Silvio Don Pizzica Tag Archive

Sinervia – Limit Of A Dream EP

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Nata poco meno di tre anni fa, la band di Gattinara (Vercelli) è lo strumento primario col quale Luca “Lupo” (voce, chitarra & synth) ha palesato le sue creazioni originali e inedite, sotto il nome Sinervia, band nella quale andranno di volta in volta a congiungersi quelli che sono i membri attuali della formazione, Fabio “Cippo” (batteria), Jonathan (chitarra) e Matteo (basso). La prima scelta del gruppo fu di provare, provare, arrangiare e provare i pezzi proposti dal fondatore, soffocando parzialmente l’ovvia voglia di live, caratteristica di ogni musicista a inizio carriera. Il risultato di tanto lavoro è questo Ep di quattro tracce, Limit Of A Dream, gonfio di tutta la vena creativa di Luca ma anche ricco delle diverse sfaccettature proposte dagli altri membri i quali hanno riversato nei brani la propria cultura e formazione musicale oltre che la loro voglia di esprimersi messa al servizio del nucleo originario dei pezzi oggetto di arrangiamento. Il risultato è un rock duro, con diversi agenti che richiamano il Metal (perlopiù Post e Nu) ma non solo. Si passa da accessi vigorosi stile Deftones, fino al Grunge molto fuori dalla norma degli Alice In Chains (“Black Rainbow”, “Broken Eyes”). Alcuni riff si riallacciano addirittura ai Tool (“Shadow Of Light”) senza mai pareggiarne la magniloquenza ma non mancano momenti meno aggressivi di puro Alt Rock (“Red Sea”), con melodie più morbide e armoniose (Incubus, Kings Of Leon) e rimandi ai nuovi grandi vecchi del Rock nostrano (Verdena, ad esempio). Anche il post-rock/metal è accarezzato, come si può notare con chiarezza ad esempio nei muri di chitarra di “Red Sea”. Questo è certamente il brano più complesso, più strutturato, con diverse variazioni e interessanti cambi di ritmo, che fanno altalenare le sensazioni tra inferno e paradiso. Ottimo il lavoro di Luca e Jonathan alle chitarre, puntuale la sezione ritmica e assolutamente convincenti gli inserti sintetici, che s’incastrano alla grande senza suonare forzati, cosi come la voce, sia come intonazione sia come timbrica (forse in alcuni momenti appare forzata la pronuncia inglese ma potrebbe anche essere un’impressione di un non anglofono di nascita). Non male neanche le melodie cosi come l’esecuzione tecnica. Limit Of A Dream è il classico Ep nel quale è trasparente il tanto lavoro fatto da chi suona. Ha un unico grosso neo. Le diverse influenze dei quattro confluiscono in una proposta troppo precisa e poco originale che rischia di trovare difficoltà a far breccia sia nell’anima di chi non ama questo tipo di sonorità, sia di chi si sente troppo legato alla ricerca del nuovo. E magari gli altri si chiederanno perché ascoltare i Sinervia quando ci sono i Deftones, gli Incubus e tutta una scuola di genere piena di talenti stranoti. Se questi ultimi rileggeranno dal principio, forse troveranno la risposta in un paio di semplici parole.

https://soundcloud.com/sinervia/broken-eyes-mp3

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Sailor Free – Spiritual Revolution

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Ci vuole un carico di ambizione pesante come il mondo per realizzare un concept album di questa portata, soprattutto se la band che lo edifica è una formazione emergente e non un grande e noto nome del panorama alternativo mondiale. Il fulcro di questo Spiritual Revolution dei Sailor Free è il concetto di energia inteso come esistenza, dinamismo, spirito creativo, mezzo di progresso collettivo. Interpretato come fulgore, ardore, sostegno, fluttuazione e potenza del rinnovamento. Come intuizione della ragione e dell’anima, come voglia di conoscenza. Allontanarsi dalle strade comuni e conservatrici per sperimentare nuove vie che possano permettere un arricchimento sociale condiviso e di grado superiore cosi da ridistribuire correttamente l’energia. Il punto di partenza dell’intera opera, la fonte d’ispirazione, è il Silmarillion di J.J.R. Tolkien (Il Signore Degli Anelli, The Hobbit). L’opera è essa stessa base dei capolavori di Tolkien ed è il fondamento di tutto il mondo creato dall’autore, una sorta di Bibbia che racconta la genesi e la vita di una realtà parallela e/o futuristica, un cosmo che non esiste se non nella sua mente e in quella dei suoi lettori. Tale testo, forse non molto noto al grande pubblico, è in realtà spesso stato punto di partenza per diverse band (Blind Guardian, Marillion) che hanno trovato nelle parole del grande autore britannico l’ideale guida per la ricerca e lo sviluppo delle loro necessità compositive. La storia, volendo riassumerne gli aspetti per noi più utili, narra l’amore tra due entità, particelle disperse di due universi, le cui traiettorie finiscono per intersecarsi per via della loro attrazione, finendo per generare un’immediata fusione. Da tale aggregazione vi è una nuova nascita che li porterà in un creato alla deriva del quale si trovano obbligati a cambiarne le sorti, attraverso la conoscenza da condividere in maniera osmotica con l’umanità tutta, alla ricerca del benessere comune e non del personale appagamento dei singoli. Partendo da queste premesse, avrete capito che si tratta di un disco complicatissimo ed effettivamente lo è, anche sotto l’aspetto prettamente musicale. I Sailor Free scelgono un modo di fare musica caratteristico di decenni addietro, gli anni del progressive e della psichedelia, ma riescono a portare quest’idea di componimento in età moderna fondendo elementi propri del passato con le caratteristiche del rock alternativo moderno. La loro opera diventa il punto più alto di una carriera ventennale e il risultato di otto anni di assenza dalle scene. Spiritual Revolution è un lavoro colossale e mastodontico che si può definire come il manifesto musicale di un nuovo modo di pensare (vedi Spiritual Revolution People). Dentro i quattordici brani si alternano diversi movimenti, disparate melodie, un’infinità di cambi di ritmo, stili che viaggiano nel tempo, spesso all’interno dello stesso brano. La stessa “Spiritual Overture” è una serie di passaggi dall’ambient mantrico e religioso, attraverso la drone-music, a momenti di epico progressive, fino a riff taglienti e scenari psichedelici anni sessanta/settanta, per chiudersi in un Pop delicato e misterioso, grazie all’apporto del piano di David Petrosino. Non mancano pezzi in cui è la matrice Alternative Rock moderna a farla da padrone (“A New World”, “Beyond The Borders”), con sezione ritmica pulsante e chitarre acide e aggressive, cosi come non scarseggiano accenni al Rock anni ‘80/’90 stile The Cult e non solo (“The Run”, “Betray”, “The Faithless”, “Spiritual Revolution”), al Prog Rock/Metal stile Muse o Tool misto a schitarrate Hard Rock (“The Curse”, “Spiritual Revolution”, “War”).  La calma che contraddistingue alcuni brani (“Daeron”, “My Brain”) sembra richiamare alla mente anche la scena di Canterbury nella persona del grande Robert Wyatt (Soft Machine) di Rock Bottom pur non disdegnando elementi propri del Pop pre fine millennio. Innumerevoli sono gli inserti ritmici e melodici tipici della World Music (“Spiritual Revolution”) cosi come gli ingredienti psichedelici, pressoché presenti in ogni brano dell’opera ed evidenti in maniera chiara ad esempio in ”The Curse”; non mancano inoltre brani esclusivamente strumentali che mescolano un certo stile moderno di Post-Rock con psichedelia e progressive stile Pink Floyd (“The Entropia”, “Break The Cycle”). Altri elementi caratteristici, anche se meno palesi, sono gli accenni alla psichedelia post industriale che si possono ascoltare in “The Curse” o nella parte iniziale dell’introduzione. Come vi avevo accennato quindi, la complessità di Spiritual Revolution non sta solo nel fatto che si tratti di un concept che muove i suoi passi da elementi letterari e da ideologie alternative. Si tratta di qualcosa di mostruoso anche a livello sonoro con continui passaggi, anche dentro lo stesso pezzo, da uno stile all’altro, da un movimento all’altro, da una ritmica all’altra. Hard Rock, Psych Rock, World Music, Post Rock/Metal, Alt Rock, Ambient, Drone Music, Pop sono gli ingredienti di un brodo primordiale diventato paradiso terrestre. Spiritual Revolution non è certo un disco che si può ascoltare con facilità e non è un disco per tutti. Ha bisogno di attenzione, tempo, buona preparazione. È l’esatto opposto di quello che la musica sta diventando. David Petrosino (voce, piano, tastiere), Stefano “The Hook” Barelli (chitarre), Alfonso Nini (basso) e Stefano Tony (batteria) ci hanno regalato un piccolo capolavoro e di questi tempi è meglio non farselo sfuggire.

