Simona Ventrella Tag Archive

The Wave Pictures – City Forgiveness

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Spero che in vita vi sia capitato di vedere quel gran bel film di Alan Ball intitolato American Beauty; se lo avete visto vi sarà facile ricordare lo sguardo nella scena finale del protagonista Kevin Spacey. Avete visualizzato? Ecco, quella è la mia stessa espressione dopo aver ascoltato per novanta minuti il nuovo, doppio album, dei The Wave Pictures. Il gruppo e nella fattispecie il leader David Tattersall si contraddistingue per essere decisamente prolifico in quanto a canzoni prodotte; pensiamo che dal 2004 a oggi, ogni anno ha visto l’uscita di un loro album. Volendo fare i calcoli si perde facilmente il conto e se dovessi fare un paragone di basso respiro, neanche la pizzeria sotto casa, in serata Champion’s, sarebbe in grado di reggere il ritmo. Ma procediamo con calma; come sono arrivata alla morte celebrale dopo novanta minuti di Indie Rock britannico fino al midollo? Ho provato a trovare una risposta che non fosse qualcosa del tipo “signorina lei è troppo stressata”, o “non si ascoltano i dischi dal computer”. Purtroppo la maledetta verità e che David e soci ripetono per venti brani il medesimo schema, basso, chitarra, batteria all’interno di un territorio estremamente definito, sul quale innestano in maniera alternata varianti che toccano il Blues “Chestnut”, il Rock anni 70 “Better to Be Loved”, con un giro ispirato senza dubbio da “Have You Evern  See The Rain”,  e anche un po’ di Calypso “WhiskY Bay”.

Tra la miscellanea di schemi e varianti sul tema che nemmeno Queneau pensava possibili quando scrisse “Esercizi di Stile”, non tutto è da rifilare nel cassetto dell’oblio; ci sono pezzi toccanti e godibili come la ballata struggente “The Yellow Roses” e pezzi in cui il ritmo diventa trainante e il sound si fa nuovo come in “Shell” e “Narrow e Lane”, anche se quest’ultima viene sporcata dal solito assolone tanto caro al gruppo. L’impressione generale che emerge dall’ascolto è quella di un’urgenza espressiva da parte del leader, che però si concretizza in tante canzoni buttate lì, nel mucchio. La scelta di farsi guidare dall’impeto della scrittura piuttosto che da un desiderio di qualità fa si che testualmente ci sia un buon margine per liriche argute e ironiche che però cede il passo sul piano dell’innovazione  e della ricerca musicale, nel quale si vedono solo timidi spiragli.

Nel complesso ogni brano assomiglia sempre a qualcosa di già ascoltato e spesso portato alla ribalta da qualcun altro; un esempio fra tutti sono i brani “ The Ropes” e “All My Friends” rispettivamente e marcatamente simili ai Talking Heads la prima, e ai Dire Straits la seconda. L’impeto, il guizzo, il genio compositore sono tutte cose necessarie per un musicista, senza le quali forse, sarebbe solamente un ripetitore automatico privo d’anima. D’altro canto, questo fuoco vitale dovrebbe essere rivolto verso il dettaglio, la ricerca, la sperimentazione.  In due parole, un artista dovrebbe dare in pasto ai propri fan il meglio, non il tutto. City Forgiveness non lo fa, non si sposta di un millimetro dal solco tracciato dal 2004 e tutta la laboriosa attività del gruppo svanisce nel mare magnun delle loro stesse venti tracce. Se si fosse fatta una selezione a monte tra queste avremmo avuto un disco interessante di cui parlare.

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Il Paese che Brucia – Alta Marea

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C’era una volta in una pease lontano. Probabilmente questa recensione dovrebbe incominciare con questo incipit, ma la verità è che la storia de Il Paese che Brucia e del loro EP Alta Marea, non è una favola a lieto fine. Incomincio chiedendo venia al gruppo per aver lasciato il link del loro EP per un po’ di tempo in disparte e indiscriminatamente in coda rispetto a tutte le altre attività giornaliere, ma mai mi sarei aspettata di dover fare una recensione postuma. Il gruppo, infatti, con un laconico post su Facebook, colorito da una pallida metafora fiammeggiate ha annunciato, circa un mese fa, lo scioglimento. Ora la cosa più sensata sarebbe stato non fare la recensione, ma non mi sarei mai persa l’opportunità di scrivere il mio primo “necrologio”musicale.  Che sia ben chiaro, nonostante la tragedia non è ammesso nessun tipo di buonismo all’italiana per i giovanotti avellinesi.

Le cinque tracce che compongono l’EP, infatti, ci mostrano diverse aspetti del gruppo. Dal punto di vista contenutistico il quartetto non si tira indietro e affronta temi impegnati, a volte profondi, senza dubbio con una buona dose di critica alla società moderna e ai suoi malcostumi,come nell’apripista “Vita Elegante”. L’energia non manca e in tutte le tracce si nota una decisa impostazione musicale che predilige la sezione ritmica basso e batteria.  Diciotto minuti di alti e bassi, la stessa sopracitata “Vita Elegante”presenta un inizio e riff interessanti, per poi scivolare alla fine sulla buccia di banana di un confusionario Cross Over che invece di accentuarne il carattere fa perdere punti. “Circe”, pezzo di chiusura segue lo stesso cammino, inizio da ballad intensa, chitarra e voce tirata, finale in crescendo di ritmo ed intensità, se non fosse per un intermezzo, trenta  secondi di baratro, fatti da una batteria prepotente che spezza l’evoluzione emotiva del pezzo. “Il Sogno di Joro” e “Sono Fuori”  filano dritti senza troppi intoppi, sono decisamente brani figli del sound, e del corposo segno, tracciato nel panorama italiano dai Ministri. Alta Marea in questo caso è un titolo abbastanza rappresentativo per questo EP, anche se non vuol dire che Il Paese che Brucia fosse un gruppo di cui desiderare la morte, anzi probabilmente loro sono la perfetta rappresentazione, lo spaccato ideale della realtà di molti gruppi emergenti. Essere una band che non si limiti a diffondere la propria musica nel garage sotto casa è una sfida enorme, una vero scontro fra titani. Impegno, determinazione,  passione sono solo i punti di partenza, le stesse capacità musicali e di songwriting, spesso rappresentano la base,sono dati per scontato e  rappresentano un sicuro lasciapassare per il paradiso dei musicisti. Ci vuole un progetto, degli obiettivi, capacità di relazionarsi e qualche piccola dose di doti manageriali. Sembra brutto dirlo, ma la verità è che una band, è come una piccola impresa che deve crescere grazie alla sforzo colletivo di tutti, i rematori solitari e i Don Chisciotte de no altri hanno vita breve. Questo non significa rinunciare alla propria indipendenza e doversi necessariamente piegare a logiche commerciali o mainstream. In fondo per essere professionisti e vivere della prorpria musica devi trovare un tuo pubblico che ti apprezzi, che sia disposto a venire ai tuoi concerti e a pagare per i tuoi live.

