Max Sannella Author

Toy – Toy

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Forse non ce ne siamo mai accorti, probabilmente la crisi economica ci ha distolto oramai anche dalle nuove onde sonore che arrivano d’oltre alpe, fatto sta che mentre da noi lo spread suona come un tormentone, dall’altra parte dell’Europa, il quintetto inglese dei Toy, con il disco di debutto omonimo,  scorrazza felice e ascoltatissimo in ogni dove, radio, live e chi più ne ha più ne metta, dodici tracce che fanno furore tra i giovanissimi, di quelli ansiosamente irretiti dalle nebulose chiaroscure del post-punk ancora in odore di new vave.

Disco dai colori grigiastri, sonorità devozionali agli anni Ottanta in pieno e con una – di primo ascolto – paurosa vicinanza stilistica con The Horrors, ma mi si dica che cosa oggi nella musica ci sia più da inventare, e allora lasciamo scorrere questo fiume in piena di melodia elettrica e torbacea che poi è materia di ottima qualità interpretativa e realizzate con quell’imprinting lunatico e alternato che finisce a piacere in toto, rallegra nonostante lo shoegazer di base, intrigante e convulso che può benissimo guerreggiare con i sounds indie più eclatanti; una puntina di revival si nota tra le pieghe del disco, saranno quei larsen chitarristici di sottofondo, i riff corposi ed esplosivi centrali, il drumming frenetico e scostante, ma quello che più conta è che il disco – sebbene tutto – funziona a meraviglia e mette soggezione (o potrebbe mettere) a tanti altri prodotti last minute.

Sì, la qualità è la maggiore prerogativa del registrato, una quadratura perfetta di rimando che ritorna indietro contemporanea, sfumature recondite e piglio personalissimo che – senza dissacrare nulla –  forma quella dolciastra patina retrò sulla schiena di cavalcate e circuiti darkeggianti  che rimbalzano ovunque; è solo un primo disco, l’approccio è notevole da non credere, e incrociando le dita sperando di non usare mai un futuro un interrogativo sul loro percorso sonico, gustiamoci l’onda melodrammatica di “Reasons why”, i ritmi drogati di indie windy  “Lose my way”, “My heart skips a beat”, e la wave scattante e fenomenale che decapotta nella tripletta “Motoring”, “Make it mine”, “Kopter”, tutto un insieme di emozioni raffinate dalle quali si possono anche riconoscere – ad un attento annuso d’orecchio – piccole ispirazioni estrapolate dai mondi vicinali di New Order con Echo And The Bunnymen incorporati.

Ripeto, è solo un primo disco, forse e speriamo ne seguiranno altri, intanto i nostri inglesi fanno capire di non scherzare affatto e queste “provocazioni d’assaggio” saziano e fanno fare anche il ruttino di goduria e buongusto.

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Herba Mate – The Jellyfish Is Dead And The Hurricane Is Coming

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Con la ristampa in 200 esemplari in vinile  di questo bel disco del 2009 “The Jellyfish is dead and The Hurricane is coming” della band ravennate Herba Mate da parte della Blind Proteus di Simona Gretchen, tornano ad esalare i nuclei originari dello stoner desertico, avido di dolcezza e dipendente dalle sabbie aride e granulose di Kyuss e QOTSA, quelle belle desolazioni compresse e amplificate che evocano riti senza tempo e macerie fumanti di deliri post-qualsiasi cosa.
L’alchimia della band è insaziabile, si alimenta su basamenti ed ingredienti dilatati, massicci e stordenti, un rombo costantemente oscuro che erutta senza abbellimenti atmosfere percussive e cupi motori ipnotizzanti tra riffs e pelli esangui, un acido e sinistro incedere che è poi un crescendo inesorabile di subliminali ricerche che mordono tutta la tracklist, una sequenza di dissonanze e frequenze high level impressionante; certo è una ristampa con qualche nuovo innesto effettato, un disco da ascoltare dopo una nottata di baldoria come sustain sonoro all’infinito, privo dell’arroganza di insegnare qualcosa di nuovo, ma che tutto sommato riesce a rimettere insieme una eco degli anni Novanta inestimabile nella sua giusta devastazione d’ascolto.
Il marchio di fabbrica Herba Mate è incrollabile, avvolge arcani profondi e affascinanti, primordiale nel morso e beatificante nelle  evoluzioni esplosive, buone le chitarre e il suono vintage valvolare che griffa l’orecchio e animo, animo che ribolle nelle cavalcate psichedeliche di “Imargem”, nello shuffle settantiano che corrobora “Aragosta vs Panther”, animo che si stordisce nelle allucinazioni offuscate che rimbalzano in “Nicotine” o nella tribalità malefica che echeggia tra le volte di “Bugs”; è un disco stratificato, organico e tutto d’un pezzo, perfetto nell’esprimere il sottovuoto arido delle grandi dissolvenze elettriche, e che coglie in pieno – anche da sobri – l’urgenza oppiata dello stoner più puro e della lisergia in musica “Sputnik”.
Passa il tempo ma rimane ancora bello come una tempesta di fuoco.

