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Dead Neanderthals / Kuru – 7’’ Split

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Si sa, la gestione del rumore è alquanto difficile. E questo 7’’ Split è l’esempio lampante di come (per lo meno provare a) gestirlo, qui si uniscono due realtà distanti geograficamente ma vicine nel creare un macello unico, anarchico e massiccio. Quasi ipnotico, da portare un profano del genere come me ad immergersi con somma attenzione nei due brani di “catastrofe” sonora presentati dagli olandesi Dead Neanderthals e dai trentini Kuru. La mia domanda all’ascolto di questi estremismi musicali è sempre, ma chi si comprerebbe mai un disco così? La risposta in questo caso è: chi, oltre ad avere una percezione uditiva completamente ostile al Pop, vuole sperimentare nuovi stimoli sonori totalmente assenti di regole e limiti. L’unico limite in questi due pezzi pare essere la nota, sprigionata fuori dalla potenza del sax, domata a frustate con spregiudicata violenza, come se si fosse in sella un cavallo totalmente impazzito. La musica è nemica, una presenza quasi maligna, da estirpare, da strapazzare, da sconvolgere.

Le note in realtà nel brano dei Dead Neanderthals pare non ci siano mai, sommerse in un vortice di piatti, qualche colpo di rullante, strilla lontane (probabilmente generate proprio con un sax) e il costante tappeto di rumore puro che sembra una mietitrebbia che ci spappola il cervello. Più cruento di qualsiasi gruppo Heavy Metal che abbiate mai ascoltato in vita vostra. Un incubo sonoro più che un brano musicale. Il sax invece prende una forma perlomeno riconoscibile nel brano dei Kuru, “Fiume Asaro” parte con note distanti e distorte. Sono e rimangono lente ma ben si infilano nei ritmi tribali e storti che accompagnano con dinamica, stacchi difficilissimi e lunghissime pause il brano. Il suono del fiume e dei sonagli dona realismo ai suoni, crudi e primitivi come le grida disperate che anticipano un assolo lacerante di sax. Sapore di Jazz dentro l’Africa più nera. Ormai alla soglia dei trent’anni c’è poco da fare, questi suoni non li capirò mai bene a fondo e certamente non li riterrò mai degni di essere musica per le mie orecchie, troppo tarate sulle comode melodie. Ma sicuro questa tempesta ha un’incredibile forza comunicativa. Forza antica, come un urlo nella giungla. Ad oggi un ballo scoordinato e folle contro la società.

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Death SS – Resurrection

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C’è poco da fare, quando si parla di Steve Sylvester e dei suoi Death SS si spendono solo belle parole, questo perchè si va incontro alla garanzia e ci si imbatte in un marchio di fabbrica registrato. E’ vero che per la storica band tricolore gli ultimi anni sono stati poco positivi, non per questo sono reduci da una “sorta” di scioglimento e la reunion è avvenuta proprio grazie a Resurrection (la loro nuova fatica nonché oggetto principale della nostra recensione). Ogni opera dei Death SS ha sempre una singolare caratteristica che distingue il nuovo disco dal precedente; da sempre la loro bravura sta anche nel far differenza addirittura tra i pezzi stessi dell’album, ogni traccia rappresenta un’esperienza diversa, Resurrection ne è la prova. La proposta della band è la solita: Heavy Metal di alta qualità con riff, assoli, eleganti giri di chitarre e superlative atmosfere, nulla è messo da parte e i tanti anni d’ esperienza di Steve e soci hanno un peso specifico notevole. Come già detto in precedenza ogni pezzo ha un proprio punto di forza, una particolare caratteristica che rende particolarmente unica la produzione dei Death SS, una sorta di continua attrattiva verso ogni singola proposta del platter. “Revival”, ovvero la traccia d’apertura, è quella più elettronica dove l’ uso degli effetti e delle tastiere è davvero consistente, caratteristica presente anche in altri pezzi come “The Darkest Night” e “Star in Sight”.

Il contributo di Freddy Delirio è stato a dir poco fondamentale. “The Crimson Shrine” e “Dionysus” sono atmosferiche ballate che strizzano l’occhio al Gothic, anche in questo caso la band mostra chiaramente le mille sfaccettature di Resurrection, non tralasciando mai però le salde fondamenta dell’Heavy Metal. Un plauso speciale va alla coppia Freddy Delirio e Glenn Strange che, più di una volta, si rivelano parte fondamentale del disco, ascoltare la cupa e tendenzialmente horror “Ogre’s Lullaby” per rendersene conto. Passiamo ad un altro brano forte del disco di Steve Sylvester, si tratta di “Santa Muerte”, una song aggressiva che sfodera probabilmente i più bei riff dell’intero supporto. Resurrection è un lavoro dai mille volti, la genialità di Mr. Sylvester ne esce alla grande, è facile comprendere l’estro artistico di un artista dalle larghe vedute. Questi Death SS dopo tanti anni sono ancora in grado di sbalordire il pubblico, senza troppi giri di parole sono una vera e propria garanzia del genere in Italia.