La strada è irta, piena di insidie  tanti dolori e poche gioie. Forse i nostri avellinesi, antieroi della loro stessa storia, nonostante gli sforzi, non hanno avuto il giusto approccio, o semplicemente le loro strade personali si sono separate e gli interessi diversificati. Non facciamogliene una colpa, a volte è meglio interrompere ciò che non cresce, iniziare un nuovo progetto ed evitare di rimanere a vita nel limbo del garage. D’altrondela loro dicharazione d’intentire citava incautamente cosi: “Gruppo avellinese nato nel tardo 2011 da una casuale aggregazione di pessimi individui”.  Preveggenza inconsapevole, non lo sapremo mai. Sicuramente, come dal manuale della storia perfetta, possiamo trarre, un’amara e quanto mai attuale  morale, tra l’altro titolo di un libro che consiglio: “ Uno su Mille ce la Fa”.

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Mr Boonekamp – Turn Off Fake Reality

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Il Veneto è da sempre una regione incubatrice per band emergenti e non, che abbracciano i suoni del Grunge e del Punk. Oggi è la volta dei Mr Boonekamp, quartetto di giovanotti veneziani che dopo alcune vicissitudini, periodi bui e cambio di formazione, si presentano, orami già da qualche mese, con un secondo album dal titolo Turn Off Fake Reality. Scorrendo velocemente tra le dieci tracce si percepisce subito una forte influenza proveniente della cultura cinematografica horror degli anni 80, tanto che molti dei personaggi descritti potrebbero benissimo essere grotteschi protagonisti di qualche serie splatter un po’ datata, scampati a qualche epidemia apocalittica “Splatters”, in preda a manie da stalker “Jeremy The Stalker”o rincorsi da mostri plasticosi “Tremors”.

Musicalmente il background dei veneziani è,anche in questo caso,marcatamente old school, con un sound figlio legittimo delle sonorità Grunge dei Nirvana e dei Soudgarden, a tratti però decisamente più violento e rumoroso. L’energià e l’impatto rappresentano i cardini del gruppo  e pervadono tutti i brani, non c’è spazio per sentimentalismi e fughe romantiche per campi bagnati dalla rugiada, tutto è duro, incazzato, sballato quanto basta. Non mancano poi pezzi  come “Problem” e “A Culple of Bitches” definibili come ibridi Rock, che fanno dell’accelerazione e della velocità del Punk il loro fulcro. Vocalmente sono nuovamente i Nirvana icreditori assoluti del gruppo, e Francesco,voce e chitarra, si avvicina molto col suo cantato a quella pasta vocale un po’malata e ubriaca che cotraddistingueva  Kobain. Turn Off Fake Reality è a conti fatti un disco che pesca dal passato, in quel  calderone dell’underground sudicio e sporco degli anni 80,  adatto ai maleodoranti locali, spesso malfrequentati di una periferia metropolitana.  A tratti ironico e grottesco e a tratti eccessivamente autoreferenziale “Boonekamp World”, sulla carta ha molti numeri, ma in fondo non colpisce e spicca per grandi novità. Decisamente adatto a chi sulla propria cartà d’identità, alla voce occupazione, preferirebbe mettere pogatore selvaggio e molesto ad attento e sodfisticato ascoltatore musicale.

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Ångström – Ångström

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La forma canzone è probabilmente una delle più meravigliose e poliedriche modalità espressive che il genere umano sia riuscito a produrre. Siamo abituati quotidianamente ad approcciarci a questa forma spesso ben definita e strutturata in parti riconoscibili. Facile districarsi tra strofa, ritornello,strofa, poi ti passa sotto le orecchie l’EP di una band particolare fin dal nome e sei costretto a uscire e rinnegare l’amato schema. Gli Ångström con il loro EP omonimo letteralmente si tirano fuori da qualsiasi logica mainstrean, per realizzare quattro tracce che spazzano via regole e sistemi facendosi portavoce di un approccio creativo e di scrittura privo di sistematicità, che si lascia trascinare da suggestioni, immagini, emozioni, storie reali e irreali, e molto altro.

La prima traccia “Godard” ci proietta in un tempo indefinito, in uno spazio stellare di una galassia lontana, un tempo immobile, freddo, nella quala risuona una voce robotica e artificiale che si sovrappone a  un delicato sussurro che proviene dal lontano 1967 e precisamente dal lungometraggio “2 ou 3 choses que je sais d’elle” di Jean-Luc Godard, uno degli esponenti più importanti della Nouvelle Vague.“The Third World Is You” scalda l’atmosfera gelida e la solitudine di “Godard”, per sei minuti circa, con chiarre dagli infiti delay e ritmi più affini al calore e ai suoni del mediterraneo.Il terzo brano “Scalar” schiaccia il piede sull’acceleratore riportandoci a terra in una nottemetropolitana,tra melodica e movimento, dal sapore retròfatta di inseguimenti e rincorse per colcudersi, forse, con un alba, un caffè. E una sigaretta arrotolata.