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Dottorconti – A Voi Ragazze

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La Cabezon Records (ri)tira fuori dai cassetti degli anni “rubini sonori” che sono stati (ndr) pensati, registrati e abbandonati dai loro autori e mai resi pubblici prima d’ora, e dopo lo stupendo disco di Alessandro Longo, eccone spuntare un altro del cantautore Dottorconti, un prestigiatore di parole e concetti che nel suo “A voi ragazze”, tira fuori delicate e stranianti trame, storie del passato, momenti vissuti in pieno ed altri immaginati nel tralice della fantasia verosimile, ed è un continuo flusso raccounteur che si snoda in una tracklist fresca e improntata, una cinquina di suoni, colori e soluzioni vitali che lasciano – a fine corsa – l’ascolto appagato di buono.
La necessità – quasi intoccabile sembra – di dedicarsi a storie in solitaria, solitudine rappresa come in giornate afose d’agosto, e fare canzoni senza intrusioni di sorta, porta Dottorconti ad un buon uso della melodia autonoma e ad un bisogno di una certa “verve” gigiona che danno forma e sostanza ad un disco che è come un libro, più lo sfogli con gli orecchi e più si concede nelle sue “stanze di vita”, si confida e prende coscienza del suo spessore sempre e comunque con un’inconsolabile ma compiaciuta malinconia di fondo; dieci tracce apparentemente casuali, amori che vanno e vengono, respiri, sospiri, poetica urbana che va in giuggiole nell’incedere sausalito De GregorianoValfiorita”, si copre di solarità e pensieri alla Silvestri “Primavera”, “L’attimo, l’arte”,  GazzèQuasi giorno”, fa il broncio amorevolmente “Blues di Mitilene” e punteggia al pianoforte lo stato d’anima delicato di un addio o di arrivederci che tra le pareti vuote di “Un’ora di sereno” lascia amarezza e cerotti appiccicati al cuore.
Ci sono dischi che arrivano per passare in fretta nel passato, ci sono invece dischi che dal passato arrivano in punta di piedi per andare nel futuro, se lo si vorrebbe, e questo lavoro di ieri è nell’oggi come uno schiocco di dita a ricordarci che le cose timide sono proprio quelle che si mangiano il tempo e le età, e Dottorconti pare saperlo da sempre, ma non lo vuole dare da intendere, forse anche questo è un suo segreto inconfessabile.
Disco straordinario nella sua disarmante semplicità.

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King Size – Guess It

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Non si sa il perchè, ma avrebbero già dovuto essere un fenomeno underground questi King  Size, quartetto trevigiano che con il nuovo disco “Guess It” – dieci tracce di sano e robusto cortocircuito rock.-garage maculato di brit –  ri(dimostrano) di avere tutti i full ed i jack in ordine per andare più su, a conquistare una fetta e più fette di notorietà della torta underground; pezzi elettrici di energia ed impensabili equilibri sonori che si intrecciano e si riproducono all’inverosimile, una tensione amplificata che lascia immediatamente l’impronta “pirica” delle band rock’n’roll con i contro testicoli.

