Shoegazer – Intervista a Mario Lo Faro dei Clustersun

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Le chitarre, i tour tra Europa e America e una tonnellata di shoegaze.

Abbiamo intervistato Mario Lo Faro, chitarrista dei Clustersun, band shoegaze/psych catanese composta anche da Marco Chisari (voce/basso) e Andrea Conti (batteria). Si è discusso della storia del Clustersun, dei loro tour in Europa e America ma anche e soprattutto di shoegaze e dell’evoluzione del genere. Ecco di seguito le domande e le risposte.

Giusto per cominciare, ci fai un piccolo “Clustersun in a nutshell”, riassumendo la vostra storia?

I Clustersun nascono nel 2013 con il primo singolo Be Vegetal che viene notato dall’etichetta americana Custom Made Music e viene pubblicato in delle compilation su SoundCloud. Così catturiamo l’attenzione della Seahorse Recordings che ci manda in studio per il nostro primo album, Out of your Ego del 2014, il quale ottiene un buon riscontro nonostante scelte sul mix che oggi non approverei. Nel 2015 facciamo un tour di dodici date negli Stati Uniti e sull’onda di questo entusiasmo nel 2017 pubblichiamo il nostro secondo lavoro, Surfacing to Breathe, con un netto miglioramento a livello di produzione; questo disco viene ricevuto ancora meglio del primo.

All’inizio del tour perdiamo un elemento, Piergiorgio Campione alle tastiere; decidiamo di rimanere in tre e di non aggiungere alcuno strumento. Senza le tastiere il nostro suono diventa sempre più muscolare e con il terzo album, Avalanche, uscito per Icy Cold Records e Little Cloud Records nel 2021, sprigioniamo definitivamente tutta la forza bruta.

E proprio nell’ultimo album c’è una collaborazione importante, quella di James Aparicio, che ha lavorato con band del calibro di Spiritualized, Mogwai e Depeche Mode, tanto per dirne tre…

James si è occupato del mix e del mastering del disco. A prescindere dall’aura che lo circonda, ed oltre la semplicità e la naturalezza con cui ha gestito tutto, il valore aggiunto è stata la sua sensibilità. DI solito si danno delle referenze quando si richiede un mixaggio a distanza ma noi non abbiamo volutamente dato nulla. È riuscito a far suonare il nostro materiale non solo come volevamo, ma proprio come siamo. Sembrava fosse stato per mesi in sala prove e invece era lì nel suo studio di Londra. Ha tirato fuori una fotografia della band che è accuratissima.

Nel tuo racconto hai accennato al vostro tour americano del 2015. Qual è la maggiore differenza tra suonare negli Stati Uniti e in Europa ?

Dovrei prima raccontarti come ci siamo andati negli Stati Uniti: vestiti da turisti, spedendo parte della strumentazione in casse di polistirolo come fossero prodotti tipici siciliani. Abbiamo comprato il resto degli strumenti in loco ed alcuni li abbiamo resi alla fine del tour. Quando entrammo nel locale a New York con queste casse di polistirolo sembravamo quasi dei pescivendoli.

Rispondendo alla domanda, tra Stati Uniti ed Europa non ho trovato differente sostanziali, c’è rigore sugli orari, si da più o meno lo stesso spazio alle band di supporto e agli headliner. In Europa ricordo con piacere posti come Groningen o Parigi. Lì si trova il fonico che offre un librone per la scelta della backline e abbiamo solo l’imbarazzo della scelta.

E se invece parliamo di differenze tra Europa/Stati Uniti e Italia?

In Europa e negli USA ti accorgi dell’abitudine a certa musica e della confidenza che hanno con le culture alternative. C’è quella percezione di interesse, curiosità, voglia di scoprire. In Italia non esiste, piuttosto funziona al contrario: trovi il pubblico quando alle spalle hai già un hype creato da qualcosa. Ad esempio noi in Italia arriviamo ad avere un certo pubblico solo adesso, forti di quello che abbiamo fatto fuori. A Parigi siamo stati main act in un palco come quello del Supersonic e ci hanno dato questa grande possibilità solamente basandosi sull’ascolto del disco e sulle credenziali dell’etichetta.

