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Marlene Kuntz 07/03/2014

Written by Live Report

Scrivono qualche ora prima del live sulla loro pagina facebook i Marlene Kuntz: Che dirvi? Siateci. Non per Sonica. Ma per i Marlene, nuovi, vecchi, soliti, insoliti, consolidati, in movimento costante, imprevedibili, prevedibili. Ma Marlene. Reduce dagli ultimi anni in cui li ho visti suonare nei luoghi più improbabili e annaspare proponendo novità ad un pubblico ristretto benché consolidato – e non più tanto giovane – che a gran voce chiedeva di ascoltare nient’altro che le pietre miliari, mi appresto ad affrontare la serata con buone dosi di sfiducia e alcool in circolo. I presi male, come dicono a Torino, non vengano a intristirci qua, se gli è possibile, scrissero testualmente sul proprio sito web i MK annunciando l’uscita del nuovo album. Mi sa che parto proprio male.

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Che poi io me lo immagino Cristiano, a incazzarsi con questi social network di merda. Deve aver fatto una fatica immane nel momento in cui si è lasciato convincere che lo strumento imprescindibile per chi fa musica è ormai il web, senza il quale d’altronde la metà insulsa del panorama underground italiano non avrebbe modo né ragione di esistere. Di recente, in una intervista, Manuel Agnelli, alla domanda sul perché avessero intrapreso l’avventura della nuova release di Hai Paura Del Buio? ha risposto così: “Uno dei motivi, oltre che per far festa e fare una cosa finalmente celebrativa, cosa che non facciamo mai, è stato per ‘togliercelo dai coglioni’ definitivamente”. Cristiano Godano è evidentemente di altro avviso rispetto al frontman degli Afterhours. Ed è singolare che la reazione ad un forse inevitabile declino arrivi nello stesso momento ma in maniera così diversa per le due formazioni che costantemente paragonate hanno attraversato di prepotenza gli anni 90 del Rock italiano lasciando un’eredità che oggi tutta la scena Indie nostrana raccoglie, in molti casi seminando poco in cambio. Questa però è una riflessione che farò più tardi. Per ora sono ubriaca, ma il giusto, giusto un po’, e penso che il nuovo disco (Nella Tua Luce, uscito la scorsa estate per Sony Music) non mi fa impazzire. Tale pensiero mi scaraventa per direttissima in quel pubblico non più tanto giovane. Per riprendermi dal duro colpo vado a farmi un altro vodka-tonic.

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Poi Godano arriva, con una delle sue camicie androgine rigorosamente sbottonata, ed è una deflagrazione. Energico e raffinato, questo show in cui mi aspettavo gente gridare da sotto il palco la nota preghiera che fa Lieve-Festa Mesta-Sonica, e invece siamo tutti con le orecchie tese ad ascoltare e la stessa espressione piacevolmente sorpresa. Il vodka-tonic mi dura fino alla fine del nuovo album. Lo srotolano sulla folla pezzo dopo pezzo senza intermezzi nostalgici ne’ pause. i Marlene sono qua per suonare, vada per i social network e tutti gli altri fronzoli che piacciono agli ascoltatori degli anni 2010 ma loro sono musicisti, e lo erano anche quando il resto non c’era nemmeno. La qualità di arrangiamenti ed esecuzione sono quelle di professionisti con una discreta dose di esperienze live alle spalle, e si fondono con le dissonanze e la potenza a cui ci hanno abituati vent’anni fa. È un live coinvolgente in cui più che apprezzare l’intensità dei testi – noto con disappunto che Godano continua ad abusare della parola “capogiri” da dieci anni a questa parte – mi lascio travolgere da un paio di iperboliche code strumentali, possenti e sontuose, al termine delle quali lui guarda giù fiero e sembra quasi dire che per quanto gli riguarda possiamo andare a tutti a cagare insieme ad Ape Regina. Non ci concederà di dimenarci sulle note degli storici Marlene Kuntz. Terminati i brani di Nella Tua Luce, dai vecchi album riesuma solo brani sconosciuti ai più, come “Cara è la fine”, prima traccia di un album come Che Cosa Vedi che per i fedelissimi equivale a dire l’inizio della fine (in molti tra i fan della prima ora non gli perdonarono quella scappatella con Skin), chiudendo post-bis addirittura con un pezzo come “Uno”, dall’album omonimo, che senza entrare in merito alla qualità delle produzioni dei MK degli ultimi anni, è forse l’ultimo che al pubblico verrebbe in mente di acclamare a fine concerto.

È andato tutto secondo i piani. Insoliti, consolidati, in movimento costante. E dopo vent’anni è una scelta coraggiosa e antitetica all’autocelebrazione di Manuel Agnelli. Mi sa che agli Afterhours gli dò buca ‘sto giro.

