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Finley 16/05/2014

Written by Live Report

Iniziamo la nostra copertura del Theatre Quinto Festival, una rassegna che durerà fino a giugno e che vedrà susseguirsi sul palco del locale rozzanese gli act più diversi, dai Finley ad Andrea Nardinocchi, passando per i gli Yokoano, i Nadar Solo e Dargen D’Amico. La serata inaugurale è affidata ai Finley, band che non ha bisogno di troppe presentazioni: scoperti giovanissimi da un sempre vulcanico Claudio Cecchetto, i quattro inanellano successo dopo successo, diventando il paradigma della band gggiovane che “dice” di fare Punk Rock, e diventano presto una rodatissima macchina scalda-ragazzine, passando addirittura da Sanremo. Da qualche anno i Finley hanno aperto la loro etichetta, Gruppo Randa, senza che questo abbia portato ad un cambiamento nella loro proposta musicale. C’è sempre curiosità intorno a gruppi di questo tipo, che appaiono come strane entità create negli uffici di qualche etichetta, scoprendo il fianco a critiche preconcette e a idiosincrasie astratte. Abbiamo cercato perciò di vederli con i nostri occhi, per scoprire come vivono la dimensione del live, il rapporto con il pubblico, le loro canzoni.

Quando arrivo, davanti al Theatre la fila è ancora lunga. Mi dicono che le prime ragazzine si sono presentate all’entrata intorno a mezzogiorno. Si potrebbero fare succose elucubrazioni sull’aspetto socio-psicologico di un concerto dei Finley, ma per quelle vi rimando ad un precedente report… Nel locale sta già suonando il secondo gruppo d’apertura, i Made In Italy, Pop Rock ironico che critica in maniera sottile alcuni stilemi della musica per teenager (dal finto rap di certi pezzi dance alle mostruosità stile One Direction passando, per l’appunto, anche dagli stessi Finley, di cui eseguono una cover “autorizzata” dalla band stessa…). Finito il loro set parte un breve cambio palco e poi eccoli: Ka (chitarra), Dani (batteria) e Ivan (basso, nella band da qualche anno) salgono on stage mentre in sottofondo parte… l’Inno di Mameli. (Non guardate da questa parte, non ho idea del perché. Scelta terribile, comunque).

Passato il momento patriottico, arriva Pedro (voce). Giusto il tempo di tirare una sonora botta di microfono sulla paletta del basso e il concerto parte a bomba, a grappoli di tre/quattro canzoni eseguite spalla a spalla. La prima parte del live è adrenalinica e tesa (“Gruppo Randa”, “Fuego”, “Tutto è Possibile”): i quattro pestano duro, canzoni Rock lineari e senza troppe pretese ma energiche, soprattutto nelle ritmiche, dove si distingue la bravura tecnica del batterista Dani, capace di sostenere groove rapidi e infuocati, vera spina dorsale dello spettacolo Finley. Come sempre, il rapporto con i fan è centrale: molto più che in altri casi, il concerto è letteralmente fatto per loro. Non manca nessuna canzone delle più famose (ci sarebbero disordini e sommosse), e i ringraziamenti al pubblico sono ubiqui e continui: grazie a chi arriva da lontano, grazie a chi ci segue dagli inizi, grazie a chi ci supporta e ci permette di continuare a fare musica. Il concerto prosegue caldissimo, i pezzi lenti sono veramente pochi: ci si concentra sulla velocità, sulla melodia di ritornelli cantati in coro a squarciagola (“Un’Altra Come Te”, “Adrenalina”, il richiamo al ritornello di “Dentro alla Scatola”). I pezzi sono tutti classici del loro repertorio: testi banali fatti per essere imparati a memoria e cantati a pappagallo, alcuni con prese di posizione apparentemente forti ma basate sul niente, come “La Mia Generazione”, che fa tanto effetto fiction di Rai2. Mi accorgo peraltro che alcuni momenti del live sono estremamente preparati: la presentazione in medias res de “La Mia Generazione” è la stessa identica che fecero l’anno scorso quando li vidi la prima volta, e anche l’introduzione di “I Fought the Law” dei Clash rimane uguale, come uguale rimane l’idea di far salire Roberto Broggi ad accompagnare il brano con il violino, promuovendo l’operazione benefica Punk Goes Acoustic ideata da Andrea Rock, che verso la fine del concerto verrà ospitato dalla band per qualche brano, tra cui una “Blitzkrieg Bop” abbastanza spompa. Ma prima il live fa in tempo a rallentare un po’, mentre i Finley si danno a “Ricordi”, loro brano sanremese che si porta dietro tutti i cliché del caso. La gente inizia piano piano ad uscire, il concerto si sta allungando (non credete chissà che, avranno superato a malapena l’ora, a questo punto: ma non stiamo parlando di Springsteen, stiamo parlando dei Finley).

