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“Diamonds Vintage” Family – Music In A Doll’s House

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Profondo 1968, siamo sul crinale di una nuova “scissione creativa” che va ad indagare in una direzione ben precisa, quel rock progressivo che da lucentezze tutte King Crimsoniane, e che si allunga fino all’apoteosi di rock-psichedelico che da lì a poco sarà strada privilegiata per sciami infiniti di band seminali.
I Family, Roger Chapman voce, Charlie Whitney chitarra, Jim King sax, Rob Townsend batteria e Ric Grech violino, sono una delle formazioni di punta della “stravaganza” freakkettona che in quegli anni era dote e costume importantissimi, piacciono molto ed agitano come pochi il sistema alternativo dell’epoca; sul palco sono indomabili e casinari, su disco tutta un’altra cosa.

Music In A Doll’s House” è il disco della rifinitura, sempre con le peripezie beatnik della California in fiamme, ma del contenimento forzato che, in una dozzina di pezzi, stenta a reprimersi fino a sbottare nella sua quasi totalità libertaria, meravigliosamente senza ritegno alcuno.
Tutto è barocco e cangiante, stili e sonorizzazioni che si surriscaldano ed inseguono come nel corpo di una corsa ad ostacoli che non si vuole restringere dentro paratie, pompe magne d’arrangiamenti e architetture sonore, un’avanguardia inaspettata che guarda molto negli occhi di Zappa come motore ionizzante della fantasia creativa, ma anche dentro l’estetica di un rock esplosivo e – a tratti – fuori delle righe – se intese come tali; è l’era dei Mellotron, dei VC7 ed altre strane congetture tecniche che la band di Leichester fa andare a braccetto con arie epiche, cori rinascimentali, trombe e stravaganserrai che colpiscono ad ogni cambio di pezzo.

Tante le sensazioni cosmic open-space The Voyage, The Breeze, Winter, molte le acidosità metedriniche che svalvolano nelle ossessioni di Never Like This, Be my fiend, Peace of mind dove addirittura florealità indù, litanie muezzin ed Ohm tibetani fanno capolino profumato, poi qua e la – ascoltando attentamente il registrato – animosità Hendrixiane, pulsazioni di Peter Gabriel e plumbei sunset blues, emergono divinamente a completare questo disco giocoso e profondo.
Prodotto da Dave Mason dei Traffic, Music in a doll’s house è un missile puntato oltre le barriere del flower power imperante in questo periodo, un missile del quale non ritroveremo più per sempre la traiettoria tra i pindarismi d’oggi.

TRAKS

Chase
Mellowing grey
Never like this
Me my friends
Hey Mr. Policeman
See through windows
Varation on a theme of Hey Mr. Policeman
Winter
Old song, new song
Varation on a theme of the breeze
Varation on a theme of me my friend
Peace of mind
Voyage
Breeze
Three times time

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“Diamonds Vintage” Santana – Abraxas

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Nell’ultimo atto degli anni 60 i Doors si stavano già defilando verso il tramonto, ancora resistevano i Jefferson Airplane e Grateful Dead a salmodiare lessici politici e funghi allucinogeni, ma tutto sembrava un copione che aveva già ampiamente esaurito il punto di forza, quando poi, come un miraggio reale, arrivò Abraxas e uno strano sole illuminò il rock con un rock mai sentito.

Trentasette minuti primi di spiritualità e carnalità avvolti in passioni latine, afro-cubane, arroventate dallo spasimo lacerante di una Gibson cavalcata da Carlos Santana chitarrista chicano che, con una formazione che resterà nella storia Gregg Rolie tastiere e voce, David Brown basso, Michael Shrieve batteria e Mike Carrabello, Josè Chepito Areas alle percussioni indiavolate, incendiò le gioie inespresse del dopo-Woodstock.
Un mix di cool jazz, blues, rock e musica latina tempestato da ritmiche di congas e timpani scolpito dal tocco chitarristico di Santana; questa era la nuova frontiera che in quegli anni si delineava all’orizzonte, un insieme di stili imparati e forgiati negli anni giovanili passati in Messico. La copertina la dice lunga del periodo psichedelico che si stava vivendo, immagini, volti, panorami tra fede e spiritualità, sensualità,eccessi di droghe, penitenze e suggestioni venivano effigiate per contendere lo spazio intermedio tra realtà e sublime e per dare – soprattutto – una visione optometrica divinatoria alla musica.

Il disco – tralasciando due brani di “servizio” Se a cabo e Incident at Neshabur – prende l’anima e il corpo e ne fa un tutt’uno di meraviglia, e lo si tocca con Singing winds, crying beasts, una specie di voodoo di piano, percussioni e chitarra in crescendo che introduce all’alchimia magica del “passetto famoso” di Black magic woman, canzone scritta e scartata da Peter Green dei Fleetwood Mac e che il combo Santana innalzò a monumento di note; un’altra cover fa bollire l’album, il celeberrimo latin jazz di Oye como va di Tito Puente.
Tremendi i due pezzi che si riappropriano del rock Hope you’re feeling better e Mother’s daughter che vedono la firma di Gregg Rolie e poi l’unico pezzo vergato da Santana, Samba pa ti, la canzone più suonata al mondo, con quegli assolo di chitarra sofferti che sono diventati classici e materia di studio per ogni chitarrista a venire.
Suggella lo spirito bestiale di Abraxas El nicoya, un atavico e pazzo combustibile tribale di percussioni e chitarra acustica che strappa il cuore come un sacrificale rito Azteco.

