Maria W Horn – PANOPTIKON

Written by Recensioni

Un’esperienza di ascolto stupefacente e totalizzante, fatta di gelido minimalismo e dilagante incertezza.
[ 02.02.2024 | XKatedral | drone, experimental, sound collage ]

Un luogo liminale, surreale, al quale sembra essere stato sottratto ogni riferimento appartenente al tempo e allo spazio. Una cella ripetuta uguale all’infinito in una struttura circolare. Per ciascuna di esse, una finestra rivolta all’esterno, a scandire l’inesorabile alternarsi del giorno e della notte, della luce e del buio. Un’altra finestra rivolta verso l’interno, in direzione di una torre centrale, sotto l’occhio vigile di un onnisciente, onnipresente osservatore.

Pare quasi frutto di uno dei nostri incubi più disturbanti, ed è invece terribilmente reale il concetto di carcere ideale che risiede dietro il termine PANOPTIKON e che dà il titolo alla composizione di Maria W Horn, musicista e artista visiva di stanza a Stoccolma.

L’album, diviso in quattro atti, è una suite che spazia fra drone, elettronica e sperimentazione vocale, inizialmente studiata per un’installazione di suoni e luci nella dismessa prigione di Vita Duvan a Luleå, in Svezia – progettata appunto secondo il modello di panottico ideato nel 1791 dal filosofo e giurista Jeremy Bentham.
È un fascino algido e distaccato che incatena i nostri sensi a questa opera sorprendentemente vibrante nel proprio minimalismo, lenta e assorta come il trascorrere di un tempo che sembra ormai aver perso qualsiasi parvenza di significato in un contesto di clausura forzata.

Sotto una superficie apparentemente gelida, come una fine lastra di ghiaccio che si spezza sotto i nostri passi, c’è un cuore affaticato ma ancora vivo e pulsante; sotto un illusorio elettrocardiogramma piatto, dei battiti sommessi che raggiungono un’intensità spirituale.

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Appare quasi insostenibile il peso del bordone sonoro che si estende per i meravigliosi, interminabili 14 minuti dell’iniziale Omnia Citra Mortem come un lunghissimo flusso di coscienza; il crescendo delle parti vocali, che si intrecciano in perfetta armonia con un drone opprimente, cela tutto il mistero di una sofferenza antica, silenziosamente tramandata in migliaia di voci inaudite e dimenticate.

Il concept sul quale si basano le fondamenta dell’album è trasposto in musica in maniera talmente efficace e penetrante da riuscire alla perfezione nell’intento di rapire l’ascoltatore fino ad influenzarne ogni percezione.
L’esperienza di trovarsi chiusi in una cella, privati di ogni concezione della realtà al di fuori di essa, con la costante consapevolezza di essere sorvegliati, si rispecchia nel terrificante riflesso di un viaggio sonoro nel quale regnano la ripetitività, il mantra, un’ipnosi talmente inquietante da generare un profondo senso di incertezza.

Nessun colore che spicca e distrae, né sfumature particolarmente intense da attirare l’attenzione.
Solo una progressiva, atroce deprivazione sensoriale, che sfuma e si dissolve in uno sguardo perennemente puntato ad una luce che filtra da una finestra sempre troppo distante, un bagliore che raggiunge il suo culmine e cala fino a spegnersi misurando gli estremi del giorno e della notte che si susseguono – ne è perfetta rappresentazione la title track, nell’alternanza dei suoi graduali climax e cali di tensione.

La funebre conclusione di Längtans Vita Duva, riarrangiamento di una canzone popolare tradizionale di Närke, porta con sé un dolore che difficilmente riesce ad essere espresso a parole, arrivati a questo punto.

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Che cosa ci resta, al termine di questa mezz’ora? Un’immagine svuotata, ormai rarefatta, il ricordo della contemplazione di un’opera d’arte in cui ci siamo persi e i cui contorni si fanno sempre meno definiti al passare di ogni giorno, ma che non smette di trasmetterci emozioni.
La drammaticità di una scena che è talmente vivida e crudele da indurci a pensare di avervi realmente assistito e che invece vive soltanto nella nostra mente, come la diligenza che affonda tragicamente nel paesaggio coperto di neve dipinto da Gustave Courbet nel 1860.

Sepolti sotto un’opprimente e gelida coltre immersi nella pace di una foresta nordica, segregati nel silenzio di una cella, oppure rinchiusi nelle claustrofobiche stanze della nostra mente. A volte la linea di confine è talmente labile da risultare quasi impercettibile.

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Last modified: 6 Febbraio 2024