Dopo il già citato passaggio sul palco di Andrea Rock, la band ci abbandona per qualche minuto, dando il tempo al pubblico di intonare “Diventerai una Star”, il loro pezzo più famoso. Scatta quindi l’encore, con partenza acustica e pianti tra il pubblico (giuro) per “Fumo e Cenere”, seguita a ruota dall’ultimo brano, “dedicato a chi pensa che abbiamo fatto solo questa”, ovviamente, “Diventerai una Star”, cantata da tutto il pubblico con una sola voce. Applausi, saluti, inchini. I Finley mi confermano così tutte le impressioni che già avevo avuto l’ultima volta, un anno fa: una band tecnicamente mediocre (a parte forse Dani, il batterista), sicuramente professionale e capace di gestire in modo sufficiente un palco e una platea di questo tipo, dando al pubblico tutto ciò che vuole e facendo più spettacolo che musica. Le loro canzoni sono banali, vuote di senso, niente più che materia vendibile, e infatti funzionano benissimo nelle pubblicità, a Sanremo, e con le ragazzine (ma non solo: si segnalano anche quarantenni ballerine e più-che-ventenni ubriache e scatenatissime, oltre a parecchi individui di sesso maschile, anch’essi esaltati). È musica da vendere fatta da un gruppo costantemente in vendita, e che, purtroppo, la gente non smette di comprare. Una volta accettato questo, il live assume le caratteristiche di un evento eseguito con professionalità e mestiere. Ma la passione e l’arte stanno tutte da un’altra parte.

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Le Formiche – Figli di Nessuno

Written by Recensioni

Un disco Rock è sempre un disco Rock. Poi se una band si chiama Le Formiche il misticismo della parola Rock assume significati indefiniti. O meglio, Le Formiche suona come un nome indiscutibilmente anti trendy per una band attuale, a qualcuno potrebbe anche fare schifo ma per me è amore a prima vista. Poi leggo il comunicato stampa e scopro il segreto di questo nome, il cantante e presumo leader della band si chiama Giuseppe LaFormica. Noooo!!!!! Non è una (re)invenzione “originale” come pensavo! Sai quei gruppi italiani anni sessanta tipo I Camaleonti, I Corvi, I Dik Dik, I Delfini etc. Ok Le Formiche mi facevano pensare a questo. Il loro primo disco ufficiale esce sotto etichetta 800A Records e prende il nome di Figli di Nessuno. Le Formiche mettono da subito in evidenza l’abilità nel raccontare in musica i fatti e le storie dei quartieri difficili della loro città d’origine Palermo, dalle rapine alla vita in prigione passando per storie d’amore e voglia di riscatto. Un disco impegnato. Il vero Rock deve essere impegnato o quantomeno dovrebbe aprire gli occhi.