Sono in quattro ma costruiscono un caos  evocativo plurimo, un bailamme dove l’effetto primario è un “rock a manetta” che si ripercuote tra woofer e coni come un pungiball impazzito, quell’energia che si consuma tra i Ramones “Distortion” e i Tangerine PuppetsWanna be yours” che sbatte di testa ed inventa soluzioni distorte da pogare senza ritegno, con la giusta strafottenza, il giusto “ghigno” d’ordinanza; ottime anche le virate verso colorazioni brit pop di primaticci BlurMoney Laundering”, “London sun”, “Gimme some talent”, ma la necessità di prendere chiare posizioni soniche sono dettate dall’impellenza di spaccare le testate degli ampli e di rimandare la botta di vita scatenante del rock alle nevrosi scoppiettanti che “I really want to fly”, lo shuffle schizzato di “Mr. Green Pie” e la bella ballatona che sprizza malinconicamente da tutti i pori possibili le rifrazioni sixsteen “ Sitting on the moon” mettono a contrasto di un ascolto passivo l’orecchio, poi si traducono in complementi essenziali per un disco che suona e fa muovere canagliescamente chiunque.

I King Size sanno il fatto loro, sfornano una list che fa scintille ed un tracciato elettrico che non ammette fiacche fisiche, tutto il resto è gioia.

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Adriano Modica – La Sedia

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Di primissimo impatto è difficilissimo stabilire un minimo di rapporto  – anche simbolico – con il nuovo e terzo disco del cantautore calabrese Adriano Modica, “La Sedia”, ma poi seguendo il percorso informale della tracklist, si è percorsi da una strana malia suggestiva che si apre progressivamente, e in pochi giri di stereo, si arriva alla consapevolezza di un lavoro discografico non male, con molta scorza, ma non male se si è pervasi dai movimenti interiori che l’artista stesso mette in mostra attraverso dieci brani.
Il disco parla ed intende espressività dentro, un cantautorato dai doppifondi d’anima rigati, una strana psichedelica che incrocia Barrett e Basile come fossero giorno e notte, poesia, struggimento, devastazione e delicatezza si amano e intrecciano le loro corporalità come serpi addomesticate, un’opera che vive e sbava di luce propria, in movimento come negli stati fermi dove tutto è contenuto e poi rilasciato come una forza viva mai artificiosa; brani come fotografia ingiallite, arrangiamenti come istantanee in bianco e nero, poetica come un fuoco a metà ma che riscalda comunque se ascoltato tra la notte e l’alba.
Modica, artista della Calabria underground, non si fa mancare nulla nell’armamentario strumentale che suona nel disco, flauti, archi, ottoni, clavicembalo, vibrafono, timpano, e poi quell’asterisco esemplare che brilla nella partecipazione dell’artista inglese Duggie Fields; dunque un lavoro che – come si diceva prima – si apre piano piano e mostra tutte le sue intercapedini sonore facendo diradare tutte le foschie che appaiono all’inizio, lasciandosi poi familiarizzare in maniera piena con i messaggi che l’opera stessa vuole consegnare agli ascolti. Ascoltato di seguito può dare anche leggeri accenni di dipendenza, una sincronizzazione di stimoli sonori che arrivano diritti all’orecchio come la De AndrèanaIl bastone e la scala”, il pizzicare di corde acustiche solitarie “Alluminio”, “Che mi dai”, “Stelle scalze” o il fantasma flebile di un Drake notturno che si muove pensieroso in “Ninnananna per Lulù”, certo non un disco per chi cerca “sound e jump”, nemmeno per chi vuole sfuggire la malinconia e darsi una tonicità impassibile, piuttosto una serie di brani ottimi per stare da soli e rischiarare le proprie nudità interiori e magari farci due “chiacchiere sincere” una volta per tutte, poi una volta ristabilito l’equilibrio, riascoltarlo come bella entità salvifica.

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