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Totale Apatia – Sempre Al Top Ep

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Che cosa ha il Punk Rock che L’Indie non ha? Non avete bisogno di andare a rispolverare i grandi nomi del passato o di svegliare il vostro fratellone trentacinquenne per chiedere a lui che magari qualcosa lo ricorda degli anni d’oro di Ramones, Clash e Sex Pistols e della scia di collera, anarchia e ribellione arrivata in Italia. Basta ascoltare un Ep come questo Sempre Al Top dei bresciani Totale Apatia per capirlo. Stavolta non parliamo di cinque ventenni brufolosi che non sapendo suonare meglio di Sid Vicious hanno scelto il Punk per sfogare la propria rabbia adolescenziale. Si tratta invece di una band matura, che ha fatto il suo esordio addirittura nel 1997. Iniziano con qualche live e una demo, Ve L’ho Fatta Sotto Il Naso!?!. Quindi un cambio di batterista e il primo vero album, Cavie. Cominciano a conquistare un certo seguito e partecipano a diverse compilation di settore fino a comparire nella trasmissione Database di Rock Tv. Ciò che li contraddistingue è che, seppur fortemente legati alla scuola Punk a stelle e strisce, le loro sonorità non disdegnano l’influenza di generi apparentemente molto lontani, dal Grunge al Pop. I testi rispecchiano perfettamente quella che è la cultura di strada tipica del genere ma la loro realizzazione non è affidata a estemporanee osservazioni poco ragionate ma piuttosto ad acute riflessioni (spesso vere poesie) esposte nella maniera diretta e chiara, tipica del Punk. Dopo l’album del 2004 Il Sentiero Da Trovare, inizia una nuova fase di mutamento nel quale la line up è nuovamente stravolta. Nel 2009 esce Ritorno Al Futuro e la band, finalmente stabilizzata la sua formazione, entra in tour e realizza questo Ep, Sempre Al Top, di sei pezzi che anticiperà l’album vero e proprio. Tutti i brani sono un sunto di quello che i Totale Apatia sono stati e di quello che saranno. Si passa dalla melodia irresistibile di “I Wanna Live In London”, ai riff taglienti della title track, fino al Punk che sfiora il Combat Folk nella parte cantata di “X” (potete ascoltare il brano anche nella compilation Sounds Of  The Streets For Gaza) e alla potenza Hardcore di “Mille All’Ora” e i suoi immancabili cori, vero biglietto da visita del Punk Rock.  Solo un Ep ma di quelli che fanno ben sperare per il futuro di una band che di passato ne ha da vendere e che consiglio vivamente ai giovanissimi che vogliono cimentarsi con questa musica brutta, sporca e cattiva ma piena di anima e cuore. Per il loro quindicesimo anno di vita i Totale Apatia ci regalano ancora una volta tutta la loro energia, Sempre Al Top e un tour da non perdere. Per ora, unica data confermata  è il 02 Marzo al Csa Paci Paciana di Bergamo con i Berri Txarrak, gruppo basco prodotto da Ross Robinson ma le altre saranno presto presenti sulla loro pagina Facebook. Non avete nessuna scusa per continuare ad ascoltare merda. Dico a voi, lasciate stare Green Day e Blink 182, c’è di meglio anche in terra italiana.

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Fletcher – Fletcher Ep BOPS (recensioni tutte d’un fiato)

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Non è proprio il disco per voi, se quello che cercate è la novità a tutti i costi, anche a discapito della qualità, dell’orecchiabilità, dell’arte, della potenza sonica. Non c’è assolutamente niente che non abbiate mai ascoltato dentro questi tre pezzi proposti dal duo Fletcher. Già nel primo brano “Mr. Thorburn” i tre grandi punti di riferimento, Blues Rock, Stoner e Grunge sono esposti in maniera netta e decisa, senza in realtà mescolare troppo le carte e quindi rischiare di allontanarsi dal punto di partenza. Nonostante questo, il brano è assolutamente spettacolare, nella sua commistione di potenza e semplicità.  L’esecuzione è puntuale, la ritmica proposta da Daniele Milesi (batteria) martellante senza essere pesante e la voce di Andrea Manzoni (voce e chitarra) presenta un timbro assolutamente da tenere d’occhio. Per capire il genere, immaginate di mescolare i membri di una band Rock degli anni settanta, con Black Keys, Nirvana e Kyuss. Spettacolo. “Susy”, brano numero due, allenta il ritmo e, purtroppo, mette in mostra tutti i limiti estetici dell’autoproduzione. Tutta la forza è riversata nella seconda parte del brano, che riprende la linea dell’opening track. L’ultimo pezzo, “Egocentric”, presenta ancor più chiari riferimenti con gli anni settanta a stelle e strisce, pur senza variare di molto la proposta che continua su alternanza di pianure vocali e immensi muri di chitarra. Questo Ep dei Fletcher si ascolta volentieri, pulsa energia a ogni nota ma è quanto di più anacronistico potreste aspettarvi.  P.s. L’artwork di Matteo Foresti è davvero troppo improbabile.