Figli di Nessuno si apre con “Non ho un Lavoro”, titolo perfettamente legato all’attuale situazione lavorativa nel Bel Paese. Rock classico dalle influenze Blues, niente di italiano a parte la voce da cantautore tipico tricolore. Infatti leggo che il mastering è stato affidato a JD Foster dei Montrose Studio di Richmond. Dicevo io, quindi non c’entrano niente con i Dik Dik, il sound è tutto american old style. Molto Country la succesiva “Storie da Prigione” pezzo simbolo della loro attività live nelle carceri, molto cantautorato alla Edoardo Bennato. Viene voglia di ballare sebbene il testo non lo consentirebbe. Figli di Nessuno scorre liscio senza intoppi nelle successive canzoni “Fortuna” e “Le Bombe”, sentori USA sempre in prima linea. Stranamente sento poco il contagio di Springsteen e questo per qualche anomala ragione mi rende sereno, un disco di Rock americano che non subisce le attitudini del Boss è roba da non credere. Però a pensarci bene qualcosina springsteeniana si sente in “Sam Cardinella”, testo scritto sopra una vera storia di un condannato a morte. Le Formiche capiscono bene la loro condizione di rockers fuori sede proponendo musica leggera e orecchiabile, consapevoli della semplicità del loro prodotto buttano nel disco pezzi satellite come “Mio Fratello”, “Occhio per Occhio” e “La Tristizza” (in dialetto). “Figli di Nessuno” il brano che chiude l’omonimo disco appare come una ballata intramontabile dalle atmosfere cupe, una chiusura poco allegra ma molto intima. Le Formiche dopo due precedenti demo arrivano alla maturità artistica con il petto pieno d’orgoglio, la passione per la musica non conosce generi, il loro album sicuramente fuori dal tempo è il manifesto di una generazione legata al passato che non accetta il futuro. Figli di Nessuno accontenterà quella fetta di persone nostalgiche amanti del Rock Made in USA. Chi dice che il Rock è morto?

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I Nastri – I Nastri

Written by Recensioni

Luogo d’ascolto: ai fornelli, as usual.

Umore: di uno che vorrebbe esser tornato da un viaggio in Indocina per capire quanto è prezioso quello che sta cucinando.

Nel comunicato stampa I Nastri ci dicono di aver un’impostazione Elettropop alla Bluvertigo o Subsonica. Ed infatti una certa tendenza ad atmosfere rarefatte in cui le chitarre siano poco incidenti c’è tutta. In “Love Love Love” la metrica serrata della linea melodica, delle parole e un certo sapore di Prog tutto cambi di tempo e organi spinti fanno pensare ai Bluvertigo di “Acidi e basi”. I Subsonica invece proprio non li ho sentiti, troppo diversa l’impostazione rispetto alla Dub House di Samuel e soci. I Nastri esordiscono con un disco molto corposo, di quattordici pezzi. Esordio ambizioso davvero che presuppone la sicurezza che tutti i pezzi siano degni di entrare in un album. Vi dirò, ho pensato che avessero ben riposto questa sicurezza: buone trovate armoniche, voce particolare ma non sgraziata, ottimi suoni e temi di synth e piano, arrangiamento nel complesso molto curato e non troppo easy per essere pop; tutto buono, almeno fino al quarto pezzo “Niente è Importante” o come l’ho subito ribattezzato “Se mi fai un altra rima baciata rimetto”.

Cito testualmente in modo da attenermi ai fatti: “spara a chi non sarò mai, ci crederai, perfetta complice, spara a chi non sarò mai, non mi tradirai, ma dai; sparo a chi non sarò mai, non mi vedrai, continuo a fingere, sparo a chi non sarò mai, tanto già lo sai; non fare rumore, niente è importante… ” e via proseguendo fino alla fine del pezzo. Dopo tale virtuosismo in rima mi sollevo sulla sedia e comincio ad ascoltare gli altri testi. Purtroppo, scoprendo la tracklist, mi rendo conto che il gigantesco disco d’esordio de I Nastri è nient’altro che un buon Ep. Troppi quattordici pezzi per un disco,sarebbe troppo anche per Springsteen. Troppi i brani che manifestano un ego ipertrofico rispetto alla qualità di almeno metà di questi. Troppa pochezza testuale ed esercizio di rime, poggiata su un impianto musicale gradevole che però nel complesso suona un pelino patinato. Le parole spesso sembrano buttate a caso solo per far suonare bene la melodia, senza o con poca ricerca lessicale; per intenderci, come si fa nelle voci guida in pre produzione, registrate in un finto inglese solo per dare l’idea del testo ancora da scrivere, quei provini in cui i versi finiscono sempre con why, faraway o say.

Lo so, direte voi Nastri: ogni pezzo mica deve essere un canto della Divina Commedia e le hit anglosassoni tradotte dall’inglese non sempre sono capolavori testuali. Avete ragione. Absolutely. Ma in Inghilterra quando devono cucinare il loro piatto nazionale aprono un barattolo di pelati e ci si mettono intorno con dei piatti e dopo esser andati di corpo non si puliscono il muscolo detrusore dell’ano (ndr leggi culo). Io invece sono ben fiero di cucinarmi,mentre ascolto il vostro disco, una bella amatriciana e poi di potermi fare un meritato bidet. Comunque dai, vi aspetto ai fornelli per il secondo disco.

