Dicembre, 2013 Archive

Gli Anni Luce musicano il cortometraggio He Comes from the Kitchen

Written by Senza categoria

Gli Anni Luce musicano l’ultima opera del videomaker indipendente bolognese Lorenzo Massa, realizzato per la June Lab casa di produzione dello stesso videomaker.
Il cortometraggio intitolato “He Comes from the Kitchen” rielabora perfettamente l’immaginario della band bolognese. Per la realizzazione del corto è stato utilizzato il brano “LeRreni di Babbo Natale” dal loro recentissimo Mr. Kiss (DeAmbula Records, ottobre 2013) brano dalle sfumature Mathpostrock.

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La Band della Settimana: Noàis

Written by Novità

Noàis è una richiesta garbata di servire le cose senza diluirle perché non ha più senso farlo. Senza ghiaccio per gli intenditori, senza senso per tutti gli altri. Un insieme di istantanee e impressioni che fissano storie comuni, come comuni sono le musiche che le accompagnano. Il viaggio più che un senso diventa una scusa per non star fermi e ciò che resta è: canzoni per chiedere scusa e ringraziare, ballate d’amore e dis-amore, parole di rabbia e speranza. Senza pretese, senza meta, non vuoti a rendere ma vuoti a perdere. Per poi ritrovarsi.”

Jacopo Perosino – Voce e tutto il resto
Paolo Penna – Chitarrine Giocattolo
Luisa Avidano – Violini Violenti
Simone Torchio – Bassi Bitonali
Roberto Musso – Pentole e Coperchi

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Nick Cave & The Bad Seeds 27/11/2013

Written by Live Report

L’Auditorium Parco della Musica a Roma sappiamo tutti che posto è. Anche se non siete mai entrati porta con se quell’aurea istituzionale di palco da grande concerto, una struttura all’avanguardia nel cuore benestante di Roma. Insomma, la fama lo precede. Acustica da paura, radica di non so quale legno ovunque e le mitiche poltroncine larghe e imbottite dove gustarsi comodamente il concerto. Il tutto in un amabile atmosfera perbenista, quasi da teatro dell’opera, il cui ordine poco c’entra con i mostri che hanno dominato questo palco mercoledì scorso: Nick Cave & The Bad Seeds.

Alle 21,30 ero sistemato comodamente in galleria, sul mio divanetto, ad attenderne l’entrata in scena. La sala Santa Cecilia ormai colma, in visibilio, avida di placare l’ansia che precede  l’attesa dell’evento. Ed ecco che poco dopo assopiscono le luci, le urla e i fischi della folla si fanno sempre più ampi e insistenti a scaricare l’entusiasmo, all’improvviso un flash ed eccolo, con la sua camminata irriverente, fare la sua comparsa sul palco Cave seguito dai suoi Bad Seeds. Un veloce saluto, il tempo di prendere lo strumento, e subito si parte con “We No Who U R” primo singolo estratto dal suo ultimo lavoro Push the Sky Away. Un pezzo particolarmente malinconico, forse fra i più belli dell’album. Subito mi sale la pelle d’oca e vorrei balzare giù in platea dalla galleria. Ma non si può, avevo già provato ad eludere le hostess senza successo allo scopo si stare in piedi in platea. Che tristezza penso: questo posto è troppo “ordinato”, non è adatto ad una rockstar. Riconnetto il cervello sul palco, Cave teatralmente, come suo solito, si atteggia come fosse Sinatra e prosegue con “Jubilee Street”, testo critico contro chiesa e benpensanti che di giorno pregano Dio e di notte vanno a mignotte. E proprio mentre intona il ritornello prende e si lancia giù dal palco creando scompiglio. Tutti si alzano dalle comode poltrone e lo vanno a stringere. Un momento epico, dove questo grande uomo cerca e stabilisce un rapporto sentimentale col suo pubblico e lo trova. Cave è così: mentre tira fuori i suoi demoni e te li sbatte in faccia ha bisogno del contatto. Per tutto il concerto tocca il pubblico, lo guarda negli occhi come se si nutrisse della loro energia. Un rapporto vero, senza filtri. Da lì in poi lo spazio sotto il palco si riempie, per tutta la durata del concerto gente che sale e scende dal palco abbracciandolo, baciandolo, stringendolo, e lui da spazio a tutti e ricambia creando momenti comici che esaltano l’emozione dei temerari del palco. Un grande.

