Max Sannella Author

Marta Sui Tubi – Cinque, La Luna e Le Spine

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Hanno diviso in due come una mela il vasto parterre del loro “fanzinato”, tirati tra la partecipazione a Sanremo e gli ancoraggi nella zona franca dell’underground di stampo indie, due mondi opposti ma che nello stesso tempo sono parte integrante di percorsi o “viottoli” di piacere velocizzato oppure gavette truculente; i siciliani Marta sui Tubi escono con Cinque, La Luna e Le Spine, il nuovo album uscito proprio sotto le serate sanremesi e dove la ribellione degli ortodossi della band si è consumata tra accuse di tradimenti e di “vendite alla facilità mainstream”, un disco – il quinto – che, tra modernità e ponteggi che toccano  quasi il progressive, va a scomodare Caino spedito per espiare le sue colpe sanguinarie in un satellite lontanissimo, perso chissà dove.

Undici tracce scoppiettanti, versatilissime in un compendio espressivo che bacia ad intermittenza funk, pop, prog, liriche blues, Peter Gabriel “Vagabond Home, capricci, tutto complessato in un repertorio sparato, senza tentennamenti e con uno stile subito riconoscibile, svincolato dai soliti modelli, musicalmente originale quanto intensamente consapevole; i MST con dieci anni di carriera alle spalle hanno saputo levigarsi dalla ruvidità fino ad inventare un “lucido” meraviglioso, una completezza d’insieme – prima un duo poi il quintetto dei nostri giorni –  che ora li fa protagonisti e questo nuovo lavoro “unlimited”, senza confini di suoni, ne è quasi la condensazione contagiosa del loro essere musicisti in questa era.

Mai atmosfere esagerate, forse il funk tarantolato che scuote “Il Collezionista Di Vizi” e “Tre”, ma la spennata spalancata e folkly “Dispari”, quei sentori melodici Vendittiani “La Ladra”, “I Nostri Segreti”, il passo poetico di archi e atmosfere d’arcadie “Grandine” e le dissonanze etno-acustiche che tremolano in “Polvere Sui Maiali” restano a bilanciare l’intera struttura, tanto che un’altra sensazione d’ascolto si fa avanti tra le pieghe di una graffiata melodia di marca, praticamente l’effetto a catena di un piccola opera d’arte “fuori regola”.

Con un piede sul gradino alto del main stage e l’altro pure, i Marta sui Tubi seguitano a stupire, lo possono fare, è il bello della loro essenza.

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Appino – Il Testamento

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Andrea  Appino, la “faccia” degli Zen Circus, da alle stampe questo Il Testimone, un progetto in solitaria che non significa per niente l’addio alla band sopracitata, solamente una valvola di sfogo personale, per mettere in musica i suoi tasti sensibili nonché i bruciori poetici della finezza, tracce (quattordici) che lavorano stili diversi e destini differenti, un bella mixture di rock, forza e amore, magari ricco di troppe parole, ma che non rubano lo spazio alla musica, piuttosto un’audace convivenza ed un primo approdo all’ipotesi di un “destabilizzante” disco perfetto. L’artista pisano, qui col violino di Rodrigo D’Erasmo, Franz Valente alla batteria, Giulio “Ragno” Favero al basso e Enzo Moretto alle chitarre, non lascia niente di intentato, scrive, corrobora e fabbrica un piccolo manifesto underground pregevole, argomenta – tra gli interstizi della tracklist – umori e rumori di pensiero, come lo stupendo omaggio alla memoria di Mario Monicelli inciso nella titletrack, traccia che già di per sé alza il quoziente “intellettivo” dell’intero registrato: la sua è un’arte dove realismo e vissuto artistico si fondono all’unisono, un corpo ed un’anima al servizio di una credibilità che viene spontanea e che elude vie o transiti “faciloni” pur di arrivare, una scrittura che addenta un filo logico e ne tesse poi una sequenza da raccontare ad alta o viva voce. Senza mezzi termini, l’album è una radiosa premessa, potrebbe diventare grandissimo come pure il suo autore ed è giusto che sia così, non è di tutti i giorni ascoltare un esponente di una famosa formazione rock che riesce a divincolarsi dal precostituito ed intraprendere – di testa sua – un percorso non riempiticcio, vizioso o da primadonna, è raro, e quando capitano c’è da tenerseli stretti stretti.