E’ un disco che è rimasto in cielo come una stella, un punto cardinale inaudito che ha fatto smarrire la strada maestra a molti, e a molti l’ha fatta ritrovare, dopo un vuoto girovagare tra le macerie lasciate dal “sogno floreale”.

Traks:
Singing winds, crying beasts
Black magic woman/Gipsy Queen
Oye como va
Incident at Neshabur
Se a cabo
Mother’s daughter
Samba pa ti
Hope you’re feeling better
El nicoya

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“IL CIELO OGGI”, IL NUOVO SINGOLO DI FRANCESCO-C

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Capita qualche volta di tornare alla ribalta, in un mondo in cui capita molte più volte di cadere in un baratro di muffa e ragnatele. Ma magari dopo la franata si prende un po’ di tempo, si medita su ciò che ci sta intorno e ci si abitua alle umide mura per poi costruirsi una fune robusta come la nostra corazza e con molta fatica si risale, scrollandosi di dosso un po’ di ruggine.
Sta capitando così a Francesco-C, cantastorie punk-rock from Aosta, che ha toccato buone vette a inizio millennio per poi essere sbattuto nel polveroso armadio dei residuati Mescal dopo un album del 2005 (a mio avviso strepitoso) intitolato “Ulteriormente”. E in effetti 7 anni fa Francesco fu profetico, con un titolo così non poteva esserci una fine immediata.
Dopo qualche live e un lunghissimo silenzio il “ragazzo”, torna in questo 2012 con un nuovo singolo: “Il cielo oggi”. Una canzone densa, ma semplice, quasi minimale e che nonostante le sonorità più pacate conserva il vecchio spirito punk del cantautore.

In uno scenario che adora i giri di parole e finti poeti ubriaconi, il rock made in Italy aveva bisogno del suo ritorno.

Bentornato a galla Francesco.

 

Trovate il singolo e tutta la discografia di Francesco-C su iTunes a questo link: http://itunes.apple.com/it/album/il-cielo-oggi-single/id494886476

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“Diamonds Vintage” Genesis – Trespass

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Affatto disillusi dal flop del loro primo vagito nel mondo del rock con From Genesis to revelation, la band di Peter Gabriel, già nel pieno dell’entravesti, studia la mossa risolutiva per esordire in maestà e in pompa magna alla corte di quel movimento “staccato da terra” che da Canterbury dipanava la sua tela magica astrale e in conflitto con il mondo restante del rock.

Trespass” è il risultato pratico di quella teoria progressive che non cercava il “consenso di base” piuttosto la velleità illuministica “dell’elevazione elettiva” della musica verso l’opera irraggiungibile, il summa del suono, l’apoteosi della lirica. Ed è anche il disco che apre ai Genesis la strada futura che li porterà tra i grandi Cattedratici del genere.Con Peter Gabriel alla voce, Anthony Phillips chitarre e voce, Anthony Banks tastiere, voce, mellotron e pianoforte, Michael Rutherford chitarre, basso, violoncello e John Mayhew batteria e percussioni, i Genesis sono pronti a spiccare il volo e lo fanno con i lunghi minutaggi delle suites e delle complessità variabili dei toni in quest’album che fa da anello di congiunzione ad un’ancora filatura psichedelica che si spalma sui landscapes neoclassici, su cui le mirabolanti  soggettazioni di Gabriel spandono eclettiche quanto favoleggianti scene miracolistiche.

I Camel, gli Yes e Gentle Giant, altri capisaldi del progressive del  nuovo stampo britannico a divenire, sentono nei Genesis l’arrivo di un gruppo che non solo mina i loro territori d’azione, ma vedono nell’espressionismo carismatico di Gabriel e del suo perfettismo nel calarsi “anima e corpo” nelle storie che canta, “illustra” e dipinge, l’alter ego, l’affresco umano che potrebbe oscurare l’immortalità – intesa come veicolo fantasmagorico – delle loro epiche egocentriche, l’incomodo teatrante a smascherare con un’altra maschera “i trucchi” di un suono che non resta lì, ma lievita ad alte quote. E la guerra “tra bande” si aguzza fino a portare sulle scene una gara tipo: “ chi è il più maestoso (scenicamente) del reame ?”. Il disco è pura espressione espansa d’emozioni, forte di un songwriting colto e sognante, libero come l’aria e ricco di strutture timbriche e melodie che catalizzano subito l’attenzione della critica sul quintetto inglese; stupendi i passaggi di tastiere, calde e fredde di Banks che sposano i macramè di flauto di Gabriel Looking for someone, White mountains, di velluto l’eleganza e la finezza corale di Vision of angels, acuta e impreziosita dai rubini acustici di Rutherford l’efficace turbativa emozionale di Stagnation.