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Per chi volesse conoscere la scaletta eccola di seguito:

We No Who U R, Jubilee Street, Tupelo, Red Right Hand, Mermaids, The Weeping Song, From Her To Eternity, West Country Girl, People Ain’t No Good, Sad Waters, Into My Arms, Higgs Boson Blues, The Mercy Seat, Stagger Lee, Push the Sky Away, God Is in the House, Deanna, Papa Won’t Leave You, Henry, We Real Cool.

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Un gran bel concerto, due ore e trenta più o meno, come c’era da aspettarselo, il cui apice, per me, è stato “From Her to Eternity”. Ad un certo punto credevo cascasse l’Auditorium. Galattici i Bad Seeds, magnifico Nick Cave, un vero e proprio spettacolo Rock a dimostrazione del fatto che ascoltare la musica in streaming non è un cazzo in confronto a quello che un Live e in questo caso degli artisti di questo calibro possono regalarci. Peccato per l’auditorium, la cattedrale della musica con le sue poltroncine è risultata poco adeguata ad ospitare un demonio sregolato del Rock!!!

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Blevin Blectum – Emblem Album

Written by Recensioni

È da tempo che ci ribadiscono che il futuro del Rock è nell’Elettronica e qualcuno ci aveva pure creduto. A distanza di tredici anni da Kid A già cominciano a fare dietrofront in tanti e il futuro del Rock diventa, di volta in volta, “il vintage”, “la riscoperta degli anni 80”, “il revival Rock’n Roll”, “la sperimentazione cinese”, “gli Arcade Fire”, “la Dubstep”, “il Pop”, “il Blues Rock classico”, “il Lo-Fi”, “il Minimalismo”. Sono passati quarantacinque anni dall’omonimo album dei Silver Apples e a quanto ho inteso l’Elettronica non è mai stato il futuro ma solo uno dei tanti mezzi con i quali il Rock si è confrontato e allo stesso tempo una realtà a sé stante, disgiunta dalle dinamiche di mercato e dalle tensioni emotive del Rock. L’Elettronica è un mondo a parte nel quale, di tanto in tanto, i protagonisti della scena Rock si inabissano per cercare nuove vie d’ispirazione (vedi Reflektor). Il futuro è la contaminazione e la distruzione delle classificazioni. Forse e forse lo sottoscrivo ma forse farò dietrofront anch’io, un giorno.

Tuttavia, c’è chi sembra calarsi perfettamente in questo ruolo dell’Electronic Music di secondo interlocutore e prosegue per la sua strada cercando non di scoprire come sostituire corde e pelli nelle nostre orecchie ma come spalancare nuovi varchi stilistici per un settore che ha ancora tanto da dire. Una di loro, di questi neo romantici dell’astrattismo musicale, si chiama Blevin Blectum (voce in A Chance to Cut Is a Chance to Cure e The Civil War, entrambi album degli straordinari Matmos) e da fine millennio cerca una formula ideale miscelando sostanze, spesso con scarsi o modesti risultati, ma che, nelle ultime cose, pareva aver trovato l’ingrediente segreto mancante.

Anche questa volta, giunta al quinto album solista, Blevin Blectum edifica tutto un mondo sonoro (con un utilizzo minimo delle parole) che regge su strutture artificiali ben delineate procedendo lungo la scia di Gular Flutter, album del 2008 nel quale l’artista sembrava essere riuscita a indovinare e rendere a pieno il senso della sua proposta. In apertura scoviamo le due parti di “Cromis” le quali, nella loro semplicità, figurano come l’inizio esemplare di una tanto attesa risposta a chi chiedesse all’Elettronica di cambiare il suo ruolo. Ritmiche e suoni scomposti ma ossessivi fanno da contraltare a una vocalità destrutturata ma puntuale. Manca una melodia precisa eppure le ritmiche poggiano su solide basi tanto da rendere il brano orecchiabile nella sua sventatezza. Ben presto però il sound si altera, perde consistenza, diventa un’accozzaglia neanche troppo articolata di suoni (“Nanofancier”) elettronici alternati in maniera metodica su uno sfondo di illusorio caos che richiama in maniera netta lo stile dei Matmos (“Deathrattlesnake”) ma non riesce a eguagliarne l’intelligenza e la complessità sostanziale. Poche cose, non troppo interessanti e mescolate maldestramente e una delusione evidente in chi, come me, si apprestava ad ascoltare un gioiello, dopo Gular Flutter e dopo l’ascolto dell’opening track. Mi attendevo una strada piena di ritmiche incalzanti, di voci straniate e stranianti, di suoni compositi, variegati e cangianti e per quasi cinquanta minuti subisco un attacco furioso da un quasi nulla sonico buono solo ad annoiarmi senza neanche riuscire a farmi addormentare.