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Father Murphy – Anyway, Your Children Will Deny It (Remix Series)

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Siete riusciti ad ascoltare qualcosa di veramente figo in questo duemilatredici? È dura, lo so, l’anno non è iniziato nel migliore dei modi e neanche i ritorni di Yo La Tengo e My Bloody Valentine sono sembrati degni della nostra esaltazione. Ancor meno in terra italiana, dove piccoli accenni di entusiasmo (me escluso) si sono avuti con i nuovi lavori dei Bachi Da Pietra e dei Baustelle. Veramente poca roba. Tuttavia, solo qualche giorno fa, il quattro Febbraio, i pezzi di una delle più belle realtà italiane (sì, sono italiani), i Father Murphy, contenute nel loro ultimo lavoro Anyway Your Children Will Deny It, messi nelle mani di alcuni dei più grandi nomi della musica Psych-Noise (e non solo) internazionale, hanno visto la luce sotto forma di 7”+ 12” LP. È vero che l’idea di fare dei remix di album editi solo l’anno prima non è certo originale ed è anche vero che il risultato è spesso deludente (vedi i Battles, Gloss Dropp e i remix del 2012 di Dross Glopp). È anche vero che l’album originario dei Father Murphy del 2012 non era stato proprio il capolavoro di una carriera (a proposito vi consiglio piuttosto Six Musicians Getting Unknown e Brigadisco’s Cave #6) anche se per molti questa mia affermazione è una bestemmia. Vero tutto ma vero anche che il risultato che mi pulsa nelle orecchie è ancora meglio dell’originale. Non la penserà cosi chi avrà adorato Anyway Your Children Will Deny It ma come vi ho detto, non è il mio caso. Non v’incazzate, punti di vista.

Il gruppo trevigiano nasce nel 2001 e si sviluppa attorno al cuore composto dal trio Freddie Murphy (guitar, vocals), Chiara Lee (keyboards, vocals, percussion, bells) e Vittorio Demarin (drums, viola, vocals). Il disco da cui i remix prendono spunto, è il quinto lavoro sulla lunga distanza in dodici anni di produzione. Si tratta di un’opera che mescola avanguardie blues, sonorità oscure e agghiaccianti, Neo-Psychedelia, inserti vocali ed elettronici da far tremare l’anima, Folk, Post-Punk e Noise. Un sound assolutamente unico nel panorama tricolore e che ha reso i Father Murphy una di quelle band che fai fatica a renderti conto vivere nel tuo stesso paese. Sono molti i gruppi che scimmiottando le star britanniche giocano a fare gli stranieri ma in questo caso la realtà è ben diversa. I Father Murphy sono una band internazionale perché la loro musica non ha radici terrene.
Il 7” (Two Views) è composto da “His Face Showed No Distorsions” nelle mani degli Indian Jewelry, band che ammetto di apprezzare notevolmente (andate a ripescare i loro lavori e non ve ne pentirete). Un gruppo enorme proveniente da Houston, composto di un numero indefinito di elementi (ci saranno quattro batteristi, tre sassofonisti, diversi chitarristi e poi synth, rumori vari, percussioni, per un totale di membri che supera gli anni della band, nata nel 2001). Il secondo pezzo è “Diggin The Bottom Of The Follow” rielaborato dal francese Philippe Petit.
Il 12” (Heretical View) invece inizia con “How We Ended Up With Feelings Of Guilt” degli Happy New Year e quindi un’altra versione di “His Face Showed No Distorsions”, stavolta degli W.H.I.T.E. (che vi consiglio di cercare senza arrendervi). Segue “It Is Funny, It Is Restful, Both Came Quickly” dei Zulus e ancora “Diggin The Bottom Of The Follow” rivisitato dai danesi Thulebasen. Che cosa è cambiato fino a questo momento, rispetto all’opera madre? Certamente in ogni rielaborazione, i gruppi/artisti hanno messo un pezzo del proprio essere, senza limitarsi a un freddo remix. I brani non si sono certamente trasformati in pezzi da dancefloor, ma hanno acquistato ora pulsante ritmica ossessiva, ora rigonfiamenti lisergici. Diciamo che se l’opera dei Father Murphy è servita a dare conferma della loro grandezza senza aggiungere troppo alla loro proposta, questa diversa visione ci mostra l’inferno sonico dal punto di visto del Demonio e non del dannato. Nella seconda parte troviamo “In Praise Of Our Doubts” di Yvette e “Their Consciousness” di Noel V.Harmonson/Sic Alps. Avrete notato che molti dei partecipanti all’opera fanno parte della scena neo-psichedelica elettronica mondiale ed è proprio questo uno dei diversi punti di riferimento che possiamo trovare all’interno. Inoltre spesso si tratta di artisti non troppo noti al nostro pubblico ma la vera chicca viene con “In The Flood With The Flood” dei grandissimi Black Dice (chiarisco che anche con loro come altri nell’album i Father Murphy hanno condiviso il palco). Attivi dalla fine del millennio scorso, la band statunitense ha sempre proposto una musica dalle mille sfaccettature (cercate l’opera prima Beaches and Canyons), dall’elettronica sperimentale, al Noise, dalla psichedelia al Plunderphonics (genere che si basa sul collage di diverse fonti sonore, col quale si sono cimentati anche i The Residents). Anche in questo caso i Black Dice non si tirano certo indietro per rielaborare alla loro maniera il brano dei Father Murphy. Il disco si chiude con “Don’t Let Yourself Be Hurt This Time” rivisto in chiave EMA.

La musica dei Father Murphy è violenta ma non aggressiva, inquietante ed esoterica, precisa e deforme. Un continuo divenire tra industrial, psichedelia, neo-folk e tutto quanto ci sia di più lontano possibile dagli ascolti di uno spettatore italiano medio (non è un caso che abbiano firmato per l’etichetta statunitense Aagoo). Forse non vi ho detto tanto ma come la loro musica è avvolta in un oscuro mistero, voglio lasciarvi anch’io con la voglia di scoprire i pezzi, uno per volta, scovarne i demiurghi e i loro sofisticatori. Spogliarne i segreti e centellinare con stupore le differenti scie emozionali che vi lasceranno gli ascolti. Se si poteva aggiungere qualcosa, dare nuova linfa ai brani di Anyway, Your Children Will Deny It, aumentarne la potenza, questa è la reazione pragmatica.

 

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Git & Cri – Git & Cri Ep BOPS (recensioni tutte d’un fiato)

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Non è facile giudicare il lavoro di un disco basandosi su un minuscolo Ep di quattro pezzi. Certo che se la proposta dei  Git & Cri, band trevigiana che ruota attorno al duo Stefano Zulian (chitarra) e Cristina Pizzol (voce), si dovesse riassumere nel primo pezzo “Summersweet”, non ci penserei due volte a dirvi di lasciar perdere. Un melenso Folk Pop, con pochissime idee espresse senza troppo entusiasmo e senza dimostrare quantomeno una tecnica fuori dalla norma. Evidentemente il tutto risulta incentrato sulla vocalità ma anche qui, non ci sono molte buone parole da spendere. Voce intonata perché non rischia mai di avvicinare i propri limiti e timbro dalla disarmante banalità. Poi arriva “Filled With Grace” e mi rendo conto, che questa ballatona strappalacrime, minimale ma comunque ricca di strumentazione e voci, in realtà quantomeno è orecchiabile e gradevole all’udito. Per un attimo spero di aver sbagliato nel condannare troppo in fretta ma “Bittersweet” mi riporta alla triste realtà. Voce inutile, suoni inutili e ci manca solo un ballo di fine anno tra la sfigata di turno e il figo dal cuore tenero in sottofondo e potrei anche farla finita qui e ora. Tutto il male è arrivato in lingua inglese ed io non mi sono sforzato troppo a comprendere le parole. Ma il vero calcio nelle orecchie mi arriva con “L’elefante”, che, come intuirete, è in lingua italiana. Resto senza parole, veramente non capisco come non ci si renda conto che per fare qualcosa di cosi ultrastrasentito, con arrangiamenti, testi, rime, ritmiche e melodie tanto banali ci voglia quantomeno una voce strepitosa. Non capisco ma dai, in fondo è solo un Ep.