Forse in Dusk e The knife, il velo d’ombra e l’inaspettata scossa elettrica alla ELP che le spazza non sono proprio in linea con la geometria dell’intero disco, ma qui stiamo parlando dell’iniziazione di una band e certi “peccatucci” non sono mai un difetto, ma da vedere come nei di bellezza votata alla classe. E’ solo l’inizio della fantastica storia dei Genesis, ne seguiranno puntate che rimarranno stelle inchiodate tra i cieli di Canterbury; il progressive d’ora in avanti ha la sua eccellenza in più da badare e della quale fregiarsene fanaticamente.

 

Tracks list

Looking for someone
White mountain
Visions of angels
Stagnation
Dusk
The kinfe

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“Diamonds Vintage” Siouxsie and the banshees – Juju

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Le continue invenzioni in termini di look e di comportamento fanno degli anni 80 un turbinio d’elementi essenziali della mitologia punk; Siouxie and the Banshee ne sono l’esponenzialità acuta e oscura, un tetro e bel connubio tra E.A.Poe e oltraggioso potere, in cui la scena inglese alternativa si rotola avidamente.Dopo i necro-fasti del precedente Kaeidoscope (1980), e in seguito ad un forzato stop causa defezioni clamorose nella band originale, Susan Janet Dallion in arte Siouxie, John McGeoch alla chitarra, Steven Severin al basso e lo stravagantissimo Peter “Budgie” Clark – ex Big In Japan e Slits –  alla batteria, danno fuoco alle micce, sotto consiglio amichevole di Robert Smith dei Cure, al quarto album della loro lugubre e fortunata carriera, Juju, uno dei vertici assoluti dell’arte visionaria di Siouxie.

E’ il disco che – per la primissima volta – presenta alcuni squarci nelle atmosfere oppressive e plumbee degli esordi, mettendo definitivamente in luce una Siouxie padrona della sua calda voce ed evocativa; e allineandosi alla nuova corrente del punk più sottomesso alle nebulose darkeggianti – che già sta portando nuovi illustrazioni sonore come giovanissimi Cure, Sister of mercy e Bauhaus – la band inglese si distende in sonorità malinconiche e tristi, depressioni stupende dettate dagli Joy Division, dei quali SETB ne aspireranno linfa vitale per tutta la loro carriera.Dunque linee di basso compressate, chitarre drogate d’acido e anfetamina, i menzionati Joy Division che barcollano visionari in Sin in my heart, e percussioni ossessive che cingono strette Halloween, Monitor ed Head cut; l’ombra della poetessa noir Patti Smith volteggia nell’aria, dove anche un sensoriale groove orientale padroneggia nelle retrovie sonore dell’intera track list, ma principalmente nella traccia Arabian knights, anticipazione “mediorientale” di un fermento che guarderà oltre confine dalla metà degli anni 80 fino alla fine.

Magnifico disco che tocca le sperimentazioni innovative e prende ancora risorse dai terreni malsani del punk, un banco di prova che consolida il marchio Siouxie and the Banshee tra i favori di un pubblico vastissimo e amante del nero come colore primario delle destrutturate asocialità della vita.

 

Tracks

Spellbound
Into the light
Arabian Knights
Halloween
Monitor
Night shift
Sin in my heart
Head cut
Voodoo Dolly

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Impressioni di Sanremo

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La “terra dei cachi” ci ha da sempre abituato alla monotonia e alla monocromaticità. Si parla di musica è vero, ma di musica che non solo si ascolta dalle “monotone” casse della TV ma la si osserva pure dal suo tubo catodico, con quell’occhio critico da casalinga frustrata che ci portiamo nel DNA tutti noi italiani.
Il festival della canzone nostrana attrae non poco l’italiano medio che di musica “mediamente” non sa una mazza di niente. Eppure come davanti a una partita dei mondiali, diventiamo subito tutti critici esperti. E critica sia. Da quanti anni siamo costretti a sentire le solite opache invettive nelle prime pagine di tragici settimanali scandalistici, o in noiosi talk show che evidenziano le sbavature di mostri (più o meno) sacri della nostra canzone popolare?

Altro che rose sboccianti, il povero Festival sembra tutti gli anni chiudere i battenti in mezzo ad una triste composizione di crisantemi.
Che la musica italiana sia davvero morta? Puo’ darsi, se ci si limita a dar retta ai soliti melodici incravattati o ai residuati dei reality show. Ma il mondo è bello perché vario, siamo d’accordo? E così ricordo con piacere che Sanremo è stata teatro di grandi scoperte, anche negli ultimi anni, penso a Negramaro, Raphael Gualazzi, ma anche ad Elisa e non mi sono sforzato neanche troppo per tirare fuori tre grandi nomi.
Forse ad uccidere il Festival non è la canzone mielosa e stracciapalle, ma proprio l’ottusa visione di un audience che ancor prima di sentire l’ombra di melodia celebra il suo funerale.