Emblem Album è un passo indietro per Blevin Blectum, greve e in parte inatteso ma è solo un insignificante passaggio a vuoto per il mondo dell’elettronica intelligente che forse non sarà il futuro del Rock, ma di certo ne ha uno tutto suo, pieno di accecanti colori al neon.

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Crystal Stilts in Italia!

Written by Senza categoria

I Crystal Stilts si sono formati nel 2003, e sono guidati dal cantante Brad Hargett e il chitarrista JB Townsend, a cui nel corso tempo si sono aggiunti Andy Adler (basso), Keegan Cooke (batteria) e Kyle Forester (tastiere).
Il loro primo album, Alight of Night, è stato subito un caso. Un ritorno al post-punk di inizio anni ’80, che solidifica la posizione di culto nella neo-psych newyorkese. Ma il consolidamento arriva con In Love With Oblivion, il secondo album. Nature Noir vede il ritorno dei Crystal Stilts: per la presentazione del disco la band sarà anche in Italia:

sabato 22 Febbraio 2014
al MATTATOIO di CARPI (MO)

domenica 23 Febbraio 2014
al TRAFFIC di ROMA

lunedì 24 Febbraio 2014
a LO FI di MILANO


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Le Strade: esce Come un Laser

Written by Senza categoria

Lo scorso 20 novembre è uscito l’ultimo singolo de Le Strade, intitolato “Come un Laser”, che segna il ritorno della band sulle scene, dopo il fortunato ep In Fuga Verso il Confine. La pubblicazione del nuovo singolo precede di poco l’inizio del tour 2014 de Le Strade, che si articolerà in concerti in tutta la penisola, a partire da gennaio 2014.
Di seguito il video: godetevelo!

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Managemente del Dolore Post Operatorio a Torino

Written by Senza categoria

Prosegue il tour del Management del Dolore Post Operatorio. I ragazzi più irriverenti del Rock nostrano si esibiranno allo Spazio 211 di Torino il 28 dicembre. I cancelli apriranno alle 22 e il prezzo del biglietto è di 8€. Non mancate!

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Only Ten Left 16/11/2013

Written by Live Report

Proseguono senza sosta gli appuntamenti in musica del Progetto Streetambula. Dopo l’eccellente performance di Doriana Legge ed Elisa Marrama (19/10/2013), questa volta é il turno dei sulmonesi Only Ten Left, quartetto Punk Rock emergente composto da Thomas (voce e chitarra), Tizzi (chitarra solista e voce), Sasà (basso) e DiVito (batteria), accompagnati per l’occasione dal giovane cantautore pratolano Quinto Fabio Pallottini (chitarra acustica e voce). Sin dal mio arrivo – nella mezz’ora antecedente l’inizio dell’evento – avverto sommo piacere nel constatare che, anche in questo frangente, il pubblico della vallata non si é fatto di certo pregare. Caffé del Corso, infatti, brulica di vita. Qualcuno inganna l’attesa trangugiando avidamente un boccale di birra, fumando una sigaretta o chiacchierando del più e del meno; “Forse qualcosa in questo paese si sta muovendo”, penso, ed entro nel locale, facendomi strada a fatica tra chi probabilmente non ha ancora compreso che, far capannello dinanzi all’ingresso del bar e rovesciare addosso al primo malcapitato di turno un invitante calice di vino rosso, non é cosa buona e giusta. Comunque, in un modo o nell’altro, sono dentro; il tempo di ordinare un drink ed inizia il concerto. Apre le danze Quinto Fabio Pallottini, promettente musicista pratolano che, da diverso tempo ormai, calca le scene di innumerevoli eventi peligni. Il suo show può essere riassunto in una serie di ballate dove il Punk Rock incontra un certo gusto british sulla scia di Blur, The Verve, ecc… senza disdegnare tuttavia la contaminazione con generi musicali apparentemente estranei al contesto, come il Reggae, ad esempio. Un registro vocale aspro e sbarazzino, una linea di chitarra folk non sempre ineccepibile sotto il profilo squisitamente tecnico ma, mi vien da dire, chissenefrega. Quinto si diverte e fa divertire. E questo mi basta.