“You And I For Hundred Miles” è l’ultima ed unica traccia con un cantato più presente, che più si avvicina ad una canzone tradizionale o che fa pensare di esserlo. Proprio nel momento in cui ci si apetta un ritornello, infatti, si viene travolti non dalle parole,ma dalle note di un saxsofono. Romantica, appassionata, cullata dalle chitarre acustiche, questo brano ci lascia un’intensa storia d’amore che dura il tempo di 100 miglia. Per gli Ångström, che prendono il nome da un fisico svedese, tra i padri della spettoscropia, gli anni a cavallo tra i 60 e i 70, e il fermento che li hanno rappresentati, sono senza dubbiio una grande fonte di ispirazione. In linea con lo stile in cui si muovono propongono un’esperienza musicale composta perlopiù da brani strumentali con sporadici momenti di cantato. La scelta è coraggiosa in quanto diventa meno accessibile ad un pubblico più vasto, ma apprezzabile per l’approccio personale e moderno. Un buon risutato, interessante e suggestivo, e decisamentefuori dal coro.

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Teresa Mascianà – Shine

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Vivere a Milano comporta il dover convivere frequentemente con vedute nebbiose e giornate uggiose, tanto da maledire parecchi santi in paradiso e desiderare di emigrare verso sud. Teresa Mascianà invece a sud ci è nata e nella sua musica questo tratto è decisamente marcato e persistente. Il suo nuovo lavoro si chiama infatti Shine e racchiude nelle nove tracce, che lo compongono, tutta la luce e solarità della giovane cantautrice calabrese. Come la sua terra brulla e aspra e al contempo paradiso dalle acque cristalline quest’album offre sul piano musicale diversi pezzi interessanti e piacevoli come l’apripista “Have a Good Time”, molto happy Rock and Roll da giornata spensierata al mare, o il brano di chiusura “Carry me on” decisamente più intimistico e intenso nei suoni e vicino a tematiche più complesse come il suicidio. Alba e tramonto tutti in un disco con mezzo di tutto un po’, dallo scioglilingua eritreo direttamente da Asmara di “Gundo Senado” alla ballata Contry Pop “Melissa Knows”, che fa il verso agli esordi della giovanissima Taylor Swift, al brio frizzante della cassa che dona leggeri tocchi elettropop a “Away”. Se musicalmente Teresa e la band, che la segue fin dai suoi esordi i Donatori d’Organo, riescono a essere convincenti creando melodie orecchiabili, vivaci e accattivanti, ricche d’influenze molteplici dal Rock californiano alle sonorità africane, passando per il pop anglosassone, la parte testuale e vocale non fanno alttrettando un buon lavoro. Le nove tracce dell’album sono per il 90% cantate in inglese, ad eccezione del brano “Non Ci Penso Più”, e se non ci fosse stato questo brano probabilmente non mi sarei mai accorta della bella voce di Teresa, che nella translazione da italiano a inglese perde molto della sua corposità per risultare meno potente, a tratti stridente e nel complesso meno emozionante. Questa modalità di canto molto moderna nel gusto si perdono molte sfumature, che nel mondo del cantuatorato spesso fanno la differenza. Comprendo che l’inglese sia metricamente e musicalmente bello, comprensibile a un vasto pubblico, ma forse non è sempre la scelta ideale. Rimanendo sull’argomento “lingua” trovo che anche i testi vengano penalizzati dall’inglese in quanto non riescono a creare forti immagini e suggestioni, ma questa potrebbe anche essere semplicemente una scelta stilistica ed espressiva che predilige la semplicità e l’essenziale. La differenza tra un cantautore e cantastorie a mio avviso sta tutto nel peso delle parole semplici o complesse che siano. Il lavoro di Teresa è fresco, vivace ricco di spunti per tutta la parte musicale, ma un po’ zoppicante sui contenuti e sulle storie che raccontate, che non creano empatia e struggono l’animo. Un disco di mezzo che convince a metà, una buona capacità di scrittura musicale che ha bisogno di essere sostenuta da un migliore songwriting.

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Capital Cities – In a Tidal Wave of Mistery

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Immaginatevi una Los Angeles assolata in un caldo pomeriggio di un giorno qualunque, un pc, un portale di annunci di lavoro. Purtroppo non è l’incipit della mia opera prima, ma quello della mirabolante storia dei Capital Cities. Il duo Elettro Pop che sta spopolando su molte classifiche internazionali, nato per caso dall’incontro on line di Ryan Merchant e Sebu Simonian. Dopo anni di lavoro insieme dedicato alla composizione di musiche commerciali hanno pubblicato il maggio scorso il loro primo album In a Tidal Wave of Mistery. L’album interamente autoprodotto dai due apre letteralmente le danze con il tormentone “Safe and Sound”. Questa canzone, come i Capital Cities, ha una storia curiosa: pubblicato nel 2011, il brano è passato in sordina al grande pubblico finché un marchio di telefonia ha deciso di usarla, probabilmente per il basso costo dei diritti e l’orecchiabilità del pezzo, come jingle per la sua campagna pubblicitaria.

Da questo momento in poi il brano ha conseguito consensi e successo esponenziale tanto da essere incluso nel videogioco FIFA14 e in altre campagne pubblicitarie. Ma se una rondine non fa primavera, una hit da classifica non fa un album da urlo. Le dodici tracce sono genericamente orecchiabili e sicuramente influenzate dalla “mano invisibile” della major, che se per le teorie economiche rappresenta qualcosa di provvidenziale e auspicabile, in questo frangente smorza e appiattisce le potenzialità espressive dei due Hipsteroni californiani. Su tutto aleggia un’aurea dal sapore fortemente 80 che ammicca allo slow disco fatta da synth preponderanti e voce effettata, con chiare citazioni a icone Pop del periodo come Farrah Fawcett e Michael Jackson. Quindi, indossati leggings e scaldamuscoli, per non sentirsi inadeguati all’atmosfera, ci lanciamo in pista con “I Sold my Bed, but not my Stereo” dall’anima furbescamente Dance alla maniera del navigato Will.I.Am, per poi fare un balzo più in là e lasciarci corteggiare da “Center Stage” e “Kangoroo Court” di indiscutibile stampo Daft Punkiano. C’è spazio anche per le sonorità Funky di “Origami” e i suoni vintage di “Chartreuse”,che a primo acchito richiamano le idee dei primi Phoenix ma non riescono però a reggere il confronto, nonché la classica ballad melodica “Lazy Lies”.