Nulla di nuovo, e la storia si ripete anche quest’anno con le polemiche da bar intavolate dai fan dei Marlene Kuntz per la loro presenza a Sanremo.
Venduti e incoerenti. Fighette isteriche pronte ad incipriarsi per vendere qualche disco in più. Impuri. Proprio come lo furono Afterhours , Silvestri o Frankie Hi Nrg (anche qui niente sforzo a trovare tre nomi). Commerciali schifosi, come se vendere quattro dischi in più e farsi conoscere da qualche quindicenne arrapata sia uno scempio e una vergogna.
Credo che detto questo io inviterei tutti a leggere il comunicato stampa dei Marlene (presente in un altro articolo qui su Rockambula) e non sprecherei altre parole su quanto mi stupisca sempre dell’intramontabile moda di indossare paraocchi.

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Top 5 di Marco Lavagno

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Premetto che sono un grande fan di Nick Hornby, e di conseguenza proprio come Rob Flemmings (il protagonista del suo best seller “Alta Fedeltà”) un fanatico di classifiche.

Ma la classifica è soggettività. Il nostro cervello sforna sempre classifiche. Ditemi che non avete mai fatto una classifica sulle ragazze più gnocche del liceo, oppure sui giocatori di calcio più forti mentre appiccicavate le figurine Panini, oppure la top 5 dei Cavalieri dello Zodiaco, oppure sulle migliori boy band in circolazione (sono old school e ho sempre preferito i Take That se non addirittura i Jackson 5).

Bene io che ho fatto tutto questo posso anche permettermi il lusso e lo sfizio di stilare la classifica di quelli che per me sono i migliori album “stranieri” del 2011.

Qui non troverete chicche e neanche gruppi che in questi casi fa figo nominare (odio i Radiohead e mi irrita che ogni santo anno siano sempre nelle classifiche delle riviste più quotate), semplicemente troverete 5 dischi che un ascoltatore di musica pop (per altro principalmente mainstream) pensa di poter far girare ancora nel suo stereo negli anni a venire. Spero fortemente di essermi sbagliato e trovare in futuro qualche chicca targata 2011, che in questo anno frenetico mi è sfuggita dalla mani.

 

SOCIAL DISTORTION – HARD TIMES AND NURSERY RHYMES

 

Non si puo’ dire che Mike Ness sia un personaggio che abbia rivoluzionato il mondo del rock, non lo è mai stato e molto probabilmente lo sa benissimo. In più nessuno oserebbe dire che possiede la poetica dialettica di Bob Dylan ma neanche quella di Eddy Vedder. E nessuno avrebbe potuto mai immaginare che dopo 20 anni di carriera un macho tutto bicipiti e tatuaggi sfornasse uno dei miglior dischi punk rock sotto il marchio (ormai tutto suo) di Social Distortion.

Di distorsione ormai non c’è più molto, solo una sfumatura che orbita intorno a melodie (sia nella voce che negli assoli di chitarra) dalla disarmante semplicità.

Questo disco non ha pezzi memorabili, non ha idee innovative, non influenza generazioni (il caro Mike ha ormai 50 anni!) e il bello è che suona talmente onesto da non avere nessuna pretesa di essere tutto ciò.

 

Miglior brano: “Machine Gun Blues” – muscolosa e maschia. Ti viene da affittare una vecchia cabrio anni 50 solo per girare in centro città a fare il bullo.

 

KASABIAN – VELOCIRAPTOR!

 

L’album dell’anno era loro. Ce l’avevano in mano, si diceva fosse il loro capolavoro, super elaborato e sperimentale, il loro “Ok Computer”. Ebbene ho sperato che non fosse così fino alla data della sua pubblicazione.

Perché a me piacciono i Kasabian vecchio stile, quelli tamarri, quelli che ti fanno sentire ad un rave party quando attaccano con il riff di “Underdog”, quelli che mi sanno di Led Zeppelin con il loro appeal anni 70 e quelli arroganti e strafottenti come lo erano i fratelli Gallagher. Sinceramentene nei panni di sfiniti indie stanchi, solo perché fa figo esserlo, non me li vedevo proprio. E per fortuna dal primo ascolto del nuovo disco ho capito che i Kasabian non sono e non vogliono essere i nuovi Radiohead, per nulla.

La tendenza alle ritmiche rilassate si sente in alcuni episodi di “Velociraptor!” ma anche negli episodi più “stanchi” si sente il grido della band. L’energia sprigionata da un carnivoro assetato di rock‘n’roll, quello puro che se ne fotte di fare la hit del momento e il punto esclamativo del disco sottolinea questa presa di posizione.

Forse la stampa e la stessa band hanno pompato troppo un disco fin troppo perfettino, curato e arrangiato con maestria da Sergio Pizzorno e compagni. Un carnivoro violento e bastardo ma tenuto un poco al guinzaglio.

 

Miglior brano: “Goodbye Kiss” – mielosa e disperata, sradicata via da un crooner americano del dopo guerra e strapazzata nel frenetico sound puzzolente delle factories inglesi

 

ADELE – 21

 

Mi sapeva di fenomeno da baraccone questa giovanissima ragazzina cicciottella. Il solito prodotto sfornato da una major: voce spaziale come entrée, faccino simpatico come main course e canzonette usa e getta di contorno.

Ma quanto mi piace sbagliarmi in questi casi: quando il pop da classifica è di qualità, e questo disco è incredibilmente magnifico!