A seguire, dopo un rapidissimo cambio palco, gli Only Ten Left. Il Punk Rock californiano della giovane formazione sulmonese (chiaramente influenzato dal leggendario sound di Social Distortion, U.S. Bombs, ecc…) si cala alla perfezione nell’inedita veste acustica proposta per la serata. Infatti i brani in scaletta, nonostante siano stati eseguiti senza distorsioni assordanti (regola fondamentale e primaria dell’unplugged), con un set di batteria ridotto davvero al minimo indispensabile – fondamentalmente cassa, rullante e charleston, per capirci – mantengono comunque un ottimo livello di coinvolgimento, restando pressoché fedeli alle versioni originali. Adrenalina a mille, buona presenza scenica, spensieratezza, ed il gran merito di aver saputo appagare l’esigenza di un pubblico dai gusti inevitabilmente eterogenei.

Bella musica, bella gente, vibrazioni positive e birra in offerta. Insomma, una gran bella serata.

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Marshmallow Pies – Between Cloudy and Sunny Days

Written by Recensioni

Le Marshmallow Pies (come nella beatlesiana “Lucy in the Sky with Diamonds”, citata proprio in relazione al moniker in “Intro”, i primi venti secondi del disco) si definiscono “fairy acoustic trio” e non si fa fatica a capire perché. Il loro primo album, Between Cloudy and Sunny Days, è pieno zeppo di pezzi emozionali, leggeri e soffici, che sarebbero perfetti per accompagnare gli ultimi minuti di una qualunque puntata di un serial americano teen (vedi “Colourless”, ad esempio – mentre “Strange Belief” potrebbe essere un’ottima sigla d’apertura). Nomen omen, le tre ragazze di Como (voce, chitarra/ukulele/violino, tastiera/chitarra) producono una teoria di canzoni sognanti e zuccherose, un cantautorato in inglese molto femminile e molto morbido, che non inventa granché ma si lascia ascoltare dolcemente, richiamando alla mente, senza troppa fatica, serate da tisane e cioccolate calde in pub dai muri color rosso acceso e con tante, tante candele sparse qua e là (“Superman”).

La base sonora è affidata alle chitarre acustiche e al piano, che si accompagnano a qualche aggiunta saporita (violino in primis: “Storyboard”, o l’apertura centrale di “M.” – ma spunta anche qualche inserto di sax nella già citata “Colourless”, o di organi in “Le Parole”, unico brano in italiano). La voce di Francesca Giannella ci ricama sopra, sottile, con gusto e libertà, senza strafare, in un’economia lieve: una bella voce che non si mette in mostra ma ci accompagna gentile nell’ascolto.  Between Cloudy and Sunny Days è un disco ben scritto, che poteva essere un po’ più vario nelle atmosfere ma che anche arrangiato “al risparmio”, con un parco strumenti ben definito e per alcuni versi limitato, riesce ad emozionare: sia chiaro, si parla pur sempre di emozioni soft, di rilassatezza, malinconia suggerita, serenità, allegria sussurrata. Una torta morbida, dolcissima. Astenersi diabetici.

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Daughn Gibson in Italia

Written by Senza categoria

Già batterista nei Pearls & Brass, Daughn Gibson si è reinventato – in qualità di solista – cantautore baritonale ed emotivo, amante comunque dell’elettronica e del rock, artefice di due bellissimi dischi: il primo All Hell (2012) – che su Pitchfork ha ricevuto una votazione di 8.1/10 – e l’ultimo Me Moan (2013), uscito a Luglio per la storica Sub Pop records. L’artista americano arriva per la prima volta in Italia, a Roma e Milano:

03 DICEMBRE 2013 ROMA – PLANET ROCK/BLACK OUT

04 DICEMBRE 2013 SEREGNO (MI) – ARCI TAMBOURINE

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Tre date italiane per i Soft Moon

Written by Senza categoria

La band, guidata dal visionario compositore di Oakland Luis Vasquez, scelta come opening del tour 2014 dei Depeche Mode arriva in Italia per 3 date per presentare ZEROS, il secondo LP a nome Soft Moon.