Un serafico Giovanni Lindo Ferretti che balugina in “Passaporto”, il delirio di “Specchio Dell’Anima”, la ballata folk di stampo Bubola “La Festa della Liberazione”, una parvenza di dolcezza amara “Godi (Adesso Che Puoi)” e la giugulare paonazza che fibrilla nell’hard-core addomesticato di  “Solo Gli Stronzi Muoiono”, e poi ancora amore, rabbia, depressione, gioia e sogni, e poi ancora un Appino che brilla e commuove in una splendida “opera prima”, in una tenera “prima volta”.

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Corrado Meraviglia – L’Occasione

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Nel suo piccolo potrebbe essere un maestro di seduzione, magari anche odiarlo o amarlo come un protetto dei chiaroscuro della vita, fatto sta che il cantautore ligure Corrado Meraviglia – con la carica dei suoi buoni sentimenti agri e di una quasi aliena soavità – arriva o meglio ritorna a ritagliarsi quella icona di appartenenza alla nuova trafila di cantautori che hanno le indubbie capacità di “incredibilizzare” limpidezze crude, e lui lo fa, anche con i convincimenti delle combinazioni buone.

L’Occasione è il secondo lavoro discografico, registrato tra Londra e Roma, finanziato a metà su Musicraiser ed uscito per La Fame Dischi, ed è un’espressione stilistica di pregio, sconnessa come una strada di campagna ed un rumore chiuso nell’intimità, undici tracce non esistenzialiste ma che guardano all’esistenza, alle proprie orme calpestate e alla quotidianità a volte piatta altre spigolosa, un disco avvolgente e persino organico nelle sue incursioni strane quanto vere; tra pop.e rock adeguato, con il piglio di un Rino Gaetano roco e naftaline Zampaglionesche “Scatole, l’artista Meraviglia torna a graffiare delicatamente ottime pagine di musica, senza sviare nulla che non si possa recepire, brani e arrangiamenti per un talento grezzo che preannuncia una lungimiranza tra il nuovo che avanza (musicalmente parlando), nonché per il momento dove possiamo anche aggiungere un rincuorante brillantino underground

Con la sua personalità rabbugliata e agro-dolce, il disco prende la forma di un disco diverso dagli altri, come una colonna sonora per tramonti estivi occupati a tirare somme e linee vitali su amori passati, trascurati, vissuti e sopportati, una lavorazione d’intimità solitaria che è quasi spleen casareccio, anche sfigato e se tendiamo l’orecchio sul gocciolìo a cadenza di una tastiera depressa  “Sam (Unmade in Hk)”, sulla spennata shoegazer di un animo all’ingù “Le Mie Manie”, nella ripresa con  boccate d’aria istintive, chiarificatrici e field  “Possibilità” o dietro il caracollare grattato e con l’anima confessionale della stupenda “ Folkpop”, il fascino color carta-paglia di tutto l’insieme colpisce lasciando segni e pensieri fitti come la cupezza immaginifica del basso che spacca in due il cuore in “Trasparente”.

Corrado Meraviglia, ancora una volta all’altezza della gran classe.
http://youtu.be/cow_ONZk2Lo

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Gerson – Generazione In Difficoltà

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Il punk non è morto, a ricordarcelo sono i milanesi e colonna di porfido del punk italiano Gerson che con Generazione in Difficoltà tornano a schiaffeggiare la scena animata e fibrillante OI, una soluzione alcalina di tredici tracce che mordono, spruzzano e sbavano come un deus comanda e che vanno a condire la vita comune spiattellata sul niente con bramosie elettriche rude-street e satira pungente a go-go.

