I migliori album del 2020 – La classifica di Vittoriano Capaldi

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Ancora classifiche: date un’occhiata a questa Top 10.
10. Waxahatchee –Saint Cloud

[ cantautorato, folk | Merge ]

È ormai risaputo che negli ultimi anni il cantautorato al femminile sta vivendo una fase incredibilmente ricca di artiste talentuose e tutte in qualche modo peculiari, un filone quanto mai florido e variegato. Waxahatchee è il moniker dietro cui si cela Katie Crutchfield, nativa del Sud degli Stati Uniti e quindi decisamente immersa nella tradizione cantautorale/folk americana.

Saint Cloud è il nuovo capitolo in una serie di dischi ispirati e scritti e arrangiati in maniera impeccabile. E ne rappresenta forse l’apice, forte di una serie di brani tra i migliori in assoluto nel repertorio della Crutchfield. Lilacs è semplicemente perfetta nella sua irresistibile e ariosa melodia, ma probabilmente il vero highlight del disco è la conclusiva title-track: una ballata voce e piano che lascia di stucco, emozionante come poche altre cose ascoltate quest’anno. La ascolterete in loop, garantito.

9. Kevin Morby – Sundowner

[ cantautorato, americana | Dead Oceans ]

Essere sulle scene da relativamente pochi anni (il debutto risale al 2013) e aver già pubblicato sei dischi tutti di ottima fattura è segnale di indiscusso talento. Per di più il nuovo disco arriva a solo un anno di distanza dal precedente e ottimo Oh My God e ispirazione e scrittura non sembrano affatto averne risentito.

L’artista texano (ma da qualche tempo stabilitosi a Kansas City) è ad oggi uno dei più brillanti prosecutori della tradizione cantautorale e folk americana. E anzi, perdonandomi il gioco di parole, si potrebbe parlare proprio di “americana music”, a mio avviso l’etichetta che meglio descrivere la musica di Kevin Morby.

Don’t Underestimate Midwest American Sun è sì un pezzo bellissimo ma soprattutto un orgoglioso manifesto sonoro ed espressivo di tutto in genere attualmente un po’ dai riflettori americani (sia a livello musicale che geografico): musica che fa bene all’anima pensata per posti sconfinati e lontani da tutto (ergo anche i cuori di ognuno di noi, perché no). “Don’t let the sun go down on me”, canta Morby nella title-track: sicuramente il sole non tramonterà su questo ennesimo, ottimo lavoro.

8. BDRMM – Bedroom

[ shoegaze, dream pop | Sonic Cathedral ]

La nostalgia è in generale uno dei sentimenti umani più persistenti e sudboli. Si può letteralmente avere nostalgia di qualunque cosa, e se c’è un genere che si sposa al meglio con questa comunissima eppure sempre sorprendente sensazione emotiva, quello non può che essere lo shoegaze.

Chiunque ami questo filone musicale insospettabilmente più vivo che mai certamente si sentirà a casa fin dalle primissime note del debutto della band da Hull, atmosfere maledettamente celestiali e sospese. Quando poi riverberi e feedback si prendono la scena – è il caso ad esempio della bellissima If… – il tutto al cuore è quasi insostenibile. Può sembrare una cosa da poco emozionarsi con la musica, e invece è tantissimo.

7. Dogleg – Melee

[ emocore, punk | Triple Crown ]

È probabile che il mio evidentissimo amore per le chitarre risulti un po’ anacronistico nel 2020, ma sono abbastanza sicuro che il detonante debutto di questo quartetto da Detroit possa far innamorare anche chi solitamente mastica altro in fatto di musica. Chitarre violentemente sferzanti, voce sguaiata il giusto, sezione ritmica martellante: c’è tutto per riportare degnamente in auge l’emocore dei bei tempi (etichetta quanto mai bistrattata ma vi assicuro che a cercare un attimo si scovano di quelle perle che non avete idea).

Kawasaki Backflip è un’apertura incredibile, a mani basse uno dei pezzi migliori di tutto il 2020, già dal riff di chitarra iniziale capisci di essere al cospetto di un brano schiacciasassi. E il disco intero si mantiene su standard molto alti sia a livello di songwriting (sempre ottime le melodie) che di pacca sonora, un vortice sonoro che vi investirà fin dal primo ascolto.

6. Porridge Radio – Every Bad

[ indie rock | Secretly Canadian ]

In un’epoca di uscite compulsive e bulimia musicale, quattro anni senza pubblicare un disco sono davvero un’eternità. È proprio il caso dei Porridge Radio, tanto era passato dal loro ultimo lavoro. Va detto che l’attesa è stata ben ripagata, in quanto il quarto album in studio della band di Brighton capitanata da Dana Margolin è di gran lunga il migliore della loro – ancor – giovanissima carriera.

L”urgenza espressiva è sicuramente fortemente caratterizzante di questo Every Bad, urgenza che unita alle sonorità indie rock/lo-fi un po’ 90s fanno spesso e volentieri tornare alla mente la giovane PJ Harvey (pezzi come Don’t Ask Me Twice e Nephews sono ottimi esempi in questo senso, e scusate se è poco). Con ogni probabilità il brano più rappresentativo è l’opener Born Confused, dal testo quanto mai antemico: “Thank you for leaving me, thank you for making me happy”. Alzi la mano chi non l’ha pensato almeno una volta in vita sua.

5 Hum – Inlet

[ alt rock, space rock | Polyvinyl ]

Forse eravamo in pochi ad aspettare questo ritorno, ma per chi consuma da anni i dischi degli Hum sperando in un nuovo capitolo della loro grandiosa sebbene scarna discografia l’uscita di Inlet è stata nettamente una delle grandi notizie di quest’anno. Quattro dischi negli anni ’90 culminati con la grandiosa doppietta You’d Prefer an Astronaut / Downward Is Heavenward e poi un oblio di ben dodici anni: tanto abbiamo atteso, ma ne è valsa sicuramente la pena.