giovedì 30 gennaio 2014 – Roma – Teatro Lo Spazio

venerdì 31 gennaio 2014 – Milano – Plastic

sabato 1 febbraio 2014 – Bologna – Covo

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Arcade Fire – Reflektor

Written by Recensioni

Skippando a piè pari i 10 minuti della hidden track iniziale, sono andato subito alla traccia numero uno “Reflecktor”, canzone che da il nome al nuovo e quarto album in studio degli Arcade Fire. Spinto dalle prime note caratterizzate da un groove danzeresco (audio doverosamente a palla) mi sono alzato e incamminato lungo il corridoio di casa con un’andatura lenta ma ritmata e sicura. Con una giravolta alla Derek Zoolander (chiaro, verso destra) mi sono diretto in cucina e tra un movimento pelvico  e l’altro mi sono fatto un caffè, in scioltezza e sempre danzando sentendomi figo che manco George Clooney. “Prende questo sound!” ho pensato. Non avendo ancora capito assolutamente niente della canzone perché troppo intento a sentirne le vibrazioni, ho messo la tazzina nel lavandino e mi sono ridiretto zompettando verso la camera per ascoltare più attentamente l’album e scrivere due righe per Rockambula. Ebbene, a fine ascolto (un paio di ascolti per la verità) il mio pensiero è stato questo: ”Dopo aver spaccato le palle per mesi con una campagna pubblicitaria continua (aggiungo ora: prassi, che non amo molto, ma che sta oramai diventando sempre più comune nel mondo della musica mainstream dai Daft Punk, per esempio, ai Pearl Jam), è questo il tanto ostentato ed atteso lavoro degli Arcade Fire? Beh, allora ben vengano tutte le strategie di marketing invasive possibili, se portano a lavori del genere, perché l’album non spacca le palle, spacca e basta”.

Un’opera molto più elettronica e corposa, un misto di Funk Rock, elementi Reggae, Dance- Hall con influenze tribali nate dalle percussioni di stampo Haitiano, paese d’origine di Regine Chassagne e dai frequenti viaggi in Giamaica, luogo dove la band ha registrato tra l’altro, l’album. Un disco doppio piaciuto ai molti e criticato dai pochi che ne hanno visto un lavoro troppo laborioso, caratterizzato da eccessive percussioni e dall’inutile aggiunta di strumenti nuovi quali, per esempio, il sax. Uno stato confusionale, insomma,  che porta a mischiare percussioni e strofe in lingua francese al classico sound disco anni 80.  I soliti che non riescono mai a concepire evoluzioni, cambiamenti e voglia di sperimentare di una band ma che si aspettano sempre la copia dei primi album. Noiosi. La bellezza di Reflektor sta proprio nella sua diversità e novità. È un album ricco dove il gruppo canadese si inerpica per selciati sperimentali un po’ più lontani dal loro standard, mettendosi alla prova, sbattendosene e regalando qualcosa di diverso. Il prodotto è energico, ridondante, piacevole e dove lo zampino di James Murphy (LCD Soundsystem), specialmente in pezzi come “Reflektor” e “Here Comes the Night Time”, si fa sentire eccome.

Una band seria che risulta divertente, senza però mai abbandonare il lato oscuro della loro musica, quel dark che li ha sempre caratterizzati; a partire dalla copertina: il dramma di Orfeo di Rodin che cede alla tentazione di voltarsi e guardare Euridice destinandola all’Ade. Per non dimenticare poi le menate, che tanto piacciono a Win Butler, Kierkegaardiane e che ci permettono, citando appunto il filosofo danese, di descrivere al meglio l’opera della band: ”Fin dall’infanzia sono preda della forza di un’orribile malinconia la cui profondità trova la sua vera espressione nella corrispondente capacità di nasconderla sotto apparente serenità e voglia di vivere.” L’album narra di mali esistenziali, di amore, delle difficoltà nello stare insieme, delle moderne crisi di relazione e della ribellione contro l’affermazione di se stessi, il tutto con un linguaggio molto accessibile. Lungo? Onestamente un po’ si, soprattutto alcuni pezzi, come l’intro, “Awful Sound” oppure “Supersymmetry” che tendono ad appesantirlo leggermente, anche seò mettono ancora di più in risalto le tracce più brevi ma belle cariche come “Normal Person” o “Flashbulb Eyes”.  Noioso? Proprio no, sempre ricco di suoni interessanti, pieni, sensati nella loro mescola e coinvolgenti lungo tutto il percorso dell’album.

La classica opera da ascoltare donandogli le giuste attenzioni, ma al tempo stesso possibile colonna sonora delle nostre faccende quotidiane da stoppare, riprendere e magari skippare su qualche pezzo. Il risultato sarà sempre e comunque ottimo. Ascoltatelo e basta. Se potete, fatelo senza l’utilizzo di cuffie o auricolari ma lasciate che il sound invada i vostri timpani e la vostra casa globalmente. Ciò che vi rimarrà sarà sicuramente la sensazione di aver ascoltato uno dei migliori album del 2013, e se non avete idee per i regali di Natale e conoscete qualche sciagurato che non ha ancora comprato o ascolta questo disco, eccom fategli il giusto presente. Pure Gesù bambino sarà contento. E così sia.

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