La voce oltre ad avere la tecnica richiesta ha personalità, potenza e grande espressione e per non parlare delle canzoni: forse poche volte nella storia della musica si sono mescolati così bene pop e la vera soul music, quella del periodo d’oro dell’Atlantic per intenderci. Ci sono il ruffianismo delle melodie da alta classifica e c’è l’aggressività che sposa la classe, attributi che appartinevano solo a certe pantere del passato come Aretha e Tina Turner.

L’ombra della povera Amy Whinehouse (soprattutto nell’anno della sua morte) è sempre in agguato, pronto ad aggredire, ma Adele lo dribbla alla grande e ha il carisma e l’intelligenza per piazzare tantissime altre hit negli anni.

 

Miglior brano: “Rumor Has It” – così soffice la sua voce e così indiavolato il drumming che prepotente la accompagna, la ragazza è più cattiva di quanto possa sembrare il suo paffuto faccino.

 

FOO FIGHTERS – WASTING LIGHTS

 

Grandissima rock band che non è mai riuscita a tirar fuori un disco degno del suo nome. Quest’anno hanno sfatato il mito!

Dave Grohl, caso unico nel music business (come si è riciclato lui nessuno mai), prende per mano una band sull’orlo della crisi e rispolvera muscoli tonici come il marmo di un rock durissimo, offensivo e altamente ispirato.

Meno “power-pop” e più chitarra, meno video per MTV e più urla forsennate. La formula è vincente!

La band suona alla perfezione, senza perdere quel suo storico equilibrio tra humor e violenza. Propone tre chitarre e una ritmica a dir poco cafona, tanto che pare aver registrato questo album davanti a 50.000 persone festanti.

Questo è un disco “all’antica”, sa di live e di sudore. Di quelli da sentire ad alto volume. E gli antichi dei del rock, imprigionati in fitte ragnatele ringraziano e si danno una bella spolverata.

 

Miglior brano: “I Should Have Known” – finalmente Grohl guarda indietro, in faccia ai fantasmi. Ospita Kris Novoselic che impone un basso distortissimo in questo grido al cielo, verso l’amico Kurt.

 

NOEL GALLAGHER’S HIGH FLYIN BIRDS

 

Il 2011 è stato anche l’anno del braccio di ferro tra Liam e Noel. Prima Liam coi Beady Eye e tante maligne parole, poi Noel con questo disco solista nascosto da criptici uccelli che ambiscono ad alte quote. E le quote Noel, a differenza dell’arruffato e sconclusionato collage proposto fratello, le alte quote le raggiunge in pieno.

Con calma e meditando, in sella a un airone che aleggia leggero e rilassato: pochi colpi di ali ben assestati e si arriva in vetta.

Prende pezzi vecchi, scarti degli Oasis e qualche nuova canzonetta. Frulla tutto insieme ai migliori dischi di Beatles, Stone Roses e Primal Scream e il beverone suona fresco e piacione.

Lo sappiamo: Noel non è un genio, ma è ancora sua la cattedra del corso “come scrivere la canzone pop perfetta” e dimostra di avere ancora molto da insegnare. Anche a suo fratello.

 

Miglior brano: “AKA…What A Life” – ritmiche insistenti su cui la voce di Noel si scaglia, come onde morbide su duri scogli.

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(2011) Cosa c’è piaciuto?

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Un 2011 in (indie)musica arrivato alla fine non senza difficoltà, con un freddissimo tremolio nelle orecchie, non mi rimane che sparare qualche stolta sentenza senza credenziali.
Ebbene questa insignificante classifica personale non segue un ordine di classificazione ma l’ordine che la memoria vuole portare.

“Nati per Subire” degli Zen Circus rappresenta un disco che di prepotenza entra nella classifica come fece nella home di Rockambula, non potrei immaginare una scaletta senza una delle migliori band italiane.

“La futura classe dirigente” dei Carpacho! diventa senza troppi inutili giri di parole il miglior album pop dell’anno, ce ne fossero di pop band così! Il mondo sarebbe sicuramente un posto migliore.

“Poveri Cristi. Vol.2” della Brunori SAS invece spezza le ali a chi credeva nella fine del cantautorato dolce ma di protesta, per chi in qualche modo ha ancora voglia di sognare.

“Cattivi Guagliuni” dei 99 Posse segna il ritorno di una storica band rap hip hop, un disco rimasto congelato per dieci lunghi anni ma comunque attualissimo. Cattivo.

“Innocent Awareness” dei Christine Plays Viola, la migliore band new wave italiana senza ombra di dubbio, la costola noir dell’indipendente italiano.

“Il sorprendente album d’esordio dei Cani” degli elettro pop low fi i Cani, un disco impazzito di ritmica e testi, una grande sorpresa da tirare tutta d’un fiato.

“The Watermelon Dream” del barbuto menestrello Bob Corn, soltanto lui e la sua chitarra, un viaggio infinito, una passione innata.

“Lacrima/Pantera” dei tostissimi The Death of Anna Karina, la prima volta in italiano non delude le aspettative, potenza da vendere.