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Makay – Equilibri Instabili BOPS (recensioni tutte d’un fiato)

Written by Novità

Dentro questi cinque pezzi di Equilibri Instabili della band romana Makay, c’è una piccola bugia. Si tratta di un gruppo di cinque elementi (chitarre/basso/batteria/voce) nel quale artwork, testi e musica sono quasi tutta opera del chitarrista Alberto Marino. Eppure ogni momento del disco sembra essere destinato a promuovere la voce di Silvia Puddu più che la musica dei Makay. Sia nei brani più leggeri (“In Viaggio”, “Alla Ricerca Di Me”, “Mai Mai”), che in quelli più Rock (“Pensieri Rumorosi”), la melodia si tiene su linee soffici, morbide, precise e mai prepotenti, come a non voler minimamente rischiare di mettere in secondo piano quello che soffia dalle corde vocali di Silvia. Il più classico Pop proposto dalle varie voci femminili italiane (Giorgia, Elisa, ecc…). In verità, quella di Silvia è una voce gradevole, pulita, che ricorda a tratti la prima Elisa ma dal timbro fin troppo comune, nel suo mondo. A essere sincero, se dovessi basare il voto solo sui miei gusti, saremmo nell’ottica dell’insufficienza piena. Ma non posso negare la qualità vocale, l’esecuzione precisa, le sonorità distensive e accurate, perfette per fare da contorno alle parole. Se l’obiettivo era quello che ho intuito, i Makay ci sono riusciti alla grande. Fate una media di tutto questo ed ecco quel voto. La bugia? “Siamo una band, siamo i Makay”. Almeno in fase espositiva, non siete un gruppo, come non è un gruppo Vasco Rossi, Ligabue, ecc…. Tanti gregari, di cui uno straordinario nel suo eclettismo (Alberto Marino), al servizio del campione. Resta da capire se la voce di Silvia Puddu può davvero scalare la montagna del successo.

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Intervista (video e non) ai De Rapage. Delirio Totale!

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I nostri Silvio Don Pizzica (il cameraman) e Riccardo Merolli (l’intervistatore?!) sono andati a Chieti, nella sala prove dei De Rapage (https://www.rockambula.com/de-rapage-sberle/) per realizzare con loro una video intervista. Avrebbero potuto chiedere della loro musica demenziale, del nuovo disco in preparazione, delle loro influenze, dei loro live spettacolari ma se mettete insieme due pazzi come Riccardo e Don Pizzica con una band fuori di testa come i De Rapage, non poteva che succedere questo:

Qualche giorno dopo, Don Pizzica ha reincontrato i De Rapage e ci ha provato ancora. Secondo voi come è andata? Leggete voi stessi:

INTERVISTA AI DE RAPAGE (Francesco-voce, Pasquale-basso, Marco e Maurizio-chitarra)

Don
Ciao a tutti. Per prima cosa, come state? Vi siete ripresi dall’ultima volta che ci siamo incontrati?
M.Z.: perchè ci siamo incrociati? Oddio la testa….
F.: io ho avuto una leggera diarrea ma in fondo bene.
M.S.: mai più (naso di pinocchio)
F.: naso di Pinocchio?
M.S.: nel senso che mento.
M.Z.: vabbè francè..lassa sta! Mento o naso? deciditi cazzo!

Don
Diarrea anche io e un mal di testa da paura. Non vi chiedo perché il nome De Rapage (la risposta è nel video) ma chi cazzo sono i De Rapage potreste spiegarlo al pubblico.
M.Z.: i De Rapage sono un gruppo fregno!
F.: i De Rapage sono la summa dello scarto e del fai-da-te, che come obiettivo hanno quello di distrarre, offendere ed essere offesi.
M.S.: i De Rapage sono un gruppo musicale che hanno iniziato a suonare proprio per essere un gruppo musicale. all’inizio erano molto, molto diversi.
P.: secondo me è uno stato mentale che noi rappresentiamo in musica, una sgommata al posto del cervello, un modo di rendere un po più marrone il reale

Don
Perché avete scelto di fare musica ironica, a tratti demenziale e non provare a fare qualcosa di veramente nuovo?
F.: perché è uno sfogo, principalmente. Non si tratta di affrontare temi universali, ma di sviscerare tutto quello che hai di malato dentro, senza falsi pudori o inibizioni. E poi ce l’ha suggerito satana.
M.Z.: fare qualcosa di nuovo? tutti ci provano, a noi non interessa (forse non siamo capaci)
M.S.: qualcosa di nuovo? il qualcosa di nuovo che ho in mente io non si può suonare con strumenti musicali tradizionali. Si divertono tutti, ma il disco non è il medium primario per noi, noi siamo da concerto.

Don
Ho letto da qualche parte (inutile dirvi dove) che vi divertite più voi che non chi vi ascolta. Pensate sia vero? E pensate che manchi qualcosa alla vostra musica per colmare il divario?
F.: è vero. Noi siamo divertiti da noi stessi ma anche dalle reazioni degli altri: c’è chi si indigna ma anche chi ride a crepapelle. Nello scambio siamo noi i maggiori beneficiari e vogliamo resti così.
M.Z.: l’importante è che ci divertiamo noi, del pubblico non ce ne frega un cazzo! Alla nostra musica potrebbe mancare tutto o niente, ma ce l’ha detto satana di fare così!
P.: be i De Rapage che suonano tristi è cacofonico
M.S.: io mi divertivo da spettatore ai loro concerti, e dopo anni di corte mi hanno chiamato a suonare. dobbiamo essere spettatori di noi stessi sennò diventiamo autoreferenziali senza avere le capacità tecniche e l’ideologia per farlo.

Don
Schillaci, sempre ultimo.
M.S.: perché ci penso.