Non manca niente, nemmeno la comparsata di un riesumato André 3000 degli Outkast in “Farrah Fawcett Hair, che sa più di esigenza contrattuale, che di vera collaborazione, poiché non riesce minimamente a imprimere il proprio sound Funky e la sua proverbiale ecletticità al pezzo. Il duo californiano, ben accompagnato per mano, sa cogliere il momento e s’incanala ottimamente nel filone musicale del momento e di cui si nutre la gran parte della musica commerciale degli anni 2000, cercando comunque attraverso testi meno banali rispetto alla media di imprimere un po’ di personalità. In a Tidal Wave of Mistery suona felicemente Pop, ritmato, ben arrangiato, ma senza grandi eccellenze, insomma un successo di pubblico assicurato, cha fa del matrimonio tra Dance e Pop la carta vincente. Per quanto sono certa che molte delle dodici tracce scaleranno le classifiche di molti paesi e che le ritroveremo a più riprese in spot, video e programmati sulle frequenze di molte radio, a mio giudizio quest’album d’esordio, anche dopo ripetuti ascolti, lascia una sensazione che rispecchia in maniera fedele il titolo prescelto: una marea di mistero.

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Gronge – Cremone Gigante Per Soli Adulti

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Doversi confrontare con il passato non è mai facile e se poi questo arriva dagli anni 90 ecco che la faccenda si complica. Gronge, questi sconosciuti ai molti che riemergono dagli anni del Grunge dei Nirvana e del lolita Pop della Britney con un album del 1992 mai edito, Cremone Gigante Per Soli Adulti. La faccenda, dicevamo, è complessa sotto molti punti di vista. Gli anni passati, ben ventiquattro, che rendono questo lavoro quasi un reperto di archeologia musicale riportato alla luce non si sa per quale motivo. Il genere, Gronge non è una persona, una band, un mondo ma un concetto di musica sperimentale e provocatoria. La musica, difficile da passare sotto una lente analitica perchè contaminata fino al midollo, sregolata, guidata da un approccio teatrale che raggiunge picchi grotteschi al limite, pure per il più ardito Pirandello. In tutto questo marasma l’unico punto saldo è la voce di Tiziana Lo Conte, che nonostante rimanga ingabbiata nelle logiche non logiche di Cremone e votata al rumore piuttosto che alla melodia, ci porta per mano con personalità per tutti i ventiquattro brani dell’album. Tiziana ha un timbro che si avvicina, per molti aspetti, a quello di Antonella Ruggiero ma che, nell’adattarsi alle turbolenze melodiche, viene usato in modo più moderno e schizzofrenico. Chiarite le premesse è facile capire che preferirei astenermi dal dare un giudizio su questo gruppo romano che fin dal 1989, anno di fondazione, ha percorso con tenacia la via dell’autoproduzione cercando di uscire da schemi e logiche preconfezionate.

Questi pionieri, forse, dadaisti visionari del loro tempo, ascoltati alcuni decenni dopo perdono l’aura trasgressiva e provocatoria e il loro Punk Noise misto a Pop denaturato con qualche pennellata New Wave non sconvolge il mio animo. Direte, sbagliato decontestualizzare, soprattutto per un disco che affonda la sua ragion d’essere nella critica feroce alla sua contemporaneità; dico sì con riserva in quanto Gronge nel momento in cui decide di editare il disco si mette alla mercè di noi ascoltatori, che abbiamo orecchie abituate ad altre sonorità e gusti definiti su altri modelli. Probabilmente se fosse uscito nell’anno di realizzazione sarebbe stato tutta un altra storia e avrebbe avuto un altro e alto valore culturale, pezzi come “Era Moderna”, “Ticket” e “Metropolis” e la stessa tracklist “Cremone Gigante Per Soli Adulti” avrebbero avuto un’impronta più decisiva sui ricordi delle generazioni future e sulla musica italiana in generale.

Le chitarre impazzite, il Punk e il sapore della patina vintage non sempre fanno “figo” e lasciano a chi resta un nostalgico dei tempi che furono e agli appassionati una raccolta postuma dall’allure del vorrei ma non posso.

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Retrospettive radiofoniche di un moderno speaker.

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Era digitale, smaterializzazione dei supporti, streaming e share sono ormai le parole che più frequentemente associamo alla musica, eppure la radio, mezzo longevo e alleato fedele nel corso del tempo, rappresenta da sempre un’incubatrice speciale per la musica e la sua diffusione.  Aldilà delle grosse emittenti, che come da consuetudine si adagiano nel corso tranquillo della musica mainstream,  c’è un folto sottobosco di piccole e medie radio e webradio che ogni giorno si fanno in quattro per diffondere musica e intrattenerci. Vista le premesse mi sono chiesta che cosa significasse fare radio oggi, soprattutto in piccole realtà slegate dalle grosse logiche commerciali e  come fosse il doversi confrontare con lo scenario musicale odierno. A un primo impatto e senza grandi informazioni l’idea iniziale che mi si è palesata è stata la seguente: grande difficoltà a barcamenarsi in questo scenario. Come concorderete non era un’idea così geniale o  una prospettiva così interessante per poter sviluppare un’opinione ben definita e soprattutto articolata. Ed è  per questo che mi sono rivolta a  chi poteva darmi un punto di vista che andasse più in profondità sull’argomento dato che per passione ogni settimana si scervella per portare avanti un programma fuori dal coro: Ivano on air da CiaoComo Radio. Pensatela come un’ intervista alla vecchia maniera, volutamente senza smarthphone o device tecnologici, ma fatta di chiacchiere tra amici, ad un tavolino di un bar, in una Milano con la prima aria frizzantina dell’autunno alle porte e un paio di daiquiri per alleggerire la solennità dell’argomento. Dopo i canonici saluti, benvenuti e ringraziamenti sono partita dal classico, conoscere meglio chi avevo davanti, il suo programma radiofonico e come è cominciato il suo percorso in questo ambiente per poi andare a snocciolare più in profondità diversi argomenti. Si è parlato di web e digital e dell’impatto che essi hanno, ma anche di musica in purezza. Dopo due ore di chiacchiere le idee e le considerazioni non si contano e il quadro che emerge, e che prima sembrava alquanto fumoso si va comporre e definire in maniera sempre più chiara. Il sottobosco musicale di chi scrive su webzine, parla per radio e si adopera in molti altri modi per la musica che esce dalla grande mamma mainstream è ricco di persone volenterose di offrire un prodotto di qualità che possa spaziare, dare voce ai giovani ma al tempo stesso raggiungere buoni livelli di credibilità. In questa continua definizione di se stessi e del proprio operato e anche di lotta per un po’ di spazio diventa fondamentale il mezzo e l’editore per cui si lavora. Una linea di azione che consenta libertà di esprimersi e di fare le proprie scelte, è sicuramente un buon punto di partenza per uscire dalle classiche logiche buoniste e rimanere incasellati in qualcosa di troppo stretto, e per evitare che atti di censura che rendano zoppicante anche il miglior prodotto. Il web e social network, sono un altro tema scottante in quanto per definizione armi a doppio taglio. Facebook, Youtube, WordPress, Soundcloud e via dicendo sono strumenti utilissimi e fin troppo potenti per chi ne conosce i segreti e li maneggia con sguardo strategico, suppellettili di superficie per i meno esperti alla stregua di corollario poco sfruttato di una grosso romanzo di appendice. Non voglio dire che manchi la consapevolezza della loro utilità, ma che spesso l’approccio è troppo amatoriale e poco strutturato. In fondo il digitale rappresenta il principale strumento di lavoro e di circolazione della musica, a cui è indispensabile non rinunciare,  in termini di velocità di diffusione, flessibilità si utilizzo nonché di riduzione dei costi.  Altro tema è il famigerato budget, che incombe sulle teste dei grandi capitalisti così come su quelle dei piccoli perché in fondo molte cose girano ancora in base a logiche prettamente commerciali. Possiamo però tirare un sospiro di sollievo a sapere se forse questo è il punto meno dolente per chi dedica tempo e passione ai proprio interessi e alle proprie idee. Insomma un calderone di chiacchiere e di spunti su cui riflettere di cui preferisco non svelare tutto e lasciarvi incuriosire dalle risposte che il nostro interlocutore, di cui non ci siamo dimenticati, ci ha dato. Riprendiamo le fila dall’inizio, da  Ivano e il suo programma IndieCircus e tutto quello che ci ha detto.