Quanto pesa il ruolo della label nel promuovere i tour?

Come detto aiuta in termini di credenziali, le date a Parigi e in Francia sono state facilitate dal fatto di avere una label francese, la Icy Cold Records. L’etichetta non si occupa direttamente di promozione ma ti crea il contesto e la credibilità nel circuito.

Come è cambiata l’idea di Shoegaze a livello di suono dagli anni Novanta ai giorni nostri?

A livello di suono buona parte della scena contemporanea riprende i canoni dello shoegaze degli anni Novanta in toto, è quasi un vero e proprio tributo. La differenza però è la facilità che oggi c’è nel poter replicare quel suono, per via dello sviluppo dell’industria di pedali, amplificazioni eccetera. Un tempo la chitarra Jazzmaster era considerata una chitarra derelitta, oggi invece è fighissima e la hanno in molti.

Anche per quanto riguarda gli effetti, nei Novanta eravamo agli inizi del digitale e c’erano le prime unità rack che erano costosissime, dei veri propri e cassonettini. Erano situazioni che nascevano dal genio e dalla sperimentazione di alcuni personaggi come Kevin Shields, che con la sua ricerca maniacale ha rivoluzionato il concetto stesso di suono di chitarra. Adesso invece è stato codificato tutto. Trovi pedali che riproducono esattamente la catena di processazione dei My Bloody Valentine, talvolta col suono tarato sul singolo brano.

Con questa facilità non si rischia di cadere in una sterile riproposizione?

La grande accusa che viene fatta alla scena shoegaze contemporanea è che, nonostante il gran numero di band che la popola, ci sia più forma che sostanza. Poi ci sono casi in cui il discorso si spinge oltre, e il lavoro sulle distorsioni e sugli ambienti viene portato all’estremo in maniera tale da risultare un nuovo meccanismo di espressione. È il caso ad esempio degli A Place to Bury Strangers. Di base però i suoni si ripropongono, sta poi alla bravura dell’artista calarli in un contesto che non sia solo mera riproposizione.

Nel vostro percorso avete anche dedicato delle cover a mostri sacri dello shoegaze, ad esempio una versione di Morningrise degli Slowdive. Ecco, cosa hanno rappresentato per te gli Slowdive?

Probabilmente è la band con cui ho il rapporto di empatia più forte in assoluto, banalmente direi la band del cuore. È qualcosa che ha a che fare con il loro modo di essere e di veicolare la musica, e con la loro storia. Citando Manfredi Lamartina di Shoegazeblog: “Lo shoegaze è il punk per introversi”.

Gli Slowdive erano dei ragazzini introversi, un po’ timidi, che sfogavano tutto in questa cattedrale sonora che avvolge e conforta ma che allo stesso tempo regala potenza. Vennero istantaneamente proiettati in una sfera di hype incredibile dalla stampa britannica per poi essere accartocciati e buttati via brutalmente. Eppure il seme che avevano piantato è rimasto sottotraccia nel cuore dei fan in quasi venti anni di silenzio ed è rigermogliato nuovamente qualche anno fa in maniera incredibile, forse anche per loro. Pygmalion era un disco talmente in anticipo sui tempi che non venne capito. La loro è una storia di riaffermazione.

Sempre bello sentirti parlare di musica. Come ultima domanda, ci vuoi accennare qualcosa sull’altro nuovo progetto a cui stai lavorando?

Assolutamente. Il progetto si chiama Tucci. Insieme ad Ivano Pul stiamo dando una mano a questo giovanissimo talento catanese che risponde appunto al nome di Emanuele Tucci. È un ragazzo che produce del materiale incredibile del tutto DIY. Lo stiamo aiutando a passare dalla produzione da cameretta a qualcosa che possa metterlo in pista nel circuito vero. Il suo primo EP è ormai pronto e nei brani ho messo la mia chitarra. Inoltre stiamo provando a dare a questi brani una dimensione live quanto più strutturata possibile.

Grazie mille amico mio.

Grazie a te.

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Last modified: 27 Febbraio 2023