E tornano con questo vivace sesto album di carriera, una carriera che non ha mai accennato a barcollare o tanto meno pignorata dall’intorpidimento che prende sulla lunga distanza a tante formazioni di genere, un suono – il loro – che è già da tempo tratto distintivo della fustigazione verso una società bietta e sorda, elettricità e ritmi convulsi al servizio della “vendetta” urbana che dal basso urla e sputa all’inverosimile e allo spasimo di giustizia; i Gerson sono ancor di più sporchi, laidi di bellezza e sudici di onestà, quattro canaglie che all’unisono sovrappongono lotta e ampere in un circuito infuocato e gioioso, capibanda tra le band di settore che s’incazzano e parlano d’amore a modo loro, tutti brividi che pervadono ogni singola nota o parola, e ciò non è che “benessere” da barricata che oggi come oggi cade come cacio sui maccheroni, e – nel frattempo che il disco devasti le certezze di uno stereo uniformato –  non resta altro che saltare e inneggiare alla libertà, alla loro libertà che viene stigmatizzata tra pedaliere e inni alla vita

Pogo e voglia d’esistere sono le conseguenze accorate di questo fulmine a ciel sereno dalle fattezze di disco, velocità inaudite “Via da Milano”, “Pessimo Oroscopo”, il pogo’n’roll che sgambetta diabolico in “Masticati e Risputati”, “La strada di Fango”o il ritmo della baldoria a bordello alcolico “Alla Nostra Velocità”; sono solo alcuni dei tanti brani che possono assalire come colpi apoplettici chi si avvicina inconsapevolmente a gironzellare intorno a questa generazione in difficoltà. E pensare che qualcuno lassù, dalle vette delle falsità politiche aveva detto che la vera ragione dell’instabilità generazionale era il “choosy” che oramai viene adottato per non fare nulla.

Fate una cosa Kill Fornero e al Parlamento la forza straripante dei Gerson e con 50 stelle in movimento a simulare i giramenti di cojoni di questi eroi dal basso!!

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Devendra Banhart – Mala

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La prestigiosa Nonesuch, nella quale stazionano Byrne e Veloso, con questo nuovo Mala, annovera d’ora in poi nel rooster il cantautore americano Devendra Benhart, che balza sulle scene dopo quattro anni di assenza dovuti a fermenti d’amore sulla rotta Serba con una stupenda ragazza di nome Ana Kras, e a riportarlo in vita artistica è stata la smania di avvicinarsi cautamente ad un nuovo mondo sonoro – per lo più allineabile alle produzioni passate cosparse di neo-folk psichedelico – ma con barlumi accennati di elettronica che qua e la picchettano la tracklist e contribuiscono ad allentare minimalmente  le tensioni freak in cui l’artista si avviluppava copiosamente.L’amore – si sa  – allenta e circuisce qualsiasi cosa, e Banhart non è da meno, mette in fila quattordici tracce e va ad accentuare un album a suo modo sognante, vagamente riflessivo, ma con una strana baldanzosità di fondo – molto di fondo – sulle reazioni e contemplazioni  del rapporto di coppia, della condivisione di una o qualsiasi cosa; rimane comunque uno stropicciato raccounteur che da quando lo si conosce come picaro del suo folk pre-war, cerca di maturare a gradi e sinceramente con questo ultimo lavoro questa crescita “intellettuale” gli si può riconoscere, valutandola buona e indagante, forse una ennesima sua reincarnazione, ma sta di fatto che il menestrello alcaloide da il meglio di sé e lo si sente sin dall’attacco della tracklist.

Quattordici tracce dai colori celestini, piccole danze intime dai vari riflessi ed echi, tracce che si ascoltano come sottofondi di ore tralasciate o dedicate alla percezione diciamo solitaria; registrato a Los Angeles con il sodale Noah Georgeson, il registrato  – della vecchia proposta dell’artista – conserva i scandagli beatnik, specie negli strumenti a caso che agiscono sulla modularità sonica e con una strepitosa benedizione Beckiana che si riscontra nelle cavalcate di “Never Seen  Such Good Things”, “Hatchet Wound”, “Taurobolium”, mentre le bordate mentali ed intime arrivano con la deriva sausalita “Mi Negrita”, “A Gain” , dentro il liquido amniotico di “Mala” o nella misticheggiante onda flessuosa che in “Fur Hildegard Von Bingen”.Decisamente il cantore delle lune di traverso, l’anatroccolo delle stravaganze hippie si sta trasformando in un cigno dalle ottime fattezze a conferma che l’amore spiana ed appiana ogni cosa ed in questo disco il Signor Banhart fa davvero il Signore come si deve.