Ciao Ivano, benvenuto su Rockambula. Ti va di raccontarci come hai incominciato in radio e presentare il tuo programma Indiecircus?
Ciao a voi e grazie per avermi contattato per questa intervista. La mia passione per la radio è nata fin da ragazzino, prima per gioco con gli amici, con le classiche demo fatte in casa e in qualche serata amatoriale presso locali di musica live, in pratica come iniziano tutti. Solo qualche anno più tardi è diventata una realtà più consistente, quando due amici in cerca di una terza voce per il loro programma mi hanno incluso nel progetto. Dapprima con una piccola rubrica, poi in maniera sempre più attiva. Dopo tre anni di gavetta, le nostre strade si sono separate e ho colto l’opportunità per realizzare un nuovo progetto, che potesse essere un ponte con le esperienze fatte, ma che avesse un format e uno stile di conduzione differente. Il risultato è Indicircus, che già dal nome fa intuire il parallelismo voluto tra il mondo musicale e quello del circo, con la volontà di giocare e fare un po’ d’ ironia nei confronti del mondo “Indie”, o meglio dell’immaginario e tutto il corollario di contorno di chi si autodefinisce Indie. A questo aggiungiamo anche un po’di sana irriverenza verso le logiche commerciali che sostengono gran parte della musica di oggi. Tutto questo, senza mai dimenticare la qualità della musica che per noi resta fondamentale. Se vogliamo dirla tutta, anche il mondo del cinema ci ha dato molti spunti per elaborare queste idea di “freak” o mostro e la relativa presa in giro di una certa tipologia di status quo. Insomma abbiamo cercato di fare un programma che avesse una forte personalità e soprattutto fosse sorretto da delle idee.

Siamo alla seconda edizione ci dobbiamo aspettare delle novità sullo stile di conduzione o pensi che la formula vincente non si debba cambiare?C’è qualcosa che vorresti realizzare durante questo nuovo anno?
Sono molto contento che il format sia andato bene e sia piaciuto al pubblico. Fortunatamente anche quest’anno è in programmazione come sempre il mercoledì sera, a partire del 2 ottobre, per un’oretta dalle 22 alle 23. Mah, squadra che vince non si cambia vale solo in parte nel senso che senza dubbio l’impostazione generale e i miei fidati partner Coccia e Mauro rimarranno gli stessi, mentre il nostro intento e impegno sarà raccogliere i frutti della precedente stagione, imparare dagli errori commessi per migliorarsi e offrire qualcosa di ben fatto, che avvicini sempre di più la gente alla buona musica. Anche solo una persona in più che apprezza un disco o un artista da noi proposto è per noi una grande soddisfazione.

Il format del programma prevede la presenza di ospiti. Come avviene il contatto con le band? E facile riuscire a instaurare un rapporto con loro? Riuscite ad uscire da una certa territorialità o preferite scegliere solo ospiti locali.
Il format del programma, per chi non lo conoscesse, è composto di due parti: la prima parte vuole essere simile ad un talk show con classifiche e approfondimenti sulla musica che traggono spunto dall’attualità o da avvenimenti curiosi. L’obiettivo è impostare subito un tono colloquiale e scherzoso. La seconda è quella in cui interagiamo con gli ospiti, che sono sia gruppi sia persone che hanno a che fare con il mondo della musica come musicisti, addetti alla produzione o persone che si occupano di booking o di promozione degli artisti. Direi che a grandi linee le puntate in percentuale si dividono 50/50. La scaletta si adatta a questa distinzione e solitamente passiamo in un’ora sette pezzi , di cui tre sono del gruppo ospite. Per il contatto onestamente la parte più difficile non è trovare gruppi disponibili, non ti dico il numero di richieste che giornalmente riceviamo soprattutto tramite Facebook, quanto selezionare quelle veramente interessanti in termini di qualità. Ed quello che a noi interessa, per questo ci prodighiamo per cercare in ogni modo, ovviamente secondo mezzi disponibilità, di uscire dai confini prettamente territoriali e di offrire varietà di ospiti in termini di genere e attitudini. Ti faccio un esempio nell’edizione precedente abbiamo ospitato una band che fa Alternative Rock da Malta i No Snow No Alps, L’Urlo in quanto band con molto seguito e anche un cantautore italiano di livello come Fabrizio Cammarata.