Poi tantissime sono state le altre cose belle, non basterebbero centinaia di articoli per menzionarle tutte, realtà che nonostante tutto e tutti si sbattono per portare la musica italiana ad alti livelli.
Tante anche le delusioni, ma questa è un’altra storia.
Un occasione per sperare in un 2012 ad alti livelli di produttività calendario Maya permettendo.

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Fantasmi Rock

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ANNO 2011: FANTASMI NEGLI ARMADI DEL ROCK?  PIUTTOSTO VECCHI MERLETTI!

DELLA SERIE: Quando è dura ammettere che oramai sei solo un vecchio idolo sbiadito. Lettera a tutti loro.

2011 ANNO HORRIBILUS. Chissà che cosa cercheranno gli elefanti del rock quando andranno a morire nei loro cimiteri? Chissà, oltre che ha diventarne istantaneamente un culto, forse si camufferanno da alieni con il vizio di essere nuovamente umani sopra la media o magari più in la travestirsi da atrofici remagining rimontati in occasione di un videogioco o un fumetto manga per frustrati ultra-teenagers tinti nero corvino.

E di tutta quella zuppiera colma di suoni, passera e crisi d’astinenze di filiera che cosa ne resterà o meglio rimarrà a sgomitare tra un via vai di neuroni con la gotta e cellule con le stampelle griffate da Cavalli? Anche questo non è dato sapere e quantomeno immaginare, visto l’andazzo in passerella che tanti Signori Gerovital ancora tentano di arrancare, brandendo chitarre d’annata e tutine in latex che al cospetto Mr. Bolan poteva assurgere a divinità ancestrale, un Pan dell’entravesti morigerato senza l’assillo della buoncostume tiranna.

Non se ne può francamente più di assistere a rimpatriate, tributi, omaggi e tutto il carosello collettivo che rimette le tende in piedi pur di decantare che la “loro ora” non è pervenuta per un errore del parallelismo strabico di un meridiano Greenwich alticcio e nient’altro; il senso dell’idiozia targata Barnum non conosce fasi, tutto si appunta in una generale mischia borotalcata che vuole riprendere in mano lo scettro e il desco del fu e che va a contare pure su di una cassa di risonanza – magnetica farebbe all’uopo – megafonata che, magari con strategie da Ben Hur riprogrammate, distruggono, oscurano e ridicolizzano, l’enorme cristalleria dei gironi pentecostali di neofiti  musicisti intermedi.

Signor Osborne, Mister Iggy, Lady Roxette e Baba Elton e Villa Arzilla in colonna, stop con il vostro Buddha Bar all’inebriante fragranza di naftalina, dopo che avete avuto l’immensa fortuna di lavorare e farvi le ganasse come ippopotami del Serengeti non credete di fiutare – non sniffare mi raccomando – un tiraggio di un’altra aria che vi disintossichi dal protagonismo alla Highlander e finalmente inforcare stivaletti di gomma e andare a pescare gamberetti come il tenero Gump?

Lo so che siete venuti in pace e che avete bisogno di condividere le vostre esperienze analogiche (illogiche?) per vedere “ finalmente l’effetto che fa” proiettati nell’avanzamento della tecnologia dell’odierno, ma anche a teatro una replica va bene, la seconda si traccheggia, ma la terza è uno spillone nelle architetture riproduttive, e dovreste saperlo bene voi che in fatto di riproduttività quelle zone sono di gran lunga più delicate di una Morositas. Cari elefanti, ma almeno l’avorio delle vostre dentiere è quello originale o maestria Made in China?

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Top 2011 di Silvio Don Pizzica

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Annata di grandi conferme, qualche volto nuovo e ritorni inaspettati. La band californiana Girls al secondo album si gioca tutto quello che può. All-In vincente, in un mix di Indie Pop, Indie Rock, Jangle Pop, Noise Pop, con lo stile di un Costello delirante. La loro vittoria è l’ingresso nella storia della musica. Ottimi anche gli esordi di S.C.U.M. e Chapel Club, entrambi londinesi ed entrambi alla ricerca del Dream Pop perfetto, in viaggio da strade diverse. Partono dal Post-Punk i primi, dallo Shoegaze i secondi. Dove arriveranno, lo ascolteremo tra qualche anno. 

Non possiamo non citare anche Wild Beasts, una macchina da grandi album e Mirrors, band che sembra la reincarnazione in chiave Pop dei Kraftwerk. Altri esordi eccezionali, James Blake tra i fenomeni più chiacchierati di quest’anno (con Anna Calvi) e gli islandesi Dead Skeletons che con il loro mantra psichedelico e potente sono di certo la perla nera del 2011. Tra i grandi del passato, buonissimo rientro dei Low, Tom Waits e John Foxx mentre sembrano ormai aver gettato la spugna Coldplay, sempre più irritanti, Bugo, Cristina Donà e Current 93.