Don
In pratica non vi frega se chi vi ascolta dà poco peso alla musica pensando piuttosto a divertirsi sulla base dei vostri testi. Non avete paura di essere presi poco sul serio come musicisti?
M.Z.: bhe..come musicisti siamo i primi che ci pigliamo poco sul serio! (a parte Schillaci)
P.: pure io mi divertivo ai concerti dei De Rapage; Jo di Tonno è musica seria?
F.: infatti io urlo, non canto. È questo forse il segreto del nostro divertimento e della nostra visione poco competitiva della musica in genere.
M.S.: il problema di essere preso poco sul serio come musicista non mi affligge nel momento in cui cerco di fare risaltare ciò che suono, su disco e live. abbiamo dato spazio a parti musicali molto più che in passato, se senti gli ultimi due dischi. Infatti l’idea di suonare in situazioni di volumi e sonorità differenti mi attira. il 23 febbraio suoneremo diversamente dall’ultima volta per volumi dinamiche e cazzi vari.
P.: essere preso sul serio facendo rock scostumato è sintomatico di una società alla frutta
M.Z.: poi ai concerti più che suonare mi diverte insultare Schillaci!!! Ahaah.

Don
Ottime esecuzioni e buona musica. Eppure i dischi vi tocca regalarli ai concerti. Chi ve lo fa fare?
M.Z.: credi che qualcuno veramente comprerebbe i nostri cd? Allora noi li freghiamo e glieli regaliamo!
M.S.: li comprerebbero pure, ma poi saremmo alla stregua di altri gruppi tipo i pr°°lax.
P.: bella marco! la musica non ha prezzo stavamo pensando di vendere i dischi a 2500€ a copia o gratis..abbiamo scelto la seconda non siamo attaccati al denaro
F.: Perché la musica è condivisione. Non me ne frega un cazzo di prendere la 5 euro dallo spettatore del concerto. Quello che facciamo è per la gente e non per noi stessi. Ci stiamo promuovendo ed il modo migliore di farlo è spargere più seme possibile. Il giorno in cui pagheranno per un nostro disco diverrà un lavoro. E satana si incazzerebbe.

Don
Perchè ce l’hai coi Prophilax?
M.Z.: perchè lui non può usarli!
M.S.: non ce l’ho con loro. non siamo così, punto.
P.: conosco gente che si fa le seghe con i profilattici
M.Z.: non fate incazzare satana
M.S.: dopo veramente la valigetta con le parolacce.

Don
Dunque l’unica via d’uscita per le band emergenti sembra essere l’esibizione live. Ma anche in questo, avete scelto la strada più difficile. Non solo vivete in una regione (Abruzzo) che sembra aver dimenticato l’esistenza della musica (salvo rare eccezioni) ma, visto che nei vostri testi siete spesso diretti, volutamente volgari, vi tocca pure prendervi le porte in faccia dai centri sociali che vi accusano di maschilismo o dai locali che non vi ritengono adatti ad un certo tipo di pubblico. Non vi va proprio di scendere a compromessi?
M.Z.: ricordati di Satana! A noi piace fare questo e questo facciamo!
M.S.: dei centri sociali ho altri ricordi di altre epoche. questi sono cresciuti con internet, mi sucano il cazzo loro e le loro teorie di complotto.
F.: mai. Che gusto ci sarebbe altrimenti? A quel punto meglio fare la tribute Band!
P.: sono i radical chic che non volano più in alto del loro nanismo
M.Z.: per quanto riguarda i centri sociali, sono fascisti! Come possono accusarci di maschilismo se io e Ficurilli un concerto si e uno no ci baciamo in bocca?
F.: Io bacio chi mi pare, ma tu…
M.S.: per quanto riguarda i locali, noi il pubblico ce lo sappiamo gestire abbastanza. il problema sono i gestori, finchè non contano i soldi in cassa sono (giustamente) diffidenti. ma non infanghiamoci con il discorso delle merdose coverband e di come abbiano rovinato il suonare live.
P.: sto fatto che vi baciate mi fa ribrezzo

Don
Meglio non esprimermi. Abbassiamo un po’ i toni. Che cosa ascoltavate dieci anni fa e cosa ascoltate oggi? Quali artisti vi hanno maggiormente influenzato? Nella mia recensione ho accostato la vostra musica a Oneida, Rage Against The Machine e Beastie Boys, Nirvana, Litfiba, Radiohead, Exploited, Skiantos e addirittura Benigni. Ditemi pure che cazzata ho detto?
M.Z.: aggiungi pure i SexPistols e stiamo a posto!
F. : nessuna. Personalmente aggiungo Sex Pistols e Massive Attack
M.S.: io sono cresciuto con il rock classico, tipo quello inglese. nel disco ci sono un sacco di citazioni al limite della caricatura: tutto voluto, eh…

Don
Massive Attack? Non l’avrei detto.
M.Z.: bhe… ascolta SEGEDOUT del primo album!
F.: e certo. Se ascolti bene al contrario il nostro primo disco scoprirai che suona esattamente come Mezzanine
P.: penso che per fare musica così bisogna aver ascoltato molto, sinceramente alcune volte sembra che si sia veramente un po di tutto, a parte Nilla Pizzi e Tiziano Ferro
F.: che comunque ascoltiamo da soli in macchina.

Don
Vediamo se vi faccio incazzare. Questi continui passaggi da un genere all’altro non vi sembra possano impedirvi di dare un’impronta personale alla vostra musica? Forse c’è qualche citazione (voluta come dice Maurizio) di troppo? (parlo soprattutto a lui).
F.: è colpa di Maurizio
P.: si ostina a sentire i Litfiba, scusa Maurì ma Ghigo Renzulli fa cagare

Don:
Concordo. Su Renzulli.
M.Z.: infatti….è un casso con la chitarra!
F.: il peggiore
M.S.: le citazioni possono scomparire, non è un fatto involontario. ci penso spesso quando un brano sa già di già sentito.
F.: Maurizio è comunque meglio di Renzulli. Fisicamente

Don
Prendiamo Nkul Frekt Aua (l’ho scritto bene?). C’è tanto Creep dentro. Forse troppo?
F.: è veramente colpa di Maurizio e dei suoi arpeggi gay, ma ci piaceva così e chi se ne frega.
M.Z.: bhe, su Creep non sono d’accordo, ma l’idea era di fare qualcosa alla Radiohead
M.S.: non è che ci pensavamo più di tanto. gli accordi erano diversi all’inizio, ho modificato il sol e il la mettendoli in minore. c’è anche l’accordo indie per eccellenza, il do 7+!
P.: a parte gli scherzi nell’ultimo live, con il nuovo set, abbiamo migliorato di molto questo aspetto l’approccio ora è più denso e uniforme
F.: Pasqua ma a che domanda hai risposto?
M.Z.: Pasquale sta a fumà robba pesante!!
P.: ahh me che ci stanno le domande!?
M.S.: ngulo freket è stato scritto dal pubblico della lampara che assisteva ad un concerto indie di un gruppo indie. Erano tutti come nella canzone.
P.: sgamato