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Seamount – IV: Earthmother

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Tra i molti dischi che ti arrivano capitano chiaramente anche quelli che ti stupiscono e ti rapiscono al primo ascolto e quelli che proprio non riesci a digerire. Magari quest’ultimi saranno più apprezzati dopo che hai ascoltato una sfilza di scadenti dischi Black e Grind che poco hanno da dimostrare. Con i Seamount invece è successo che dopo una carrellata di dischi che mi hanno lasciato con l’amaro in bocca sono arrivati come un fulmine a ciel sereno, un disco che “spacca” e ti rilassa i sensi. Insomma che cade a fagiolo. Si tratta del quarto capitolo del gruppo di Phil Swanson e soci, ovvero di IV: Earthmother. Cominciamo a  dire che i Seamount con questo lavoro si sono discostati abbastanza dal loro sound iniziale, quei sottofondi baritonali e quelle sorte di melodie deprimenti, almeno in questo disco, vanno a scemare quasi non fossero presenti. Spesso il cambiamento mette un po’ di timore perché non sai mai i tipi di risvolti che prendono o che vogliono prendere volontariamente le band e il più delle volte, almeno per quanto riguarda il sottoscritto, questa trasformazione non è andata mai bene. Ma i Seamount sono l’eccezione alla regola, questo loro addolcirsi e spostarsi su sonorità più Heavy  non ha fatto altro che giovare al loro nuovo disco. L’unica pecca è che troviamo un Phil Swanson che gioca troppo a fare l’Ozzy Osbourne, è vero quel timbro di voce è più che adatto a questo tipo di  proposta dei Seamount ma un pizzico di personalità da parte del cantante non avrebbe affatto guastato. Quando un disco è bello ed interessante lo noti già dalla prima traccia e “Surrender”(l’opener) è un meraviglioso apri pista. Quasi tutte le tracce suonano un po’ come quella citata poco prima eccetto “Echoes”, una  sorta di ballata un po’ più leggera (per cosi dire) ma comunque con un suo personale fascino. L’apice viene raggiunto con la title track  “Do It Again”, un vero e proprio gioiello, i riff e i giri di chitarra presenti sono delle vere e proprie lezioni. I Seamount con IV: Earthmother hanno fatto centro, sono riusciti a comporre un album dalle mille sfaccettature che miscela Doom,  Sludge ed Heavy Metal. Con questo disco la band tedesca ha dimostrato di saperci fare e di avere una visuale assai ampia, oltretutto i musicisti hanno dato il meglio di se e questo quarto capitolo ne è la prova.

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Heimdall – Aeneid

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“Aeneid” è, in Italiano, l’Eneide di Virgilio. Il tema del quinto lavoro della ormai quasi ventennale band campana, che arriva dopo 9 anni di silenzio (caratterizzati da diversi cambi di formazione) dal precedente lavoro in studio Hard as Iron, è dunque il simbolo stesso dell’avventura epica come la buona tradizione del power metal richiede. Il coraggioso concept-album degli Heimdall, pubblicato dalla Scarlet Records, non tradisce le alte aspettative di un’ispirazione così importante e regala all’ascoltatore, dalla prima all’ultima traccia, un metal genuino e tradizionalista ma al tempo stesso moderno nelle sonorità, coraggioso negli arrangiamenti, mai scontati e sempre egregiamente realizzati. Una produzione di ottimo livello anche tecnicamente parlando, con un suono potente soprattutto grazie alle chitarre del tridente composto da Fabio Calluori, Carmelo Claps e Umberto Parisi. Le linee melodiche della voce di Gandalf Ferro sono perfettamente in stile e ben cantate, supportate da ottimi cori degli stessi chitarristi, le ritmiche di basso e batteria (Daniele Pastore e Nicolas Calluori) sempre corpose e incalzanti. Infine un plauso particolare per le tutt’altro che trascurabili tastiere che, meravigliosamente concepite, rendono l’atmosfera evocativa ai massimi livelli.
Che dire, potrei passare traccia per traccia, dall’immancabile e romanzesco prologo all’epilogo (quattordicesima traccia!), appunto “The Last Act”. Ma a cosa servirebbe? Non c’è una traccia brutta in questo disco. Non c’è una traccia che preferisco sulle altre. La storia è quella di Virgilio. L’interpretazione e la realizzazione degli Heimdall è magistrale. Questo “Aeneid” in sostanza offre tutto ciò di cui un sano metal-lover abbisogna, portando una ventata di modernità sonora ma rimanendo fedele alla tradizione degli artisti ispiratori della band di Salerno: Ozzy Osbourne, Judas Priest, Iron Maiden, Helloween e Metallica, solo per citarne alcuni. Potenza, atmosfera epica, melodie evocative, giusta dose di cuore, anima, sangue. L’uscita del disco è prevista per il 26 febbraio 2013. Chi non ama il genere probabilmente non sta nemmeno leggendo il mio articolo. Per tutti gli altri nessun indugio! Per quanto mi riguarda, quando avrò voglia di metal, so che avrò certamente gli Heimdall nella mia playlist.

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