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Terje Nordgarden – Dieci

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Terje Nordgarden viene dalla Norvegia ma vive e suona in Italia da ormai parecchi anni. Innamorato del Folk e del Blues americani, di Dylan, Springsteen, Drake, Elliott Smith, si è integrato nella fertile scena indipendente italiana e con questo suo ultimo Dieci rende omaggio alla sua famiglia adottiva reinterpretando e riarrangiando, per l’appunto, dieci brani di artisti nostrani (Cristina Donà, Paolo Benvegnù, Marta Sui Tubi, Marco Parente, Iacampo, Cesare Basile… ma anche Claudio Rocchi e Grazia di Michele).

Il risultato è un disco lunare e dolcissimo, rarefatto ma intenso allo stesso tempo. Chitarre dalle distorsioni calde, arpeggi cristallini, ritmiche lineari e soundscape vibranti e infeltriti, un maglione Folk/Blues elettrico in cui raggomitolarsi: sopra tutto questo, una voce morbida, che fa sue canzoni altrui con naturalezza. L’accento straniero di Nordgarden aggiunge anche un taglio retrò all’operazione: ci porta alla mente gli anni 60, il Beat, gli inglesi che venivano in Italia a cantare (in italiano) canzoni (italiane). I brani, cover di artisti (chi più chi meno) affermati ma quasi tutti provenienti dalla scena indipendente, sono canzoni belle ma non famosissime, e questo contribuisce a rendere questo disco di cover un prodotto molto particolare e sui generis.

Alcune canzoni sono particolarmente riuscite (“Non È la California”, “Invisibile”, “Cerchi sull’Acqua”), altre un po’ meno (“La Realtà Non Esiste”), ma Dieci rimane un disco assai godibile e Terje Nordgarden un artista da tenere d’occhio.

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Nordgarden: quasi pronto il nuovo album “Dieci”

Written by Senza categoria

L’amore per l’Italia da parte di musicisti norvegesi ha origini lontane e risale ad almeno a un decennio fa. Era difatti il 2003 quando Terje Nordgarden, da Hamar, approdò in quel di Bologna forte della sua chitarra e di una passione viscerale per Springsteen, Dylan, Nick Drake, Elliot Smith e tutto quanto ha fatto grande il songwriting in lingua inglese nel secolo scorso. Oggi Nordgarden festeggia i dieci anni in Italia con Dieci, che raccoglie dieci riletture di brani in italiano scritti da artisti che con lui hanno condiviso la strada o semplicemente canzoni tanto intense da meritare ancor più visibilità di quella che fino ad oggi hanno avuto. Il tutto arrangiato secondo le traiettorie sonore che in un decennio hanno contraddistinto il viaggio musicale di Nordgarden, tra folk, rock, jazz, senza dimenticare un’indole pop nobile ma verace, da autentico crooner di strada, che proprio in un lavoro come questo emerge in tutta la sua forza emotiva.

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Fabio Biale – L’Insostenibile Essenza Della Leggera

Written by Recensioni

Ascolto: di corsa sulla spiaggia. Località: Barceloneta. Umore: come di chi volesse scoprire un altro continente a piedi.