Don
Andiamo avanti e parliamo della situazione Live della penisola. Parlando con un ex musicista ora membro di una cover band (non tribute ma pur sempre parte del Male) mi ha detto che le difficoltà ad emergere delle nuove realtà è soprattutto conseguenza dei gestori dei locali e del pubblico, poco avvezzo alle cose nuove. Chi ama suonare, vuole suonare e per farlo, in alcune piccole cittadine, può solo fare cover. Peggio i gestori che della musica non gli frega un cazzo ma le tasse le pagano, peggio il pubblico, che della musica non gli frega un cazzo ma ha sgobbato una settimana e un rum lo paga 5 euro o peggio i musicisti che si riducono a fare cover ma della musica gli frega eccome ma non vogliono continuare a suonare in uno scantinato?
M.Z.: per me il problema è sopratutto dei gestori. Io credo che si può creare un bel giro di gruppi originali e comunque riuscire a lavorare. E’ una questione culturale. Se crei un bel giro la gente ti ci viene al locale. d’altronde negli ani novanta c’erano molte band originali e non mi pare che i localli chiudessero tutti. Naturalmente ci vuole anche un minimo di selezione! Anche perchè scusate, noi alla fine siamo anche un piccolo esempio, i locali li riempiamo più delle cover band!
P.: questa si che è una domanda…la risposta è difficile, è tutta una questione di background culturale…siamo in italia e qui il pdl ha governato per 20 anni e rischiamo che piglia più del 16% a febbraio. Vabbè l’ho buttata sul pesante però c’è gente li fuori con le hogan
F.: se al musicista gliene frega di suonare le situazioni le può anche creare, è inutile mordersi la coda, i problemi sono quelli che hai appena citato ed è innegabile che le cose, per ora, non cambino. Ma se non le cambia chi la musica la fa allora cosa dovremmo fare? Aspettare in silenzio l’apocalisse? Se ci fosse una rete di musicisti vera o una struttura che li collegasse si potrebbero scambiare, oltre alle idee ed si musicisti anche locali e pubblico, ad esempio, i cercare spazi adatti al live che non siano locali. O crearli. All’inizio, inoltre, noi non chiedevamo una lira per suonare: la voglia è quella che conta! Così ci di diverte.
M.S.: hai presente la depressione quando da una persona passa ad un’altra, poi un’altra, poi un’altra come una pianta infestante e rovina una famiglia intera? è così, non è peggio nessuno, siamo tutti peggio. così la penso io. dove c’è gente sana, anche in piccolo circuito di una piccola comunità, trovi ancora creatività, fantasia e senso degli… affari (brutta parola!)

Don
Non deprimiamoci pensando troppo a questo paese del cazzo e alla sua gente del cazzo. Parliamo del vostro ultimo disco. Sberle. Che roba è? Fatelo capire a chi non ha idea di che musica facciate.
F.: io neppure l’ho capito, non ancora.
P.: è un disco tipo calendario francescano
M.Z.: Sberle è un capolavoro!
P.: aiuta il raccolto, è un rito propiziatorio alla inseminazione naturale
F.: ma nessuno risponde seriamente? Dai Mauri!
M.S.: “quello che cazzo ci pare”, perchè andava detto. non lo dice nessuno, sono tutti a spompinare il pubblico. siamo partiti dai titoli e poi abbiamo costruito i pezzi sopra, abbiamo applicato in musica la cementificazione selvaggia. ad esempio “sberle” è uscito fuori perchè da una ripresa audio delle prove fatta con uno smartphone il suono del ride della batteria sembravano schiaffi dati belli forte.
M.S.: ecco, ho scritto una risposta mega sgrammaticata…
F.: bravo cazzo

Don
Mi rivolgo a chi legge. Difficile parlare serio con i De Rapage. Forse solo con Schillaci. Ascoltatevi il loro pezzo sotto se volete capire di che parliamo. A proposito,ora mi rivolgo a voi quattro. Come è nato quel pezzo, Inquilino Sexy?

https://soundcloud.com/derapageband/10-inquilino-sexy
F.: da un volantino!
 Don
Cioè?
P.: la storia del pelo di cazzo io la so

Don
Spara.
M.S.: c’era un flyer nella pizzeria vicino alla sala prove in cui si pubblicizzava un tipo del grande fratello che faceva una ospitata in una discoteca:”L’inquilino sexy della casa del grande fratello”. La storia del pelo di cazzo è mia. ho immaginato di trovare un pelo di cazzo altrui nel letto della mia ex, magri c’era davvero. “Magari”
P.: la prima strofa parla di un tipo che mendicando un letto si è fatto ospitare dalla ex, durante la notte ha trovato un pelo di cazzo sul cuscino.

Don
In pratica è “tratto da una storia vera”. Immagino la scena.
P.: aaa eri tu? Scusa Mauri
F.: Ahahahah
P.: tutti i pezzi sono storie vere
F.: tranne tarzanello
M.S.: cioè, dopo mesi che non ci dormivo in quel letto poteva essere accaduto qualcosa che non mi coinvolgesse. in realtà la storia diventa gay, oppure l’io narrante è femminile, ma questo la sa francesco.
P.:  faccio una domanda io: Francesco parlaci di Megawatt
F.: è femminile, certo. Perché?

Don
Oh mio Dio. Lasciamo perdere. Abbiamo capito che la dimensione live è quella nella quale vi sentite più a vostro agio. Grazie ad un pubblico di fedelissimi che vi segue ovunque, intavolate uno spettacolo fantastico. Il vostro live non è solo esecuzione ma puro teatro partecipato col pubblico. “Fikurilli sei una merda”, “tua sorella è una troia”, una sfida all’offesa più originale con chi vi ascolta. Ma se doveste suonare dove nessuno vi conosce? Nessuno!
M.Z.: sarebbe bello! Il pubblico capirebbe subito!
P.: pagheremmo qualcuno per la clack, sicuramente, 200 € di buono e sano investimento
M.S.: avremmo bisogno di più tempo per entrare in confidenza col pubblico. siamo capaci di fare più di due ore di concerto filate, mica come quei poveri scheletri chitarra e barba tipo Dente.
F.: Stai sicuro che sapremmo comunque come farci offendere di brutto. Inoltre il nostro pubblico cresce ad ogni concerto e gli sconosciuti che ci offendono si moltiplicano di volta in volta. Alcuni sono degli acrobati della parolaccia, insospettabili per giunta! Maurizio stai infangando questo mondo e quel l’altro, sei un hooligan!
M.Z.: maurì pure tu sei uno scheletro chiatarra e barba
P.: montgomery
M.S.: ma siamo anche musicisti, non mortifichiamoci da soli con la storia dei testi. Se suoniamo bene attiriamo l’attenzione a prescindere dai cazzi e dai culi.
F.: che c’entra? Tu sei davvero il cognato del diavolo

Don
Appunto…vedi domanda numero tre.
Un giorno si potrà tornare a vivere della propria arte? Oggi il conto in banca sembra inversamente proporzionale alla qualità proposta.
M.Z.: solo se usciamo dall’euro! ahahahahhaha
M.S.: ottima domanda, io la girerei ad Umberto Palazzo. mi scriveva che quasi tutti i musicisti in italia sono poveri. effettivamente fai, mettiamo, 100 serate all’anno, ma se non arrivi a fare tipo 1500 euro al mese ddò cazzo vai? la gente lascia, smette… orrore.
F.: altrove è possibile, anche per quelli che non propriamente c’è la fanno, ma la deriva culturale, perché di questo si tratta fondamentalmente, coinvolgerà tutti. E noi potremo dire “te l’avevo detto”. Speriamo che aprano una banca gestita da solo artisti. Forse allora…
M.S.: ma TUTTI i musicisti,anche gli orchestrali!