  • GIRLS – Father, Son, Holy Ghost
  • S.C.U.M. – Again into Eyes
  • CHAPEL CLUB – Palace
  • WILD BEASTS – Smother
  • DEAD SKELETONS – Dead Magick
  • MIRRORS – Lights and Offerings
  • JAMES BLAKE – James Blake
  • TIM HECKER – Ravedeath, 1972
  • WEEN- Caesar Demos
  • COLIN STETSON – New History Warfare Vol. 2: Judges
  • DESTRUCTION UNIT – Sonoran
  • BRAD MEHLDAU – Live in Marciac
  • INADE – Antimimon Pneumatos
  • PRIMORDIAL – Redemption at the Puritan’ s Hand
  • THE FIELD – Looping State of Mind
  • BON IVER – Bon Iver, Bon Iver
  • ALVA NOTO – Univrs
  • ST . VINCENT – Strange Mercy
  • DENIZ KURTEL – Music Watching Over Me
  • PEAKING LIGHTS – 936   3.58
  • Migliore raccolta:
    Disco Inferno – The Five Eps
  • Migliore esordio:
    S.C.U.M. – Again Into Eyes
  • Miglior album sperimentale, ambient, avantgarde e stranezze varie:
    Tim Hecker – Ravedeath, 1972
  • Migliore album live:
    Brad Mehldau – Live in Marciac
  • Migliore album Metal:
    Primordial – Redemption at the Puritan’s Hand
  • Migliore album di elettronica (Dubstep, House, Techno, Electronic, ecc…):
    The Field – Looping State of Mind
  • Migliore raccolta di elettronica (Dubstep, House, Techno, Electronic, ecc…):
    Demdike Stare – Tryptych
  • Migliore artista maschile:
    James Blake
  • Miglior artista femminile:
    Anna Järvinen
  • Miglior album italiano:
    Verdena – WOW
  • Delusione dell’ anno:
    Ladytron – Gravity the Seducer

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Buen Retiro

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Nati nel 1999, i buenRetiro sono una band pescarese attualmente composta da Mauro Spada (voce, basso), Francesco Politi (chitarra), Carmine Blasioli (batteria) e Loreto Di Giovanni (chitarra).
Due lavori autoprodotti, ruggine perfetta (2001) e demode’ (2004) hanno preceduto l’esordio discografico avvenuto nel 2007 con l’album Escargot (DeAmbula Records).

Nel Novembre 2011 uscirà In Penombra, l’ultimo lavoro dei buenRetiro, mixato da Amaury Cambuzat, edito per l’indipendente DeAmbula Records (Pineda, Ulan Bator, Pitch, Amaury Cambuzat, the Marigold, Magpie).

Il disco, cantato in italiano, descrive ed attraversa gli attimi della penombra, esprimendoli con suoni dalle mille sfumature: cupi, oscuri ma anche lunari, tribali, poetici e viscerali. Equilibrio ed armonia accompagnano questo viaggio che dalla luce, attraverso la penombra, vedrà l’incontro con il buio.

(Info tratte da http://www.deambularecords.com)

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99 Posse

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Il 10 maggio 1991 nasce il centro sociale occupato autogestito Officina 99. Il 9 ottobre dello stesso anno nasce la 99 Posse, come diretta espressione del C.S.O.A. e delle nuove culture urbane che trovano nella musica un veicolo potente.

Il primo storico singolo della 99, “Rafaniello” e “Salario Garantito”, dà la stura a quell’ onda rap e raggamuffin che segnerà una svolta epocale nella musica popolare italiana.
Nell’anno successivo il singolo “Sott’attacco dell’idiozia” vede la prima forma di collaborazione stretta e dinamica fra tre gruppi napoletani: 99 Posse, Bisca, Almamegretta. E’ qui che si gettano le basi per il supergruppo Bisca99Posse che in due anni girerà l’Italia con più di 200 date e con picchi di 15000 persone (il mattatoio 1994).

Il primo album della 99 Posse, “Curre Curre Guagliò” esce nel ’93 e grazie alla sua capacità di comunicare l’esistente in maniera diretta ed immediata, rientra fra quei prodotti culturali che hanno contribuito a interrompere il rapporto di VERGOGNA verso la propria storia e verso la propria lingua che per più di un decennio aveva impedito un solido abbraccio fra arte e realtà sociale. Per questo, in breve diventa il manifesto di una intera generazione. Tra le altre cose, é uno degli stimoli forti che spingono Gabriele Salvatores (da poco insignito d’un premio Oscar) a girare “Sud” , film legato all’area dei centri sociali, di cui il brano della 99 sarà la naturale colonna sonora portante.

Nel 1994 oltre al doppio cd live “Incredibile opposizione tour 94”, senza dubbio il doppio live più potente registrato in Italia negli anni ’90, la 99 Posse getta i semi di quello che oggi é un ulteriore impegno del gruppo: l’etichetta discografica Novenove, che lavora per dare voce a quegli artisti che, dati i temi e le aree di appartenenza, non troverebbero spazio nell’ingessata industria musicale italiana; e realizza la compilation “Cantanapoli antifascista” che riunisce dieci gruppi tra i più interessanti di Napoli.
L’uscita di “Guai a chi ci tocca”, album datato ’95, é, l’ultimo atto di Bisca e 99 Posse, che ritenuta esaurita l’esperienza comune tornano ciascuno sulle proprie strade.

E’ in questa ritrovata dimensione autonoma che nasce “Cerco tiempo” album che totalizzerà oltre 80.000 copie (disco d’oro). Tra il ’95 e il ’98 l’etichetta Novenove dà alle stampe i lavori di RadioGladio, Speaker Cenzou, Balaperdida oltre che ovviamente della 99 Posse.