Parliamo dell’emittente che ti ospita Ciao Como Radio. Quali sono le difficoltà e l’importanza di una radio locale come la vostra? Pensi che volumi e budget impattino sulla qualità del vostro lavoro e sulla musica che proponete?
CiaoComo è un portale d’informazione e musica con due anime: quella legata al sito web fortemente localizzata in termini di contenuti e quella musicale con l’emittente radiofonica. Nella parte in cui mi trovo e con cui interagisco, ammetto di sentirmi ed essere molto fortunato. Rispetto a molte altre realtà locali noi abbiamo a disposizione un’ottima struttura e ottime attrezzature, anche se la cosa più importante, aldilà degli aspetti tecnici, è la grande libertà di parola e opinione di cui disponiamo. Non siamo vincolati, non siamo politicizzati e a parte qualche autocensura sul linguaggio non subiamo nessun tipo di pressione esterna. In questo caso una dimensione più piccola e forse più umana riesce a concedere quello spazio di espressione che le major non hanno. Mi sembra un buon parallelo con quello che succede anche nella musica, spesso i più piccoli sono anche quelli più indipendenti. Per quanto riguarda i mezzi, che dire?, lo facciamo tutti per passione e facciamo in modo che budget quasi inesistenti non abbiano alcuna ripercussione sulla qualità del nostro lavoro, rimanendo comunque consapevoli dei limiti.

Altro tema caldo nel campo musicale è quello legato al digitale e al web. Tu e il tuo team come vi ponete nei confronti di questo tema. Siete tra i nostalgici del supporto fisico o favorevoli alla sua smaterializzazione? E con i social network?Amici o nemici?
Siamo dei grandi nostalgici del supporto fisico, chiediamo sempre ai nostri ospiti un loro cd. Credo che sia davvero un peccato che se ne producano sempre meno, anche se per me questo non ne sminuisce il valore. La sensazione piacevole nel maneggiare un cd, nell’inserirlo nel lettore non ha prezzo. Io personalmente sono uno di quelli che compra ancora molti dischi, soprattutto quando ne vale la pena. Il digitale è l’attualità e per quello che facciamo non potrebbe funzionare altrimenti, pensa che la maggior parte degli ascolti lo facciamo come webradio e attraverso i podcast. Quindi ci proclamiamo pro per necessità e possibilità del canale. Con i social network il rapporto è complesso, passami il termine, è una sorta di tregua forzata. Abbiamo la nostra pagina Facebook sulla quale promuoviamo il programma, i brani che passiamo e ovviamente i nostri ospiti, ma non siamo dei fanatici dell’interazione e non siamo intenzionati a creare una community. Ci stiamo attrezzando, però, con Spotify per la realizzazione delle playlist, perché comunque nonostante sia un’arma a doppio taglio siamo consapevoli di non poterne fare a meno.

Spostiamoci un po’ sulla musica, da speaker e quindi da ascoltatore privilegiato qual è la tua opinione sullo scenario italiano “Indie” attuale? Si parla spesso di nuovi volti, si ascoltano tanti dischi validi, ma alla fine chi fa numeri interessanti sono sempre gli stessi.
So che è un termine forte ma trovo lo scenario Indie italiano disarmante. E’ un discorso un po’ lungo e complesso, ma provo a sintetizzare. Per me la situazione odierna nasce da un problema culturale: mediamente il livello d’istruzione negli ultimi anni è aumentato e di conseguenza molta più gente ha avuto accesso ai mezzi culturali e non, e si è messa a fare della musica. Il risultato è tanta quantità scarsamente interessante intervallata da pochi picchi di reale qualità e soprattutto di novità. Ascolto tanta musica, ma veramente poca riesce a sorprendermi.  Per questo sentiamo sempre gli stessi nomi, perché in fondo sono gli unici che riescono a reinterpretarsi e produrre cose nuove. Tra l’altro quest’affollamento musicale rischia di far passare inosservate, o meglio inascoltate, band o album che sono davvero meritevoli. Quindi, mio malgrado, ritengo giusto che i numeri li facciano i soliti Afterhours e Teatro Degli Orrori poiché sono gli unici a riuscire a evolvere. Prendiamo lo Stato Sociale o i Cani sono usciti con album che possono piacere oppure no, ma che hanno riscosso un discreto successo di pubblico, cosa ne sarà di loro, riusciranno a fare il bis?Difficile fare una previsione, staremo a vedere.

Prima si salutari e farti un grande in bocca al lupo per la nuova stagione abbiamo le temibili ultime domandone. Non ti chiediamo del peggiore, ma ti va di raccontarci qual e stato il tuo ospite preferito?
Difficilissimo, io preferisco gli ospiti divertenti e che sanno prendersi in giro. Ci piace, durante quell’ora insieme, poter istaurare un dialogo e non dover vendere a tutti costi. Insomma l’ospite che funziona è quello che partecipa, ride, si diverte e non si limita a dare risposte secche alle nostre domande e provocazioni. Ti faccio un paio di nomi in primis i Black Beat Movement davvero simpatici e ironici si sono prestati ai nostri scherzi senza batter ciglio e i No Snow No Alps, che nonostante i problemi di lingua cercavano in tutti modi di parlare italiano, un po’ imbarazzante ma siamo sopravvissuti. Aggiungo che mi piacciono anche gli ospiti che hanno un buon background musicale e sanno dire cose intelligenti e interessanti ai nostri ascoltatori.

La tua personale 5 top list delle migliori uscite Indie del 2013?
–  Cantautore italiano Appino con Il Testamento.
–  Gruppo Fast Animals And Slow Kids con Hubrys
– Stranieri i Franz Ferdinand
Nemesi  con La Sottile Linea Grossa e Paletti con Ergo Sum, che in maniera diversa sono qualcosa di nuovo anche se non rispecchiano a pieno il mio gusto.
-Menzione d’onore per l’album a Woodkid con The Golden Age

Siamo giunti alla fine, ringraziamo Ivano per averci parlato della sua esperienza come speaker radiofonico e ascoltatore di musica e mostrato una diversa prospettiva sulla musica di cui si nutre la stessa Rockambula. Speriamo che queste righe e le premesse possano essere uno spunto per tutti e uno stimolo a non smettere di ascoltare buone radio, buona musica  e anche di continuare a leggere Rockambula.