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Polar For The Masses – Italico

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Con “Italico” i Polar For The Masses fanno quattro, quattro dischi in otto anni che lacerano e segnano a fondo l’endemico tremore dell’underground nostrano, una necessità – la loro – di stare ai margini del rumore per dare vita ogniqualvolta ad un contrasto epidermico e da brivido sottocutaneo che si fa riconoscere subito, immediatamente, all’istante.

Dieci traccianti sonici che sono un trionfo di sonorità onnicolore, un cromatismo plumbeo che si bagna di liquidi elettro, fendenti chitarristici, trillii di esplosioni di basso, urgenze sociali e tonnellate di sudori di vita vissuta, sogni evocati e deliri tormentati; un disco come sempre notevole, carico di pesi e attitudini clamorose, mai fuori tempo e doppiamente interessanti che favoriscono quei piacevoli e solitari momenti di ribellione interna. Marlene Kuntz, Fluxus ed effervescenze alla Bluvertigo d’antan fanno da consapevoli istintività con i quali la formazione – nella sua scrittura estrosa e di attacco – si dota per creare paesaggi e paradigmi eccezionali, una presa diretta di elettricità, shuffle no borders “Laogai”, “Un Uomo, un Voto”, “Ruvido” che si attacca alla pelle come plastica fusa.

Minuti di fuoco e d’azione quelli che questa tracklist sforna a ripetizione, avvolgenti tappeti si suono che portano ad una nuova lettura – oltre che il cantato in italiano – in cui il trio vicentino sfonda, ovvero la maturità agognata per una band che matura già lo era alla partenza e qui confermata alla grande; aggressivamente sensuale in talune parti, il disco dei P4TM è un tripudio di componenti altisonanti, i grandi numeri di un basso incazzato “Terrorismo e Deejay”, la frenesia accalorata di “Wall Street” e l’opulenza marziale e pesante che detta legge in “Mia Patria” non sono altro che i primi effetti di una devastazione interiore e “affacciata” sulle vie sottostanti della vita di tutti i giorni.

Disco “nobile”, drasticamente calato nel nostro tempo e perciò imperdibile. Bentornati P4TM!!

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Black Rebel Motorcycles Club – Specter At The Feast

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C’è  qualcosa che torna da lontano, ineffabile nelle pastorali psicotrope dei sempiterni Black Rebel Motorcycles Club, sì una nebbia vaticinante ora scarna ora ingrassata a pedaliere, e Specter At The Feast riafferma il magnetismo conquistadores che la band americana spalma nella sua – propedeutica sognante? – energia al rallenty che ogniqualvolta si (ri)presenta travolge sensi e teste in un trip da acchiappare al volo.

Disco maledetto dalle malelingue che vuole Peter Heyes e Robert Been al filo di lana di una creatività posticcia e riempiticcia, nulla di più falso, certo qualcosa si è smagnetizzato dagli esordi, ma il clangore calmo e la destrezza emozionale è ancora intatta, sottovoce e dreaming come poche, rimangono – loro –  un marchingegno sonoro intimo e sofisticato che è tratto distintivo di una maturazione che pare non avere fine, sempre pronta a rimettersi in gioco e ad assimilare la giusta via di mezzo tra rock e una certa metafisica ondifraga che sebbene figlia adottiva di certi Jesus And Mary Chain o Primal Scream, lascia intendere una spiccata personalità customerizzata a dovere, senza ma senza se; dodici stati per una scaletta che carbura a dovere, un binomio – quello di Heyes/Been – che rimane in sella ad un bagliore “stradaiolo” esteticamente stiloso.