La band dall’Illinois rappresenta uno dei tanti esempi di gruppi seminali e fondamentali caduti però ben presto nel dimenticatoio, un ricordo flebile che però ha continuato a vivere tramite le tante band che dal gruppo guidato da Matt Talbott hanno tratto ispirazione (esempio pratico: vi piacciono i Deftones? Bene, ascoltatevi gli Hum e poi capirete da dove sono venuti fuori Chino Moreno e i suoi). Un tripudio di chitarre che tanto fa bene a noi vedove mai più convolate a nozze dei 90s.

4. Phoebe Bridgers – Punisher

[ indie pop, cantautorato | Dead Oceans ]

A soli 26 anni Phoebe Bridgers è già una delle grandi icone del cantautorato al femminile internazionale. Due dischi semplicemente splendidi, l’album con Conor Oberst come Better Oblivion Community Center, la collaborazione con Julien Baker e Lucy Dacus (altri due nomi non da poco) sotto il moniker Boygenius: una carriera scintillante che eppure praticamente ancora agli inizi.

Introspettiva, poetica, eterea: potrei usare mille aggettivi per descrivere Punisher, disco che davvero non ha cali di tensione lungo tutti i suoi quaranta minuti. La chiusura affidata alla doppietta Graceland Too / I Know the End è da vero KO emotivo, ma la perfezione sonora ed emotiva raggiunta in Kyoto è probabilmente insuperabile. Solo amore.

3. METZ – Atlas Vending

[ noise, post-hardcore | Sub Pop ]

Arrivare al quarto album pubblicato nel giro di otto anni è segno di continuità e di una certa programmazione. I METZ sono uno di quei gruppi che hanno davvero segnato il rock in questi anni ’10 eppure sono sempre rimasti un po’ in disparte rispetto ad altre band che si prendevano invece tutto il palcoscenico. Certo, nel caso dei canadesi parliamo di un sound che non è poi del tutto accessibile a chiunque, ma credo sia arrivato il momento di rendere loro finalmente giustizia.

E non c’è modo migliore per farlo che decantare le lodi di questo nuovo lavoro, probabilmente il più maturo e coeso pubblicato finora. Certo, la violenza sonora è stata fin dagli esordi il loro tratto più distintivo e in Atlas Vending ce n’è a volontà, eppure stavolta l’impressione è quella di trovarsi al cospetto di un noise efferato ma comunque ragionato, una copiosa potenza di fuoco che viene in qualche modo incanalata e controllata.

Pensiamo ad esempio alla conclusiva (benché primo singolo di lancio) A Boat to Drown In, che con quella coda strumentale e quasi ossessiva è il vero highlight di un disco che non fa registrare alcun momento di stanca. Citazione doverosa anche per Blind Youth Industrial Park, pezzo dal tiro semplicemente incredibile.

P.S.: Nota di merito anche per i bellissimi videoclip, cosa non scontata oggigiorno.

2. Midwife – Forever

[ slowcore | The Flenser ]

Le etichette lasciano sempre il tempo che trovano e in effetti descrivere il nuovo lavoro di Midwife – al secolo Madeline Johnston – non è affatto facile. Lei usa il termine “heaven metal” e noi non ce la sentiamo di dissentire, anche perché altrimenti verrebbe da utilizzare etichette un po’ spocchiose come slowgaze o darkpop.

L’apertura con 2018 è subito ferale, col suo ritmo lento e opprimente e un testo che lascia poco spazio all’immaginazione: le frasi “this is really happening to me / get the fuck away from me, 2018” ripetute in maniera ossessiva sono probabilmente quanto di più cupo e tenebroso ascolterete quest’anno. Il 2018 fu l’annus horribilis della Johnston in quanto vide la morte del suo amico e collaboratore Colin Ward (la voce registrata che recita un poema in C.R.F.W. è sua), a cui l’album è interamente dedicato.

Ecco, se per voi questo 2020 è stato un anno infernale (e viene difficile credere che non sia stato così), Forever potrebbe davvero essere il vostro disco dell’anno.

1. Fontaines D.C. – A Hero’s Death

[ post-punk | Partisan ]

Confermare le aspettative – quelle proprie e quelle altrui – dopo un debutto sfolgorante è sempre complicato, e un hype del genere intorno al loro nuovo lavoro forse non se lo aspettavano neanche i cinque ragazzi di Dublino.

A Hero’s Death è un disco molto diverso rispetto al precedente. Se in Dogrel a farla da padrona era una certa urgenza espressiva che si rifletteva poi anche nei pezzi (penso ad esempio a brani come Boys in the Better Land e Hurricane Laughter), qui la band capitanata da Grian Chatten mostra una maturità sonora, lirica e compositiva stupefacente e quasi insperata. Prova ne è la magnifica traccia d’apertura I Don’t Belong, un inizio dimesso e quasi catartico che lascia subito spiazzati.

A Hero’s Death è un disco “blu” nel senso più anglosassone dell’aggettivo (ok, è blu anche in copertina, ma questo è un altro discorso); è un album interamente pervaso da un latente e profondo senso di malinconia, anche quando si spinge un po’ sull’acceleratore (la title track, Televised Mind) non si ha mai l’impressione di una vera e propria detonazione sonora. Malinconia che nelle ultime due tracce, Sunny e No, raggiunge poi livelli quasi da groppo alla gola, con l’inconfondibile e caratteristica voce di Chatten a declamare versi che toccano davvero nel profondo.

“Life ain’t always empty”, è proprio vero.

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Last modified: 12 Gennaio 2021