Don
Tutti gli artisti, non tutti i musicisti.
F.: mauri concentrati

Don
Siamo in dirittura d’arrivo. Quale è il vostro sogno di musicisti e la vostra paura più grande?
P.: secondo me si e pure molto presto, è rimasto troppo poco in giro e tutto stramaledettamente appiattito e simile per il semplice fatto che non può tornare un neomedioevo
M.Z.: il mio sogno e poter continuare a suonare il più allungo possibile.
F.:  da musicista vorrei fare l’astronauta. La paura più grande è quella di dover rinunciare per andare altrove. Ma anche un po’ quella di rimanere incinta.
M.S.: vorrei definirmi artista senza paura di usare questo termine per non usare “disoccupato”. ci sono tre categorie di artisti.
P.: il mio sogno è diventare ambidestro e l’incubo è perdere la mano destra
M.Z.: la mia più grande paura è suonare per sempre con schillaci
M.S.: quelli veri veri veri, quelli definiti tali solo perchè hanno l’enpals e i nullafacenti che non sanno come altro definirsi.
F.: Mauri stai due domande indietro
M.S.: la mia più grande paura siete voi

Don
Ahahahahhaha. Una brutta domanda, alla quale praticamente non mi ha mai risposto nessuno. Chi è la grande truffa dell’Indie italiano? E perché?
F.: l’indie è una truffa, perché non esiste. Cosa significa ancora nel 2013 indie?
M.S.: guarda, Rockit promuove certi campioni da sette spettatori a concerto… “il rock è cazzo, e il tuo è morto” (The Doors, il film)
M.Z.: continua la crociata di Schillaci contro Rockit
F.: Maurizio sei il peggio
M.S.: la truffa è il pubblico. non ne capiscono un cazzo di musica.
M.Z.: quindi quando sei tu pubblico, sei tu a non capire un cazzo! Maurì, smittil a di cazzate!

Don
Giusto. Comunque, niente nomi. Come preferite.
P.: per me indie è una modalità alla musica, la truffa è attribuirgli un genere musicale specifico

Don
Invece c’è qualcuno che vi assomiglia? E qualche nome nuovo che pensate abbia tanto da dire? Sia italiano che straniero, ovviamente.
P.: i Bachi da Pietra
M.Z.: I Managment del Dolore Post Operatorio (solo perchè so abbruzzesi!!!)
M.S.: Pilar, MA.DE DO.P.O., Maria Antonietta, Paolo Benvegnù, e altri…

Don
Nessuno che vi somiglia però…
M.Z.: siamo unici!
P.: pensando a qualcuno che ci somiglia mi sta a venire l’emicrania, comunque inglesi gli Holyfuck ce garbano..ma io aspetto la risposta di Francesco
M.S.: ce ne sarebbe qualcuno ma è davvero borderline e il nome non ti direbbe nulla. il vincitore della coppa Rimetti del 2012, ad esempio, Francesco Niente.
F.: gli squallor. Escludendo che sono quasi tutti morti rappresentano indubbiamente il futuro. In questo momento sto seguendo molto anche gli Indian Jewelry, ma io non capisco un cazzo.
P.: Holyfuck so canadesi cafò…
F.: ah e aggiungo pure, dall’Italia, Gianfranco Marziano, nostro precursore sconosciuto a noi fino a qualche anno fa.
P.: lo sapevo che sbancavi bella Frangè
M.S.: ah, i Progetto Panico, grandissimi!

Don
Nomi non molto noti. Difficile diventarlo quando si fa musica come la vostra. Siamo in chiusura. Dove potremo ascoltarvi nei prossimi mesi, dal vivo?
F.: meno male. Avremo meno concorrenza.
M.S.: il 23 febbraio al Fictio di Chieti
P.: il 6 marzo a Berlino, in piazza vicino al bar che vende le birre alla spina
F.: il 23 febbraio al Fictio, a Chieti, dove giochiamo in casa e il 30 febbraio al macellaio di via cazzimma, a Caserta.

Don
E il prossimo album. Quando dovrebbe uscire? Che differenza ci sarà con “Sberle” ?
M.Z.: top secret
F.: il prossimo album sarà un ep in cui raccoglieremo delle cose che suoniamo in questo periodo è che ci piacciono in modo particolare. Ma prima ci sarà un DVD con il documentario sulle nostre origini e sulla nostra fine.
P.: forse qualche anticipazione potremmo farla..dai parlate. Ieri abbiamo finito le riprese..hehehe, manca il montaggio robba grossa.
F.: firmato dal nostro videomaker preferito Startakko.

Don
Ditemi quello che avrei dovuto chiedervi e non vi ho chiesto? Poi, se volete, rispondetemi.
F.: oggi hai fatto la cacca? – si, ma sono stato così tanto a leggere sulla tazza che mi si sono paralizzate le gambe e, quando mi sono alzato per aprire la porta di casa da dove qualcuno suonava insistentemente, sono caduto. Ho strisciato fino alla porta, erano dei testimoni di Geova, vi lascio immaginare il seguito.
M.S.: ci sto pensando ma mi vengono in mente domande assurde del tipo “perchè dovreste essere dei ventenni e invece ne avete più di 35?”
M.Z.: Maurì tu ne hai più di 40

Don
Ahahahah
P.: tipo jimmy dovè?
M.S.: più di 35, infatti. vado per i 43 e sto in giro con una fender a fare casino anziché stare in pantofole a subirmi le scoregge dei bambini e le ascelle di mia moglie.
P.: jimmy scopa … noi stiamo qui a sparare le cazzate
M.S.: onesto
P.: hahhahaha un frame del DVD!

Don
Non vi chiedo chi è Jimmy. Ciao a tutti, allora. A presto.
F.: a presto, cazzo!
M.Z.: buonanotte
M.S.: a presto , e grazie

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Rosso Dalmata – Rosso Dalmata

