parole alla Battiato “un rapimento mistico e sensuale” quello che sono riusciti a creare gli artisti che vi hanno partecipato. La sera del 7 settembre finalmente lo spettacolo “Stazioni Lunari” ideato da Francesco Magnelli (membro fondatore di BeauGeste, C.S.I. e PGR ed in passato collaboratore dei Litfiba) è approdato in terra abruzzese in occasione della quinta edizione di “Note Sulle Ali di Farfalla – Notte per Federica e Serena”, manifestazione di solidarietà che ha ospitato precedentemente artisti quali Afterhours, Marlene Kuntz, Bandabardò, Brunori Sas, Calibro 35, Offlaga Disco Pax, Bugo, I Cani e Pan Del Diavolo e che si svolge ogni anno a Teramo in ricordo delle due studentesse Federica Moscardelli e Serena Scipione, tragicamente decedute nel terremoto dell’Aquila.

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La cornice dell’evento è stata la Villa Comunale nel quale erano presenti anche stand alimentari, una mostra fotografica curata da Dante Marcos Spurio, un mercatino musicale, un’esposizione artistica di Massimo Zazzara, una di moda a cura di Joele, giovane stilista teramano, con i suoi figurini ideati appositamente per l’occasione e persino una di Alessandro Paolone con le sue creazioni astratte su cotone egiziano. La serata è stata aperta da Dimartino, gruppo musicale indie pop italiano originario di Palermo che prende il nome direttamente dal suo leader, il cantante e bassista Antonio Di Martino.

Qualcuno dei presenti probabilmente lo aveva già visto anche in occasione del Soundlabs Festival a Castelbasso (Te) essendo il target del pubblico lo stesso ma riascoltarlo dal vivo seppure per un breve set di dieci canzoni è stata un’emozione non da poco. La sua scaletta infatti includeva tutte le canzoni più conosciute del gruppo, da “Venga il Tuo Regno” a “Non Siamo gli Alberi” passando per “Poster di Famiglia” e “Maledetto Autunno”.

Dopo circa trentacinque minuti di spettacolo è stata poi la volta dell’attesissimo progetto Stazioni Lunari che in passato ha ospitato artisti del calibro di Bugo, Teresa De Sio, Piero Pelù (Litfiba) e  Daniele Sepe (per citarne solo alcuni) e che per l’occasione ha riunito oltre ai soliti Francesco Magnelli e Ginevra Di Marco, Cisco (ex Modena City Ramblers), Cristina Donà e Cristiano Godano (voce, chitarra e anima dei Marlene Kuntz). Il format è lo stesso di sempre, Ginevra di Marco a fare gli onori di casa, padrona in movimento da una stazione all’altra che determina successioni, movimenti e favorisce commistioni fra i diversi mondi musicali degli ospiti che sono disposte su tre pedane disposte su un palco con una scenografia tanto minimalista ed essenziale quanto attraente.

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Lo spettacolo è aperto da “Del Mondo”, proveniente dal repertorio dei C.S.I. che recentemente hanno deciso di riunirsi senza il loro cantante Giovanni Lindo Ferretti per un breve tour che porterà Gianni Maroccolo, Francesco Magnelli, Giorgio Canali e Massimo Zamboni in giro per l’Italia fino a dicembre accompagnati alla voce dalla carismatica Angela Baraldi.

Tornando invece alla serata del 7 dicembre c’è da dire che massiccia è stata la partecipazione del pubblico che si rivelerà sempre educato e composto (nessun tentativo di pogo, neanche durante i pezzi più animati). La scaletta in questo caso ha incluso invece pezzi provenienti dal repertorio dei singoli artisti (ad esempio “Lieve” e “Trasudamerica” dei Marlene Kuntz) e persino un sentito omaggio al genio musicale di Lucio Dalla (“Com’è Profondo il Mare”) e brani tradizionali della nostra penisola.

Gradita ed inaspettata sorpresa è stata la ricomparsa sul palco verso la fine del concerto di Antonio Di Martino che ha voluto lasciare così un suo ulteriore contributo alla serata che si è conclusa con l’esibizione al laghetto della Villa Comunale del nuovo progetto di  Tito, leader dei Tito & the Brainsuckers, The Electric Flashbacks e con un dj set a cura di VxVittoria C. & Marco Mattioli (COSEPOP). “Note su ali di farfalla – Notte per Federica e Serena” quest’anno ha supportato il centro antiviolenza “ La Fenice”, di cui è intervenuta anche una rappresentante che ha spiegato le attività che svolge durante una breve intervista.

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Daniele Silvestri

Written by Live Report

09 luglio @Colonia Sonora – Collegno (TO)

Daniele Silvestri approda al Colonia Sonora di Collegno con un tour a dir poco singolare. Nove musicisti sul palco (tra cui il blasonatissimo Rodrigo D’Erasmo, violinista degli Afterhours) e uno show che si preannuncia imprevedibile e scanzonato. “Mai come questa volta Silvestri dimostra di avere una gran voglia di sperimentare e mettersi in gioco con l’ambizione di stupire e stupirsi, in un percorso totalmente inedito che si annuncia entusiasmante e imprevedibile”, il comunicato stampa mette già l’acquolina in bocca.