Polveroso e nebulizzato, l’album è una apparizione sonora dietro a territori volatili, distorsioni accennantemente seventies e quella decadenza drogata di certe visioni Altmaniane a fare da bastione a languidezze da desert-road “Fire Walker”, “Lullaby”, spettacolarità e derive alla metedrina pura “Some Kind of Ghost”, “Lose Yourself”, sgasate  garage “Rival” ed una rivisitazione velocizzata di “Let The Day Begin” dei Call since 1989, un pathos che riempie l’animo e che dimentica certe similitudini forzate, specie quando il multistrato sonico di “Funny Games” rimbomba tra echi di estati d’amore e paure messianiche.

Abbreviando il moniker della band in BRMC, no si “smoscia” la tempra né la voracità d’azione, è solo un vezzeggiativo per sentirli ancora più vicini e ancor più “nostri” come riserva per momenti di vuoto in cui si vuole stare a tu per tu con l’armonia dell’elettricità.

Per cuori teneri e ardimentosi!

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Ben Harper – Get Up!

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Dopo album da brividi, album senza piega e concretezza, il mito di Ben Harper torna a splendere nell’assoluto, torna a confabulare mistiche indiavolate e anime vendute ai tanti Balzebù che infestano da secoli (forse da sempre) le acque e le lagune del Mississippi, e lo fa con un compagno sensazionale, il sessantacinquenne armonicista Charlie Musselwhite, dio del blues bianco e dell’armonica sbavata al massimo, tanto che “Get Up!”  – questo lo strepitoso album- già scala tutte le charts possibili dentro e fuori quell’America dei folli compromessi.

Dieci tracce immacolate di traditional, blues, rock-blues e soul degli avi che si perpetuano in un giro formidabile di lussuria sonora e oasi di spettacolarità, un Harper al meglio di sé ed un Musselwhite che non si risparmia a coronare ed impreziosire ogni singola nota, bridge o quant’altro, una tracklist di gran culto, un attimo professionale che – onestamente – da un Ben Harper non si sentiva da tempo, e quanto è dato sentire lo spirito si è “rialzato a testa alta” e con lui tutto il pandemonio divino della grande musica del Delta e dintorni; la mitica Weissenborn che l’artista americano strapazza a suo piacimento, strugge, gioisce, copula ed eiacula suoni, stridori, melodie e tutto quanto possa far incantare qualsiasi ascolto, un disco fortissimo che ti strappa i capelli e ti imbarca nei suoi infiniti viatici come e quando vuole.

Licenziato per l’ancor più mitica Stax, l’album è senza dubbio il migliore della discografia Harperiana, il più vivo e crudo tra le emozioni che ci ha da sempre regalato, e questa bell’accoppiata artistica premia il sound del Southern Spirit al meglio che si possa premiare; disco a due livelli, la parte dei cardiopalma sonori “Blood Side Out”o “Don’t Believe a Word You Say”, e quella passionale da genuflessione  – tra le tante – “You Found Another Lover”, “Don’t Look Twice” o “All That Matters Now”, parti che una volta unite e strette al massimo della loro ricerca d’anima esplodono per regalarvi un delle cose più belle uscite  in questa prima tranche d’anno.

Fatevi attraversare tranquillamente l’anima, ne vale la pena davvero.