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Franz Ferdinand – Right Thoughts, Right Words, Right Action

Written by Recensioni

In agosto l’Italia generalmente si ferma e tutti si dedicano a giornate oziose distesi come pelli di leopardo su spiagge, lettini, materassini e chi più ne ha più ne metta, mentre gli instancabili scozzesi Franz Ferdinand si preparavano a sparare fuori un nuovo attessissimo album. Nel mentre orde di fan con le fauci spalancate dal 2009, oramai asciutte dalla tanta attesa, hanno divorato con bramosia i furbeschi teaser lanciati dai quattro, secondo collaudate tempistiche discografiche. Tutto questo rumore per la quarta fatica del gruppo che già nel titolo si anticipa proverbiale Right Thoughts, Right Words, Right Action. Avranno davvero pensato, parlato e agito nel modo giusto i genietti dell’Indie Rock?A sentire le dieci tracce sembrerebbe proprio che a Glasgow abbiano imparato a mettere il proverbiale gatto nel sacco infilando uno dietro l’altro una serie di pezzi cuciti alla perfezione addosso. Come dire facciamo quello che sappiamo fare nulla di più, ma lo facciamo alla grande. Né è riprova la marcia indietro rispetto al precedente Tonight lascianado solamente ai posteri i giochetti elettronici e le ambientazioni New Wave e ai dj da night life le versioni Dub. L’inizio ti stende con tre semplici mosse da cintura nera, “Right Action”, prima nota e subito vorresti amare Alex Kapranos non solo per il suo accento scozzese. “Evil Eye”, quando la rivisitazione supera ogni aspettativa e un riff da pellicola horror riesce a diventare un brano dissacrante al punto giusto, irriverente, disconnesso con punte splatter e patina anni 70 accompagnato da un video non adatto ai deboli di stomaco. “Love Illumination” ammalia con un sound che ammicca, grazie alla presenza dei synth ai ritmi da dance hall, capace di infilarsi subdolamente nel cervello per non mollarlo più per ore e ore. Batteria dritta, chitarre in levare sembre di ascoltare il manuale dell perfetto indie rocker scritto su pentagramma. Dopa aver sudato saltellando a ritmo serrato si viene catapultati nel mondo Brit Pop, dalle punte dei capelli fino alle punte dei calzini, di “Stand On The Horizon”, nonostante qualche coretto di troppo che sopportiamo per affezione. Saremo anche in scozia, ma Damon Albarn e compagni fanno scuola anche da quelle parti. Giusto verso la metà dell’album, come per l’ora del te ci prendiamo un momento di relax per concederci uno sguardo romantico con gli occhioni melanconici che guardano fuori da un finestrino striato dalle gocce di pioggia, assaporando il gusto di “Fresh Strawberries”. Il momento mattone finisce presto e subito torniamo ad agitare il bacino e le gambette con “Bullet” e “Treason! Animals!” che passano veloci con riff solari e ritmati. Rock ballabile ecco la definizione calzante che sta alla base del sound di quest’ album. Siamo rocker ma non per questo rinunciamo al momento intimistico, l’anima del musicista che si apre e immancabile serpeggia tra le note con la voce di Alex che si fa leggera e sussurrata tra una riflessione sull’universo che si espande e un incontro frugale, così uno dietro l’altro in un ordine prestabilito “The Universe Expanded” e “ Brief Encounters” fanno pensare a un ossimoro, intelligenti questi Franz Ferdinand. Siamo alla fine, ai saluti finali con “Goodbye Lovers & Friends”. Brano enigmatico soprattutto per i separatisti che intravedono un velato, e non più di tanto messaggio di congedo. Sono il futuro saprà dirci. Per il momento ci godiamo quest’album con il quale i quattro di Glasgow hanno fatto centro.  La mossa vincente è stata ritornare alle sonorità che li hanno resi celebri in tutto il globo abbandonando eccessivi  sperimentalismi. Senza dubbio l’assenza dalle scene per un tempo così ampio ha creato grande attenzione intorno a questo album e al tempo stesso a fatto crescere quel vuoto di presenza che necessitava di essere colmato e che ha in qualche modo spianato la strada a Right Thoughts, Right Words, Right Action. Ora  per la sacra consacrazione manca sola la controprova live, ma per quella a noi poveri italiani tocca aspettare ad aprile. Stay tuned direbbe qualcuno.

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Inbred Knuckelhead – Family Album

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Un italiano, uno svedese, un egiziano e un americano si trovano a Roma. Ora ci si aspetterebbe una mirabolante barzelletta dal finale esilarante ed invece ci troviamo davanti agli Inbred Knuckelhead. Il gruppo, romano di adozione ma multietnico nella composizione, si presenta dopo tre anni di silenzio dall’album di debutto con il nuovo lavoro Family Album. Premesso che avendo un debole per i cd, nonostante faccia largo uso di musica digitale, mi sono deliziata a spulciare con attenzione quello realizzato da questi ragazzoni. La cosa più interessante e che l’esterno rispecchia molto fedelmente l’interno. Nessun inganno frutto dell’apparenza ma solo una buona dose di coerenza. A più riprese nelle molteplici sfaccettature di questa band si ritrova un legame tra la musica e il modo di presentarsi visivamente. Di primo acchito e ascolto quella più evidente è l’ironia. Questa è espressa, dal punto di vista visivo nei parossistici personaggi che compongono il personale album di famiglia del gruppo, e da quello musicale con brani che attingono a piene mani dalle sonorità indiavolate e scanzonate dello Ska e del Punk, come “Remenber When” che apre le danze o “Revolution”.