La cornice del festival alle porte di Torino ha i solchi della lotta. Nonostante tutte le difficoltà è ancora in piedi e scalpitante. È il braccio dello zombie che sbuca dalla tomba, in un triste cimitero pieno di manifestazioni ormai defunte da anni. Il Colonia, nonostante il bill quest’anno non sia da urlo come nelle precedenti edizioni, ha il suo carattere e la sua personalità e per Daniele si riempie di gente di tutte le età. Gente che ha sete di canzoni. Sete saziata in partenza anche per i più pretenziosi, con un inizio che alterna brani più recenti a vecchie melodie nascoste e un po’ impolverate, pronte a luccicare nella nuova veste. E allora la retorica “Io Fortunatamente” diventa più soffice e meno tagliente, “Il Viaggio” è estiva come la serata in cui viene cantata, “Sornione” prende l’andamento tranquillo e pacioso, sintomo di un live rilassato e molto conviviale. Si arriva dopo poco ad un virtuoso assolo di Rodrigo D’Erasmo che introduce “Via Col Vento”, tutto resta magico nonostante l’arrangiamento molto più solare e spensierato. Daniele ci dimostra che la magia delle sue canzoni non varia coi vestiti che gli mettiamo addosso. La band stratosferica che lo accompagna si diverte prima con il reggae di “Precario è il Mondo” e poi gioca storto con la ritmica arzigogolata della “Classifica”. Per non parlare di “Amore Mio”, si balla e si ride davanti alla luce del faro della motocicletta di Daniele, munita per l’occasione di una bella tastierina sopra il manubrio.

Il cervello non lo stacchiamo mai e allora ecco “L’Uomo Col Megafono”, più rock e liberatoria che mai. Le percussioni di Ramon Josè Caraballo si incastrano alla perfezione alla sezione ritmica e le chitarre giocano a rincorrersi con il violino di D’Erasmo. Chiamatele improvvisazioni, chiamatela intesa, ma questa squadra sembra giocare insieme da 40 anni e invece è insieme da qualche mese. Il racconto on the road de “L’Autostrada” sfocia in un assolo viscerale di tromba. “La gente passa e prosegue veloce” ci dice la voce narrante di Daniele. Non è vero gli gridiamo noi, ci fermiamo ad ammirare uno delle migliori live band italiane in circolazione e rimaniamo a bocca aperta, stupiti e ammagliati dalla semplicità con cui si presentano. È tempo di due parole e Silvestri pare davvero all’osteria con gli amici, ci fa sentire a casa, sta suonando per lui e per noi. E quando ci si diverte sul palco è un attimo coinvolgere migliaia di persone. Le bacchette di Pietro Monterisi picchiano sulla chitarra acustica di Daniele e parte la divertentissima “Il Flamenco Della Doccia” seguita dalla pugliese “Me Fece Mele a Chepa”. È poi ora dei classici e degli ospiti, in un concerto che ha il sapore di essere lungo, molto lungo (e sia ben chiaro ciò non ci dispiace affatto). “Occhi da Orientale” e “Il Mio Nemico” sono intervallate da special guest come Bunna degli Africa Unite nella cover di Bob Marley “Get Up, Stand Up” e da Samuel e Max Casacci dei Subsonica nella loro “Liberi Tutti”. Certo mossa astuta quella di cantare un  loro pezzo in terra sabauda, ma ciò che è incredibile è come tutto suoni fluido e non vi sia alcuna forzatura nonostante la varietà di stili e di generi che la band sfodera tra un pezzo e l’altro. Ancora mi viene da pensare come le grandi canzoni possano abbattere i generi e i pregiudizi.

Pure il finale è imprevedibile. Dopo il medley “Gino e L’Alfetta”/”Salirò” che rasenta quasi la disco music, seguono la sanremese “A Bocca Chiusa” e “Testardo”, cantata addirittura con il tecnico di palco di Daniele. Prima di chiudere il sipario ci viene regalata l’ultima risata con un simpaticissimo pezzo improvvisato: “Stizziscitici” dove i versi sono composti dai più famosi scioglilingua italiani, alcuni addirittura piemontesi e mandati via Facebook in diretta. L’esperimento è più che riuscito e per mandarci a casa con il sorriso ma anche con i pugni chiusi Silvestri si concede al classicone “Cohiba”. Tutto splende di un rosso acceso, vivo come il sangue, caldo e puro come questa notte. Daniele Silvestri dimostra di essere fuori da tutti gli schemi della musica italiana. Un personaggio di una favola, a volte spensierato e bambino, a volte riflessivo e adulto, di certo mai disilluso. Questa favola però è ancora così vera e sincera che la possiamo toccare con mano.

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