Hijack Party – Hijack Party

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Quando il nome suona così cool è difficile che il sound preservi sorprese. Capita anche con Hijack Party, neonata band romana dal suond fresco, vivo e vegeto nel nostro presente: tra nervosismi e ampi respiri di aria fresca.
L’aria del loro album di debutto ha un incredibile sapore british, e la biografia della band spazza via ogni dubbio: Stefano Reali (chitarra e voce) ha vissuto e suonato 10 anni in terra inglese. La sua voce sporca e ruvida è pregna di sigarette in sudici club, lunghe passeggiate ad Hyde Park, partite a freccette e litri di bionde medie al bancone. I don’t have an answer è sbruffona e arrogante come il Liam Gallagher dei bei tempi, biascicata e un ottimo tributo al brit pop. Si, Hijack Party sono una band nostalgica di un fresco passato ma non si fermano a riprodurre su carta le perfette statue greche, come fanno gli studenti d’arte in visita al British Museum. Love Infection spazza via questo facile pregiudizio con un bel ritmo in levare che accarezza sia i Negrita multietnici che i Blur più caciaroni e festaioli.

I ragazzi (pare neanche troppo giovani a dire il vero) muovono i loro passi decisi, nonostante sia la prima uscita discografica, senza mai esagerare e rischiare nulla: 4-4-2 sicuro e provato più volte in allenamento. Quando si scende in campo i quattro giocano a memoria, senza mai uscire dal loro ruolo ben definito. E allora le ritmiche di Vincenzo Stefanini e Patrizio Placidi sono precise e sintetiche persino quando potrebbero osare di più in Insideout, l’episodio più hard del disco, forse più adatto alla voce di Skin che a quella di Stefano. Le sue corde vocali, in generale abito perfetto per il “party”, si dimostrano in questo episodio troppo sottili e strozzate dal peso dei riff.
Anche la chitarra di Damiano Caporalini pare ben indirizzata sui suoi binari e svolge un ottimo lavoro mirato a valorizzare la squadra, salvo qualche incursione spregiudicata sulle fasce (e a dire il vero molto gradita) come l’assolo in I’m not moving, altro che stare fermi questo è un inno alla frenesia. Come accennavo all’inizio, non mancano le boccate d’aria. La ballata Freefall valorizza nuovamente il numero 10 della band: l’ugola di Stefano dona colori e sfumature oltre al semplice pop inglese della canzone. Una vena melanconica su ritmiche spensierate, sfumature di vita vera, un fantastico goal di Roberto Baggio supportato da una Italia in forma U.S.A. 1994.
Soul Searching è il singolone, quello che personalmente stavo attendendo. Quattro accordi scontatissimi che racchiudono una di quelle canzoni che non vorresti mai partisse nell’autoradio quando entri in galleria.

In definitiva Hijack Party ci dimostrano che in Italia il pop rock esiste ed è pronto a sfondare tutte le barriere linguistiche, con carattere e rispetto reverenziale verso chi, ben più a Nord di Roma, vanta una storia invidiabile.
Nessun azzardo, nessuna pretesa eccessiva, tutto racchiuso in uno schema consolidato. Certo, il risultato è efficace e brillante ma (sperando di non toppare la fede calcistica dei quattro ragazzi) non sarebbe male vedere questa squadra guidata da un allenatore bello offensivo. Che ne dite di Zeman?

Last modified: 20 Febbraio 2022