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Il Sindaco – S/t

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Il vocalist degli Annie Hall, Fabio Dondelli si fa eroe solitario, scende dal batuffolo del gruppo per dar forma alla sua scrittura personale, interpreta se stesso e si fa chiamare Il Sindaco, reinventando eleganza e fiocchi di intimità calda come pochi sanno fare, una nuova creatura cantautorale che danza, concupisce, ammalia e da un senso estetico a dieci canzoni sospese, da fine artigianato della musica.Un disco che non porta nome, anonimo come un marcato qualunque, un insieme di canzoni che fanno metafora di gruppo nella circonferenza di un pop d’autore  leggiadro, insaporito di fragranze e spezie quasi familiari, casalinghe, una scrittura che si accovaccia nell’orecchio e fa quasi le fusa  a chi l’ ascolta trasformata in suono e poesia; un piccolo manifesto di brani dalle tinte lunari, a tratti uggiose a tratti in tralice, tracce con l’andatura di chi pensa fitto e di chi guarda in alto per cercare risposte alle sue domande, e che tra ricordi e domani interrogativi vive il presente con la sagacia delicata della serenità possibile.Accompagnato da un quartetto di musicisti di prim’ordine della scena underground, Il Sindaco “stabilisce e delibera” le sue linee estatiche e languide che corrispondono ad un gusto e ad una modalità sonora piacevolissima, un qualcosa che si affiata e consolida in emozioni “da porta accanto”, senza spocchia, senza volontà di spaccare, un sincero pathos raccounteur  quasi disarmante che gira nell’aria al pari di una osservazione disincantata; leggo “canzoni autentiche scritte per la figlia che nasce” e tutto allora è ancor più bello, il plus-valore che avanza nei sentori anni Sessanta della ballata da “rotonda” “La vigilia di Santa Lucia”, va a ficcarsi nelle tramature pop ondulanti “Cose di Casa” o nei fraseggi soffusi “L’Abitudine”.

E poi ci sono loro,  le “provocazioni” urban-folk di “La Canzone Del Sindaco” e il pianoforte melanconico che accompagna “Adieu”, tratteggi che arrivano laddove la qualità ha la meglio sulla quantità, tratteggi eliocentrici “Italian Tour” che portano questo Sindaco allo scranno delle buone probabilità che la sua “legislazione poetica” duri l’infinità di più mandati. Al bando i panegirici, approvato con piacere!

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Airportman – Modern Modern Modern

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Parole e musica, concetti e polvere di palcoscenico, visioni e rimorso, bellezza e decadenza degli imprevisti; e l’aeroporto preso a dimensione di un non luogo dove tutto avviene e niente si coagula, un tentativo di esplorare una umanità che va e viene ma che non si fissa nel dentro di una vita che, tra pezzi, snodi e fratture, non trova mai il suo punto fermo, la sua postazione eretta.
Stupendo progetto questo messo in piedi dai cuneesi Airportman, qui anche con la forza magica di Giacomo Oro e Stefano Giaccone (fondatore dei mitici Franti ed ex Kina), una alchimia da vedere oltre che ascoltare (bellissimo il dvd incluso nel packaging) e che trasforma l’ascolto in un qualcosa di irraggiungibile se non attraverso la fusione mentale con l’ipnotismo delle parole che circolano profonde come trivelle indolori, un circuito espressivo multimediale che custodisce segreti e verità. “Modern Modern Modern” è un delirio vigile che migra e trasmigra dentro una personalità inafferrabile, suoni e circuizioni benevoli, un andirivieni di lampi e flash in cui sensorialità Ferrettiane “No Future”, l’agro pensiero che si fa strano dub psicologico “Il Taccuino” o la magnificenza mex-mantrica che la rotondità fissa di “Acqua di Luna” incanta spudoratamente,  aprono – se non addirittura imbevono – ogni millimetro di incertezza di chi sta al di qua dei woofer stereo.
Una forma cantautorale di pregio, alla larga da certi commercialismi  e aderente ad una scena sognante nel senso di scandaglio, note e frasi che vivono nel pathos buio di una notte immacolata, che odia rischiararsi a soli malati, una estetica dai toni pesti e chiari, il pianoforte che sottolinea “L’Uomo Sul Balcone di Beckett” o i landscapes di arrendevolezza che “Una Lettera Per Te” spande come nebbia sono le cifre stilistiche che la formazione musico-teatrale piemontese offre come quando si incardina l’idea greca del “fato”, l’apoteosi della poesia “off” che incombe e fa intravedere nitidamente un’ottica artistica che lascia la dolcezza dell’amaro in gola e la bellezza integra di chi l’arte la sa anche partorire, all’infuori della mera “pratica”.

Cento e lode!

