Protomartyr – Formal Growth in the Desert

Written by Recensioni

Con il suo sesto lavoro, la band di Detroit si conferma unica e peculiare nel panorama rock attuale.
[ 02.06.2023 | post-punk, art punk | Domino Recording Co ]

Non riesco a pensare ai Protomartyr come a una band post-punk qualunque. Fin dal suo esordio di undici anni fa, il gruppo di Detroit si è distinto per un suono diverso e unico e per un cantato intenso e personale, staccandosi nettamente dall’affollato pentolone delle band post-punk spuntate a bizzeffe negli ultimi anni.

La band di Joe Casey è infatti molto di più: suoni contorti e affilati, testi complessi e citazionisti, canzoni modellate intorno alle personalità che compongono il gruppo. E, in questo suo sesto album in studio, è riuscita ancora una volta a distinguersi, e soprattutto a rimanere sempre sé stessa pur modellando le asperità degli esordi con grandi quantità di eleganza e finezza.

Formal Growth in the Desert è stato registrato al Sonic Ranch di Tornillo, in Texas, e arriva dopo tre anni parecchio turbolenti per i membri della band e per il mondo intero. Il Covid e tutto quello che ne è conseguito, il mezzo “flop” dell’album precedente uscito in piena pandemia e decisamente sottovalutato, lutti e momenti difficili. Ma è proprio da questi fatti che i Protomartyr hanno deciso di trarre ispirazione, riuscendo così a comporre uno degli album più personali e riusciti della loro carriera.

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Traccia d’apertura è il singolo Make Way, che è musicalmente coerente con il brano di chiusura dell’album precedente, Worm in Heaven. Simili gli intrecci di chitarra, simili le tematiche.
Il brano narra della vita durante la quarantena e dell’amnesia collettiva che ne è seguita. Tra l’altro, qui compare per la prima volta una pedal steel guitar suonata da Bill Radcliffe, tipica del country folk americano, strumento che sarà presente anche in altri brani del disco.
Make way for tomorrow“, grida Casey nel ritornello del brano, “fai spazio al domani”.

La canzone successiva si intitola proprio For Tomorrow e doveva inizialmente essere solo una coda della precedente, una sorta di versione alternativa, ma è poi divenuta un vero e proprio brano a sé stante. Anche qui si parla di pandemia, ma più dal punto di vista personale di Joe Casey e di come durante il lockdown si sentisse perso e insicuro.

Si tira il freno nella successiva Elimination Dances, lenta e riflessiva canzone su una gara di ballo che diventa metafora della vita e della morte. Qui risalta la splendida e saltellante sezione ritmica ispirata ad un battito cardiaco irregolare. Sugli scudi la batteria di Alex Leonard, che in tutto l’album è straordinariamente dinamica e variegata, la colonna portante su cui si sviluppano le melodie.
Batteria che è assolutamente protagonista anche in Fun in Hi Skool, uno dei pezzi più drammatici del disco: qui Joe bercia sulla sua terribile esperienza al liceo e di come questa abbia poi influito sulla sua vita da adulto.

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I temi dell’album sono molteplici. In Let’s Tip the Creator si parla dell’uso inquietante che si sta facendo dell’intelligenza artificiale nel mondo dell’arte e della disumanizzazione che i ricchi tecnocrati stanno diffondendo.
In Graft Vs. Host e The Author Joe sviscera invece il suo dolore per la madre recentemente scomparsa, dopo aver convissuto per oltre dieci anni con l’Alzheimer.

E poi arriva Polacrilex Kid, terzo singolo estratto nonché, a mio parere, il brano più bello dell’intero album. Il suo testo racconta di un viaggio di Joe Casey a Sedona con la sua fidanzata di allora, un trekking in mezzo al deserto con scarponi economici comprati su internet, gomme alla nicotina e un odio verso sé stesso che in quel periodo era più forte che mai.
Can you hate yourself and still deserve love?” ripete lui mentre la pedal steel guitar suona languida. Ascoltando questo pezzo sembra che il mondo sia impazzito. Joe stesso, con la sua cadenza monosillabica e quasi rappata, trasforma il brano in un non-sense psichedelico.

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Ci sono tantissime storie personali in Formal Growth in the Desert. Frasi che sembrano delle fotografie piene di piccoli dettagli, strofe che sembrano vere e proprie istantanee di vita. Parole vivide, a volte quasi recitate da Joe Casey, altre gridate come ad esorcizzarle.
Un album fantasioso e originale, che ancora una volta riprova come i Protomartyr siano unici e peculiari.
Ci sono momenti di puro punk che richiamano gli Stooges, ma anche sperimentazioni al limite dello shoegaze; c’è l’art rock dei Television e le influenze gotiche dei Cure più neri.

L’autenticità impenitente dei Protomartyr ne esalta la forza vitale. Mentre continua a superare i confini del post-punk, spogliandosi al contempo di questa etichetta, la band di Detroit si erge a innovatrice della scena rock di oggi, lasciando un solco che rimarrà per lungo tempo.

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Last modified: 13 Agosto 2023