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Rosso Dalmata – Rosso Dalmata

Written by Recensioni

Scoprire quello che è l’obiettivo di una band quando ci propone un album, un brano, un video o qualunque altra cosa che possa definirsi artistica, ha un ruolo chiave nel compito di giudicare quanto tale valore possa considerarsi ricco o meno. Nel caso dei Rosso Dalmata e del loro omonimo album d’esordio è molto difficile giungere a conclusione perché, se da un lato l’artwork è incentrato su passionali accostamenti tra rosso sangue, bianco e nero con un risultato abbastanza sfrontato, girando la custodia e sbirciando tra i titoli dei brani (“Mina Si Fa Di Ketamina”, “Ho Mal Di Dandy”, “E’ Un Problema Se Sono Un Omicida Seriale”) ci sembrerebbe avere di fronte un gruppo che probabilmente punterà tutto sull’ironia per colpire al cuore gli ascoltatori. L’unica risposta possiamo trovarla nell’ascolto.
I bolognesi Rosso Dalmata provano a mescolare l’Indie britannico con l’elettronica Pop italiana, puntando oltretutto proprio su testi in lingua madre. Il loro album è stato mixato da David Lenci (Linea 77, Uzeda, One Dimensional Man, Teatro degli Orrori) e masterizzato da Carmine Simeone (Subsonica, Skin, Tony Levin). Il brano che apre l’opera, “Mina Si Fa Di Ketamina”, contiene una piccola chicca per tutti gli appassionati di cinema oltre che di musica. Infatti, nel pezzo, è presente un celebre monologo del film “Trainspotting“ reinterpretato, dopo sedici anni, dallo stesso doppiatore del film, Christian Iansante. Di seguito alla recensione potrete vedere il video realizzato dalla Elephant Production (Jolaurlo, La Radura) con l’attrice Martina Angelucci e la regia di Nunzia Vannuccini. Il pezzo si apre con il prepotente synth che sembra presagire l’imminente rimbombo di un Pop sintetico potente in stile Late Of The Pier. In realtà tutto si dispiega in un convenzionale Indie Rock di matrice inglese, con un ritornello assolutamente prevedibile e neanche troppo ironico (se questo era l’obiettivo). Si cercano suoni tossici (visto il tema del pezzo) dentro sonorità immediate e parole irriverenti ma il risultato è quanto mai dozzinale, nonostante il tentativo di elevare il contenuto con la suddetta partecipazione di Christian Iansante. Nel secondo episodio, “Romanzo Noir”, è nuovamente forte la presenza dell’Indie Rock derivato dal Post-Punk di scuola Franz Ferdinand e Kaiser Chiefs per intenderci, ma ancora una volta, il massimo che riescono a fare è trovare un ritornello con una melodia tanto orecchiabile quanto derivativa, allo stesso modo dei riff di chitarra o degli inserti sintetici. Il primo momento interessante si ha con “Adoro il 69” dove più energico è l’intervento dell’Electro Pop di scuola tricolore, Bluvertigo o Sikitikis. La linea melodica vocale è subito perfetta e indovinata e la semplicità sonora Pop-Punk delle chitarre risuona assolutamente eccellente, dentro un pezzo ricco finalmente d’ironia e voglia di leggerezza. Il cantante, Marco Baricci, si cimenta, in maniera minimale, anche con il piano, nel brano “Il Cubo Di Rubick” che nelle sue mescolanze tra Rock, suoni chimici e voce in primo piano riprende ancora con forza la corrente italica di Subsonica (molto simile nel cantato) e Bluvertigo, allargando le ali nella parte finale, su acustiche più dirette e punk del tipo non troppo incazzato. Non aggiungono praticamente nulla alla proposta dei Rosso Dalmata, i brani “Onda Sinusoidale” e la finto ironica “Ho Mal Di Dandy” mentre molto interessante è l’intro di “Storia Di Ordinaria Follia”, con le sue pazzie artificiali e l’evoluzione pulsante e piena di cambi di ritmo. Niente di nuovo, a dire il vero, ma nel suo essere “già sentito” è comunque un pezzo che mescola alla perfezione tutti gli ingredienti dell’album, oltretutto mostrando una buona esecuzione anche vocale pur se non stilisticamente perfetta. Poco convincente anche “Antistress” nella quale in realtà Marco Baricci, a differenza del brano precedente, mostra qualche limite vocale e un timbro non proprio da pelle d’oca. Forse il testo più interessante è quello di “Danza Della Busta”, liberamente tratto da un monologo del film American Beauty e ottimamente accompagnato dalla foga sonica di Frank Lav (autore delle parole), Guido Adam Terracciano, Herb De Masi, Dario De Benedetti e Mark Mad Honey (complimenti per la citazione). Parte forte anche “E’ Un Problema Se Sono Un Omicida Seriale” ma gli sviluppi suonano ancora una volta troppo mediocri e ritriti. L’ultimo brano, “Pietra Filosofale” non si stacca di un millimetro dalla proposta ormai chiara dei Rosso Dalmata, regalandosi anche un ritornello stile Prozac+. Non pensate che il problema di quest’album sia tutto nel suo essere sorpassato e convenzionale. Se avete mai letto altre mie cose, saprete che non ne faccio un dramma. Il dramma è che, in quasi tutti i momenti del disco, quando qualcosa sembra ineccepibile, tutto il resto è esattamente dalla parte opposta. Appena trovi un ritornello gradevole, ti suona insopportabile il resto del pezzo. Se sembra affascinante e intelligente il testo, è la melodia che non va. Se la musica ti prende, ecco che le parole arrivano a infastidirti. Manca omogeneità di valore assoluto. Con ripetuti ascolti, forse la parte testuale sarà proprio quella più interessante, esclusi un paio di sfortunati episodi ma le composizioni suonano fin troppo per palati semplici nell’intento, quanto poco accattivanti nel risultato.

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