Il 1998 é in tutti i sensi l’anno del “Corto circuito”. Da una dimensione già notevole (80.000 copie sono davvero parecchie per il mercato underground italiano) il gruppo fa un salto e finisce per vendere oltre 160.000 copie dell’album. Band dinamica per definizione (la Posse é un gruppo di persone che lavorano ognuna nel suo campo al medesimo progetto), sembra essersi stabilizzata nella formazione di cinque elementi ed il passaggio ad una visibilità forte (in quell’anno la 99 Posse è presente con cadenza quotidiana su tutti i media possibili) non muta affatto né il loro rapporto con il pubblico, né il loro rapporto con il politico né la loro spinta alla sperimentazione sonora; l’album in uscita “La vida que vendrà” ne è la prova più tangibile. Tutti gli album, i mix, tutti i prodotti citati insomma, sono usciti fin dall’esordio a prezzo politico o prezzo imposto. “Non pagare più di…” significa per la 99 portare a terra la propria visione di rapporto con il mercato, in una sorta di praticizzazione dell’idea. Ciò è stato possibile grazie ad una decisa rinuncia da parte degli artisti, rinuncia solo economica a fronte di una grandissima soddisfazione sia da un punto di vista politico che squisitamente umano.

Nel 2000 esce il loro ultimo album completamente inedito, La vida que vendrà: infatti, l’ultimo album pubblicato dei 99 Posse al completo, nel 2001, anno in cui i 99 Posse si sono sciolti di fatto NA9910°, in onore dei 10 anni del gruppo, contiene solo due tracce inedite, “Amerika” e “Stop that train”. Anche questo album si aggiudica la Targa Tenco.

Nel 2003, i 99 Posse prendono strade diverse: ‘O Zulù pubblica un disco con il suo nuovo gruppo, gli Al Mukawama (dall’arabo, “La Resistenza”) (disco omonimo), formato da Neil Perch degli Zion Train e Papa J, oltre a Persico, che è stato la colonna sonora del film di Antonio Bocola e Paolo Vari Fame chimica, incentrato sulle vicende di un gruppo di ragazzi di periferia, alle prese con intolleranza e disoccupazione. JRM è impegnato con Jovine, progetto musicale intrapreso insieme al fratello Valerio. A novembre del 2005 esce “Ora” (Manifesto/Novenove) e in poco più di 2 mesi vende circa 3000 copie. Marco Messina lavora al progetto “Resina” insieme al gruppo “Retina.it” e inoltre ha al suo attivo un album con Meg, con il nome di “La Tempesta”, prodotto dai due sotto il nome di Nous, oltre a continuare a collaborare con lei di tanto in tanto.

Reunion

Il 18 luglio 2009 i 99 Posse sono tornati ad esibirsi insieme a Piazza del Gesù a Napoli, in un concerto organizzato dai movimenti napoletani contro la repressione e contro l’arresto di 21 attivisti per i fatti del G8 dell’Università di Torino: i 99 Posse dunque sono ritornati in attività dopo 7 anni.
Il 12 settembre 2009 i 99 Posse hanno ufficializzato la loro riunione con un concerto nella storica piazza Mercato a Napoli. A questo evento seguono 85 concerti in giro per la penisola con puntate a Londra ed in Spagna.

Il 7 giugno 2010 i 99 Posse hanno pubblicato il singolo Antifa, rendendolo liberamente scaricabile dal sito di XL Repubblica. Si tratta del primo singolo inedito dopo la loro reunion.

Il 25 ottobre 2011 esce il nuovo album dal titolo “Cattivi Guagliuni” prodotto dalla propria etichetta discografica Novenove e distribuito da Artist First, il videoclip che anticipa l’album è stato girato al Lido di Venezia durante il 68° Festival del Cinema con la regia di Abel Ferrara.

Fin qui una semplice cronologica biografia. Ci tocca però ricordare e testimoniare come la libertà d’espressione e d’azione in Italia abbiano ancora un prezzo altissimo e per realizzare tutto ciò in totale autonomia e libertà, il gruppo ha collezionato reati (alcuni hanno visto la vittoria del gruppo, per altri si deve ancora raggiungere un verdetto) come: oltraggio, resistenza, violenza e lesioni aggravate a pubblico ufficiale, vilipendio delle forze dell’ordine, istigazione a delinquere, occupazione abusiva, manifestazione non autorizzata, blocco stradale, furto aggravato, danneggiamenti, imbrattamenti, concerti abusivi, detenzione e spaccio, rissa, associazione a delinquere.

La Posse è un organismo dinamico di “mani in opera” e questi sono i prezzi altissimi che una Posse paga quando vuole esprimersi senza censure. Infatti, checchè né dicano i governi (di qualsiasi colore visto che il colore del dollaro è sempre lo stesso) il vero problema non è il costo della mano d’opera, ma il prezzo altissimo che è imposto alle “mani in opera” dalle “anime raggelate” dei decisori, leggi, governanti, padronato e tutte le varie nomenklature del MERCATO.

(Bio tratta dal sito ufficiale della band http://www.novenove.it)

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