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La Musa – Italiano

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Nell’arena megagalattica dell’underground in cui arrivano, stazionano e partono migliaia di nuove formazioni musicali, c’è chi riesce, chi scompare e chi addirittura muore senza mai conoscere una via d’uscita, e quando capita di trovarne una che pare dire qualcosa, un singolo talento isolato appare come un’onda travolgente.

Dalla Puglia il passo inquieto dei La Musa, quartetto che spinge forte sulle pedaliere come sulle parole/denuncia che caratterizzano la loro poesia amplificata e Italiano è l’ufficialità sonora con cui si presentano al pubblico largo e, senza troppi panegirici, è una presentazione di tutto rispetto, l’impeto dell’hard rock emulsionato con spruzzi pop riesce a dare una forte soluzione continuativa all’ascolto mentre una fresca energia elettrica riporta a certi anni novanta tricolori, specialmodo a certi Malfunk di primigenia e taluni Settore Out dispersi con l’avvento di nuove esigenze; le sette tracce della tracklist si concedono senza mai sbracarsi, scorrono di loro e lasciano dietro una scia, una sonorità tecnicamente carica e metodica, merce rara di questi tempi.
Dicevamo scariche hard di base e melodia pop che si incontrano trasformandosi in hook radiofonici trascinanti come la titletrack, “Lei”, gli ariosi open chord che lievitano la stupenda “Aria” o le distorsioni shuffle che fanno tremare la conclusiva “Lacrime dal mondo”, il resto e forza d’insieme, una buona capacità di iniettare scintille e regalare momenti veri di musica.

Se è vero che il rock ama e adula l’imperfezione grezza del suo verbo, i La Musa si completano già alla loro prima turnazione.

http://www.youtube.com/watch?v=ZHBpHh_-3yE

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Libera Velo – Rizoma contro Albero

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Talento atipico quello dell’artista campana Libera Velo, un equilibrio frizzante ed una formula sospesa che torna dopo tre anni di assenza dalle scene con un bellissimo album “Rizoma contro Albero” e già dalla copertina è un preludio all’imbattersi in uno dei dischi più intelligenti dell’ultimo cantautorato in circolazione.
Disco da salopette, ed è proprio così, una tracklist intrisa di frizzante e giochi sonici diretti da una voce limpida ed inusuale, un argentino tecnicamente fonogenico che si rotola nelle preziosità blues, cantautorali folkly e tutto il pindarismo di una artista che profuma di classe e che si concede al pop con la giusta misura che hanno gli sprazzi, i cambi di passo veloci e le folate di vento tranquillo; con un accostamento virtuale alla Ani DiFranco per via della spigliatezza esecutiva “Puca”, “Memo bizzarra”,  Libera è una artista che vive dentro e fuori dal tempo, spazia equilibrismi e atmosfere che modulano e mettono in agio assoluto l’ascolto, sia quello legato alle parole, come quello della tessitura sonora, un compendio generale di goduria e profondità che solo i piccoli gioielli posseggono.
Già da tempo – ma qui confermata – l’idea di avere a che fare con una nuova eroina della scena cantautorale “femmina” si è concretizzata, la quadratura del cerchio si è chiusa aprendo una splendida “alatura” che piroetta, si posa, svincola e torna a posarsi con un fare poetico libero e anarcoide di suo; disco anche di grandi collaborazioni, partecipano membri dei 99 Posse, Foja, 24 Grana, Slivovitz e Gnut, e un tornare in pista alla melodia fluttuante, alla caratterizzazione limpida di chi sa essere figlia naturale della grazia. Plateali gli odori di limo e alligatori del Mississippi “Jimmy’s Blues”, “Il Punctum”, l’intimità riflessiva “Questo mio essere brillante”, il battito field che scorrazza in “Mi piace il suo vestito” fino a chiudersi nel mood jazzly che “Zenzero” sigla e da “essenza” coccolona a questo ottimo registrato.
E si, Libera Velo torna a ripopolare le formule e le alchimie di un cantautorato che raschia il barile, e lo fa con una produzione che cattura perdutamente, che ti fa perdere momentaneamente la noia di ascolti vuoti con le sue vibranti “innocenti” fantasie vissute. Welcome!

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