Che voce che ha questo Fabio Biale. Non si può non esclamarlo dopo l’ascolto del suo primo disco. Opera prima molto  buona con alcuni bagliori di eccellenza sparsi qua e là come fiori tra una mattonella e l’altra del pavimento del giardino. Musicisti davvero capaci, arrangiamenti mai banali e archi utilizzati in modalità molto innovativa. Certo, avrei evitato la traduzione di “Psycho Killer” dei Talking Heads, le traduzioni ti catapultano nell’imbarazzo di ricordare che molti testi culto anglosassoni non significano quasi un cazzo ma linguisticamente suonano da Dio. Ti fanno pensare che se De Andrè fosse, che so, di Buffalo pisciava in testa pure a Dylan. Un po’ di indulgenza sulle facili rime e qualche verso davvero azzeccato come “terzo: una richiesta blues ma senza assolo, che se riesco lo suono io mentre volo“. Indomabilmente schizofrenico, questo lavoro ha proprio nell’eccessiva distanza tra i terreni toccati il suo limite. Fabio Biale sembra Fred Buscaglione in  “Al Mio Funerale”, tentativo rauco, ironico e ben riuscito, di immaginare il suo su un tappeto tzigano alla Django Reinhart; sembra Sergio Caputo in altri episodi più attinenti allo Swing da fiati; sembra  i Beatles di “I’m The Walrus” in “Il Fiore Non Colto”, sembra Marco Conidi in “Canzone d’Amor  Per un Nonno Addormentato” (il quale somiglia al Liga, il quale come e’ noto somiglia a Springsteen con la colite), sembra Neil Young nel meraviglioso e commovente quasi recitato “D.C “. Ecco,  l’unico limite di questo lavoro è che Fabio Biale somiglia non ancora abbastanza a Fabio Biale. Ma abbiamo tutta la pazienza di aspettarlo.

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Come costruire una Hit di successo, o almeno così dicono.

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Diciamolo, gli approcci all’arte in genere sono molteplici e ognuno ha il suo singolare modo di esprimerli. Nella caso particolare della musica, per l’esattezza Pop e Rock, gli approcci possono essere i più disparati. Andiamo dai cupi frequentatori di scantinati, ai megalomani eccentrici, ai punkettoni improvvisati, dagli esibizionisti della tecnica, ai melanconici del sentimento. Chi più ne ha più ne metta. Quello che conta è il talento! Dovrebbe ed in parte è così. Quello che fa un pezzo memorabile non è facile a dirsi, il successo sembra a volte arrivare così per caso. A fronte di un buon lavoro ovviamente ma è difficile avere delle regole ben precise per un successo assicurato. Tutti voi sareste pronti a scommettere che non esiste una ricetta per un successo sicuro. Bene, preparatevi a ricredervi perché sto per raccontarvi una storia che vi svelerà come vengono composte le hit mondiali e cos’è un hooky, un gancio con il quale rapire l’ascoltatore.

La storia delle composizioni Pop Rock moderne si intreccia con quelle logiche più perverse del business e del marketing, cioè fare più soldi possibili. In un mercato mondiale delle vendite in picchiata libera da quando c’è il web 2.0 e che nel 2011 valeva 10,2 miliardi di dollari a fronte degli oltre 25 del 1999, i dati parlano da soli. Oggi la maggior parte delle canzoni Pop trasmesse dalle radio di grandi successi sono frutto della collaborazione tra produttori che compongono le progressioni degli accordi, programmano ritmi e arrangiano suoni e topliner che creano, come suggerisce il termine, gli elementi delle canzoni più in evidenza: contesti melodici, i testi e gli importantissimi hook, i ganci, le frasi musicali che ti rimbombano nella testa anche a distanza di ore da quando si è ascoltato il brano. Oggi le major per accaparrarsi un mercato sempre più in frantumazione nelle canzoni più commerciali di ganci ne mettono a più non posso perché “l’ascoltatore medio di radio commerciali” impiega sette secondi in media per decidere se cambiare stazione o no e in quell’arco di tempo va “agganciato”. Dietro una fetta spropositata di hit musicali c’è un gruppo relativamente stretto di produttori e topliner. Di solito i produttori come Stargate Production compongono ogni anno una ottantina di brani demo per venti topliner e solo una ventina di questi diventeranno un successo. Nell’estate del 2009 sia Beyoncé sia Kelly Clarkson, rispettivamente con Halo e Alredy Gone, sono entrate in classifica con canzoni create dalla stessa base. Quando se ne sono accorte era troppo tardi per ritirare l’uscita del pezzo della Clarkson, ma nessuno ci fece caso e Alredy Gone diventò ugualmente una Hit. Quando ho appreso quest’ultima notizia sono rimasto a bocca aperta anch’io, se non ci credete ascoltate i video qui sotto!!!