Una seconda sfaccettatura è quella della voce gutturale di Marco Vallini, delle chitarre distorte e dall’animo scuro certamente Grindcore, che troviamo in “Circus” e “Recombine”e anche qua e là sparpagliate in fugaci apparizioni. Insomma molti tratti, ben marcati e tinteggiati da colori netti sembrano rappresentare la chiave di quest’album, come il lavoro di chi con cura si dedica a realizzare scatti multipli della stessa fotografia per non perdersi nessun dettaglio. Su questa scia le prime tracce quasi volano piacevolmente finché non s’inciampa in “Gypsy Girls”, e si rimane spiazzati da un brano fatto di chitarrine, nacchere, cowboy e indiani. Non sembra nemmeno di ascoltare lo stesso gruppo se non fosse per la voce di Mike Botula. Conclusa la parentesi vado in Messico si risale la china e si ritorna ad ascoltare brani fatti da un mix di Punk e Ska alternato a giri di chitarre che rasentano sentori Metal e qualche intonazione Country Blues, per terminare con una doppietta “Transform” e “Tekkno”decisamente più dura e nera.  Gli Inbred Knuckelhaed sono un gruppo interessante per composizione e per la miscela a volte esplosiva che riescono a creare, ma al tempo stesso le molteplici anime che muovono le corde del gruppo, forti e innatamente dure come nocche, lo portano a realizzare brani ibridi dal sapore un po’ incerto, dove generi diversi s’innestano l’uno sull’altro. Family Album è un lavoro curato a volte con qualche indecisione che lo fa zoppicare sullo stile perché molto focalizzato a dare voce a troppi dettagli, ma che rappresenta alla perfezione l’incontro delle anime musicali di un rapper italiano, un chitarrista Hardcore svedese, un batterista egiziano, di fatto ma non di nome e un americano della weast coast con il Funk nelle vene. Se non vi fidate schiacciate pure il tasto play.

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Bill in The Tea – Big Tree

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Big Tree è un nome interessante per un album di esordio; bisognerebbe  chiedere ai diretti interessati le genesi di questo nome, che in due parole racchiude un po’ il senso del lavoro del quintetto catanese Bill In The Tea.  Gli alberi, e per la precisione uno in particolare bello grande, si è fatto strada fra i meandri della città sicula mettendo le proprie radici nei territori musicali del Progressive Rock e del Jazz. Da queste appendici  è nato un unico tronco che sorregge come rami nove tracce, per la maggior parte strumentali, ricche di linfa melodica sperimentale, che lanciate verso l’alto si inerpicano su e giù in un in districabile intreccio.  Scelta coraggiosa da parte dei giovani siculi quella di cimentarsi con un genere come quello strumentale che in Italia non ha molti seguaci, anzi lo potremmo comodamente definire come un genere di nicchia.

I Bill in the Tea, però si esprimono su territori completamente differenti rispetto ad alcuni esperti del  genere come i Calibro 35 o gli Zu.  In Big Tree ci si trova principalmente sul piano dell’Ambient , tra suoni leggiadri e impalpabili rubati al Jazz e melodie delicate come in  “Now I Know  What The M Means” o “Change Colours “ oppure si aggiunge un po’ di ritmo e qualche citazione e si sogna in“I Wanna be Franck Zappa” e “Mad”.  Atmosfera è decisamente la parola cardine di tutto il lavoro, anche sei brani risultano un po’ lunghi rispetto agli standard di un ascoltatore medio. Come dicevamo tra tutti questi rami arrivare alle foglie è un viaggio anzi un volo pindarico tra violini che appaiono e scompaiono, suoni eterei e ritmi più corposi , che richiedono spesso pazienza e attenzione all’ascolto. Un lavoro in controtendenza rispetto alla velocità con cui la musica viaggia oggigiorno, un sorta di slow motion musicale, piacevole senza dubbio, ma al tempo stesso senza infamia e senza lode.  Forse  qualche occhiata più maliziosa e qualche passo più ardito avrebbe aggiunto più freschezza al tutto, ma come dicevamo un albero se ben alimentato continua a crescere e ad aggiungere rami e foglie, ed è quello che auguriamo per il quintetto catanese. Un esordio che getta le basi per un possibile futuro.

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Dawn to The Clouds – Far

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Carpi è un comune italiano di 67.408 abitanti della provincia di Modena in Emilia-Romagna.Il comune, il più popoloso della provincia dopo il capoluogo, fa parte dell’Unione Terre d’Argine. Non ci troviamo in una puntata di Super Quark ma sulla pagina di Wikipedia dedicata a Carpi, che dimentica di citarla come città che ha dato i natali ai Dawn To The Clouds. Il terzetto si presenta con Far, il loro secondo EP, composto da quattro tracce per un totale di diciotto minuti scarsi, che suscitano quel languorino musicale che si vorrebbe sempre poter ascoltare schiacciando il tasto play. Dicevamo, quattro tracce che a primo impatto mostrano i denti e il carattere. Forti sono le influenze provenienti dal Rock made in USA e anche qualche strizzata d’occhio a certi riff provenienti da Grunge anni 90 come nel primo brano “On Your Lips”.

Difficile non lasciarsi coinvolgere dalle chitarre distorte e dalle sporcature disseminate per le tracce. Se poi a questo ci aggiungiamo il ritmo sostenuto da una sezione ritmica trainante ascoltiamo “Loneliness”, inserita in chiusura, piacevolmente colpiti di trovarsi di fronte a un ottimo esempio di potenza ed energia tradotta in musica. Considerando che stiamo parlando di un trio, la ricchezza non manca e anche dal punto di vista dell’accuratezza non possiamo che dargli un “bravi” in pagella. Abbiamo parlato di un inizio e una fine col botto, senza considerare che nel mezzo i Dawn to The Clouds hanno piazzato un’altra doppietta niente male con la cover “Florence” dei Be Forest, che si innesta nella stessa direzione fatta di energia, ritmo e distorsioni, e una ballad dal titolo proverbiale “Sunday”che tira un po’ il fiato prima della corsa finale. Se volessimo trovare delle corrispondenze con gruppi famosi probabilmente citeremmo gli Smashing Pumpkins, i Pearl Jam o i Dinosaur Jr ma preferisco pensare che i Dawn To The Clouds abbiamo trovato, in questo secondo EP, uno stile più personale e definito. Far dimostra di avere gambe forti ed energia da vendere, che spreriamo di ritrovare nella lunga distanza nei loro live e nei prossimi lavori.

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