Dopo aver capito quanto lavoro c’è dietro un singolo di successo la domanda da porsi è molto semplice: Com’è possibile che il Rock Mainstream che un tempo era capace di proporre ganci incredibili come nell’istante prima del ritornello di Born to Run di Springsteen a diventare così poco creativo e prevedibile mentre il Pop che da sempre è l’essenza dall’artefatto sia oggi più vivo che mai? Io penso che oggi il Rock sia ancora espressione di gente viva che suona insieme per passione alla ricerca di un modo di evadere se così si può dire o di esprimersi. Mentre la musica delle Pop Star oggi è quasi sempre un prodotto digitale sfornato da un PC dove i software di Auto Tune provvedono a correggere le stonature, gli errori non esistono e la composizione è lasciata a produttori e topliner che sono professionisti che passano il loro tempo a cercare accordi e melodie perfette. Il caso di Rihanna è emblematico, nella sua musica prevale la quantità alla qualità e il fascino ha la buona sul valore della canzone. Non c’è partita Il Rocke il Pop viaggiano a due velocità diverse dettate dalle linee di business dove quello che conta è come riesci ad agganciare l’ascoltatore e ficcargli nel cervello la tua canzone. Impresa facile per Rihanna & co che dietro hanno un core business che gli permette di radunare i migliori produttori e topliner al mondo per farsi produrre i loro successi organizzando addirittura convention internazionali per il caso, per tutti gli altri, e parlo ai Rockers che con passione e pochi spicci si chiudono in cantina per sfuggire alla noia e seguire le proprie passioni, per tutti gli altri non rimane che mettersi sotto e curare il più possibile il proprio lavoro cercando di mettere in campo le proprie energie e seguire queste cinque semplici regole che Paul Simon ci racconta nel suo libro “You Can Call Me Al”:

  1. Un gancio (hook) deve essere memorabile. Se non si ricorda molto tempo dopo aver ascoltato la canzone non è un gancio;
  2. Il modo più semplice è inserire i ganci nei cori utilizzando il titolo del brano;
  3. Le canzoni che iniziano con un gancio al quale il resto della canzone viene aggiunto corrono il rischio di essere cattive canzoni con un gancio. Se si sviluppa un gancio accattivante non trascurate l’importanza di un verso forte e una melodia con chorus e un buon testo;
  4. I ganci possono essere usati in combinazione. Alcune canzoni integrano molti ganci: nel coro, drum lick che continuano a ripetersi e così via. Le canzoni Pop di successo tendono ad avere molti hook utilizzati. Tenete presente che se anche queste canzoni ottengono un effetto immediato di pubblico generalmente non ottengono nel tempo la stessa risposta di viaggi più musicali e introspettivi;
  5. L’aggiunta di un gancio può salvare una canzone che avete creato. Ecco come: se la vostra canzone suona bene ma proprio non sta ottenendo l’attenzione da parte del pubblico desiderata provate a creare una intro con hooky che richiami l’attenzione. Tale intro dovrebbe usare un ritmo accattivante e/o la forma melodica che può essere derivata dalla melodia principale o anche dal ritornello. Quindi utilizzare l’intro per connettere la fine del ritornello al verso successivo.

Bene signori auguro a tutti un bel gancio da realizzare e una buona serata.

FONTI:

The Essential Secrets of Songwriting

Soundonsound

Rym’s page of Kid Id

VIDEO (canzone con stesso motivo):

Beyoncé

Kelly Clarkson

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Max Navarro – Hard Times

Written by Recensioni

Il quarto lavoro di Max Navarro, rocker friulano di origini canadesi, arriva dopo tre anni di silenzio, tre anni molto difficili sul piano personale, come dice l’artista stesso in diverse interviste rilasciate nei mesi scorsi. Tre anni che gli hanno comunque consentito, anche grazie al supporto del nuovo produttore (e bassista) Nick Mayer e alla fiducia della sua ormai consueta etichetta, la Cherry Lips Records, di scrivere le nuove canzoni contenute in questo Hard times, tempi duri, appunto.
Il disco si apre con un suono di carillon e per alcuni secondi si ha la sensazione di essere in procinto di ascoltare un album di musica da ambiente o uno di quei lavori da “cantautore sperimentale”. La sensazione svanisce immediatamente però quando arriva la chitarra di John Paul Bellucci, quasi immediatamente accompagnata dal rullante “flamato” di Alex Parpinel. E’ subito rock, un rock che sembra venire da oltreoceano, dal continente del quale Max è appunto originario. Quando la voce di Navarro irrompe nel pezzo si consolida la certezza che del suo illustre concittadino Bryan Adams (Max è originario di Vancouver B.C.), Navarro ne abbia ascoltato davvero tanto. La voce di Max è sabbiosa, graffiante, decisamente rock, nel senso più romantico del termine. Non c’è più nessun dubbio sul genere e sulle intenzioni dell’artista: già dal primo minuto di ascolto si capisce che si è di fronte ad un disco che non pretende di essere innovativo e non vuole in nessun modo nascondere la vera natura di Navarro, alla faccia di chi dice che il rock degli anni’80 è morto e che c’è bisogno di qualcosa di nuovo per attirare l’attenzione del pubblico. A questo punto occorre senza dubbio alzare il volume e proseguire nell’ascolto, magari con una birra ghiacciata in mano.
La traccia 2, “Out of bounds”, conferma la mia prima impressione sulle chitarre di John: gli arrangiamenti sono al tempo stesso classici e originali. Il chitarrista della band di Max Navarro osa con suoni e parti di chitarra “coraggiosi” ma non tradisce le aspettative del sano american rock. E le melodie vocali continuano, sul ritmo pesante di basso (a cura del bravo Nick Mayer) e batteria, ad essere orecchiabilissime e godibilissime, come il genere pretende.
Dobbiamo attendere la terza traccia di Hard times per ascoltare la prima ballad del disco. Ascoltandola non si può fare a meno di notare la melodia e il songwriting tipicamente Springsteen-style. Vedo, visitando la pagina facebook dell’artista, che il Boss appare nelle influenze dichiarate da Max stesso. Lo sferragliante suono delle chitarre acustiche e la melodia sognante della voce, accompagnate da un impeccabile e mai invadente arrangiamento di basso e batteria, fanno di “the Wrong side” (traccia 3 appunto) un’apprezzabilissima ballata che richiama strade infinite e polverose del nuovo continente.
Il disco scivola via, passa dalla veloce “Nothing’s guaranteed”, brano senza infamia nè lode, con un ritornello molto cantabile e facile da ricordare, per arrivare a “Cryin’ ” brano che è stato il primo singolo tratto dal disco. “Cryn’ ” è potente ed evocativa, richiama un terzo ispiratore della musica di Max Navarro, l’americanissimo Jon Bon Jovi, del quale a Max però mancano diversi punti in termini di vocalità.
Il sesto brano è “Winter in Chicago” che si apre con le bellissime chitarre acustiche di John Paul Bellucci: l’atmosfera qui è veramente avvolgente e personalmente preferisco questa seconda ballad alla prima.
Il rock non è finito e lasciate alle spalle le due ballate possiamo metterci alla guida della nostra cabrio, con il sole in zona tramonto di fronte a noi, ascoltando “Beyond the silence”. Continuiamo a guidare e, prima che la notte ci raggiunga, riusciamo ad ascoltare anche “Poison girl” e “End of the universe”, tracce 8 e 9 che chiudono il lavoro di Max Navarro.
Concludo la mia recensione con alcune piccole critiche puramente di natura tecnica: il bellissimo timbro vocale di Navarro non è accompagnato purtroppo da una vocalità altrettanto sorprendente, sia dal punto di vista della precisione dell’intonazione, sia per agilità ed estensione. Anche la pronuncia, nonostante le origini nordamericane del rocker, non è a mio avviso all’altezza di altre produzioni “madre lingua”. Questi, intendiamoci, non sono assolutamente motivi validi per non apprezzare l’album, soprattutto per chi non cerca altro che un po’ di sano, genuino e ben fatto rock.
Hard times non mi è piaciuto al primo ascolto, forse proprio perché, essendo anch’io musicista e cantante, mi sono lasciato prendere da valutazioni molto tecniche. Ora però non escludo di riascoltarlo in futuro, quando avrò voglia di rock. Ho capito da subito a cosa ero di fronte e questo è molto importante. Max Navarro non tradisce le aspettative, ha le idee molto chiare ed è musicalmente, sinceramente sè stesso.
Chi ha voglia di rock e non ha necessariamente voglia di innovazione godrà del disco e non ne rimarrà deluso. Consiglio invece caldamente di evitare l’acquisto dell’album a chi è in cerca di nuove sonorità.

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