Written by Recensioni

Scoprire quello che è l’obiettivo di una band quando ci propone un album, un brano, un video o qualunque altra cosa che possa definirsi artistica, ha un ruolo chiave nel compito di giudicare quanto tale valore possa considerarsi ricco o meno. Nel caso dei Rosso Dalmata e del loro omonimo album d’esordio è molto difficile giungere a conclusione perché, se da un lato l’artwork è incentrato su passionali accostamenti tra rosso sangue, bianco e nero con un risultato abbastanza sfrontato, girando la custodia e sbirciando tra i titoli dei brani (“Mina Si Fa Di Ketamina”, “Ho Mal Di Dandy”, “E’ Un Problema Se Sono Un Omicida Seriale”) ci sembrerebbe avere di fronte un gruppo che probabilmente punterà tutto sull’ironia per colpire al cuore gli ascoltatori. L’unica risposta possiamo trovarla nell’ascolto.
I bolognesi Rosso Dalmata provano a mescolare l’Indie britannico con l’elettronica Pop italiana, puntando oltretutto proprio su testi in lingua madre. Il loro album è stato mixato da David Lenci (Linea 77, Uzeda, One Dimensional Man, Teatro degli Orrori) e masterizzato da Carmine Simeone (Subsonica, Skin, Tony Levin). Il brano che apre l’opera, “Mina Si Fa Di Ketamina”, contiene una piccola chicca per tutti gli appassionati di cinema oltre che di musica. Infatti, nel pezzo, è presente un celebre monologo del film “Trainspotting“ reinterpretato, dopo sedici anni, dallo stesso doppiatore del film, Christian Iansante. Di seguito alla recensione potrete vedere il video realizzato dalla Elephant Production (Jolaurlo, La Radura) con l’attrice Martina Angelucci e la regia di Nunzia Vannuccini. Il pezzo si apre con il prepotente synth che sembra presagire l’imminente rimbombo di un Pop sintetico potente in stile Late Of The Pier. In realtà tutto si dispiega in un convenzionale Indie Rock di matrice inglese, con un ritornello assolutamente prevedibile e neanche troppo ironico (se questo era l’obiettivo). Si cercano suoni tossici (visto il tema del pezzo) dentro sonorità immediate e parole irriverenti ma il risultato è quanto mai dozzinale, nonostante il tentativo di elevare il contenuto con la suddetta partecipazione di Christian Iansante. Nel secondo episodio, “Romanzo Noir”, è nuovamente forte la presenza dell’Indie Rock derivato dal Post-Punk di scuola Franz Ferdinand e Kaiser Chiefs per intenderci, ma ancora una volta, il massimo che riescono a fare è trovare un ritornello con una melodia tanto orecchiabile quanto derivativa, allo stesso modo dei riff di chitarra o degli inserti sintetici. Il primo momento interessante si ha con “Adoro il 69” dove più energico è l’intervento dell’Electro Pop di scuola tricolore, Bluvertigo o Sikitikis. La linea melodica vocale è subito perfetta e indovinata e la semplicità sonora Pop-Punk delle chitarre risuona assolutamente eccellente, dentro un pezzo ricco finalmente d’ironia e voglia di leggerezza. Il cantante, Marco Baricci, si cimenta, in maniera minimale, anche con il piano, nel brano “Il Cubo Di Rubick” che nelle sue mescolanze tra Rock, suoni chimici e voce in primo piano riprende ancora con forza la corrente italica di Subsonica (molto simile nel cantato) e Bluvertigo, allargando le ali nella parte finale, su acustiche più dirette e punk del tipo non troppo incazzato. Non aggiungono praticamente nulla alla proposta dei Rosso Dalmata, i brani “Onda Sinusoidale” e la finto ironica “Ho Mal Di Dandy” mentre molto interessante è l’intro di “Storia Di Ordinaria Follia”, con le sue pazzie artificiali e l’evoluzione pulsante e piena di cambi di ritmo. Niente di nuovo, a dire il vero, ma nel suo essere “già sentito” è comunque un pezzo che mescola alla perfezione tutti gli ingredienti dell’album, oltretutto mostrando una buona esecuzione anche vocale pur se non stilisticamente perfetta. Poco convincente anche “Antistress” nella quale in realtà Marco Baricci, a differenza del brano precedente, mostra qualche limite vocale e un timbro non proprio da pelle d’oca. Forse il testo più interessante è quello di “Danza Della Busta”, liberamente tratto da un monologo del film American Beauty e ottimamente accompagnato dalla foga sonica di Frank Lav (autore delle parole), Guido Adam Terracciano, Herb De Masi, Dario De Benedetti e Mark Mad Honey (complimenti per la citazione). Parte forte anche “E’ Un Problema Se Sono Un Omicida Seriale” ma gli sviluppi suonano ancora una volta troppo mediocri e ritriti. L’ultimo brano, “Pietra Filosofale” non si stacca di un millimetro dalla proposta ormai chiara dei Rosso Dalmata, regalandosi anche un ritornello stile Prozac+. Non pensate che il problema di quest’album sia tutto nel suo essere sorpassato e convenzionale. Se avete mai letto altre mie cose, saprete che non ne faccio un dramma. Il dramma è che, in quasi tutti i momenti del disco, quando qualcosa sembra ineccepibile, tutto il resto è esattamente dalla parte opposta. Appena trovi un ritornello gradevole, ti suona insopportabile il resto del pezzo. Se sembra affascinante e intelligente il testo, è la melodia che non va. Se la musica ti prende, ecco che le parole arrivano a infastidirti. Manca omogeneità di valore assoluto. Con ripetuti ascolti, forse la parte testuale sarà proprio quella più interessante, esclusi un paio di sfortunati episodi ma le composizioni suonano fin troppo per palati semplici nell’intento, quanto poco accattivanti nel risultato.

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Starlugs – The Rite And The Technique

Written by Recensioni

C’è un paese, una città meglio, visto che conta cinquantaquattromila novecento otto abitanti ed è capoluogo di provincia, che ha generato in me contemporanee scariche d’intenso odio e amore, nel corso dell’ormai decrepito 2012. Da abruzzese, che per tutti i dodici mesi ha fatto la spola tra Pescara e l’entroterra (molto “entro”) aquilano, Teramo è stata sofferenza e diletto, tormento e soddisfazione. Ho visto una moltitudine di band emergenti nascere sotto le pendici del Gran Sasso mentre io, a Pescara, continuavo a vagabondare per locali danzanti, metallari e Dj Rock (sì, esistono i Dj rock, che cazzo credete?) cercando un gruppo che non c’è, o forse c’è ma ai pescaresi non gliene frega un cazzo. Tante manifestazioni sonore si sono tenute nel teramano, come le esibizioni live di Calibro 35, Bugo, I Cani, gli Offlaga Disco Pax. Cosi, se da un lato vedere l’esplosione di band come gli String Theory (che ho inserito nella mia top three annuale) stava facendo crescere in me l’amore e l’interesse per un territorio fino a ora quasi sconosciuto, dall’altro, vedere la facilità con la quale la gente del posto riesce a ignorare il dilagante fenomeno (il tutto si può notare con la scarsa partecipazione del pubblico ai diversi eventi programmati nella zona) mi fa una rabbia bastarda.
La mia ultima scoperta si chiama Starslugs. Ho il loro disco autoprodotto tra le mani, The Rite And The Technique e guardandolo mi rendo conto che quest’ammasso circolare di policarbonato non mi regalerà certo le dolci note di un pop cantautorale rassicurante e delizioso. Sotto il nome della band sono scritte in inglese le parole “One Straight Line -Do It Yourself” (una sorta di mini manifesto generazionale di una certa cultura punk underground nata negli anni ottanta e che mirava innanzitutto al rifiuto della major per poi diventare un vero modo di vivere) e più in basso, al centro della copertina, mi sembra di vedere un nero che con un ghigno a metà tra dolore e gioia, è intento a trapanarsi le cervella. Ancora più giù, sotto l’indicazione del nome dell’album, un altro sottotitolo nella lingua della regina d’oltremanica recita “una breve storia d’impressioni rubate da un ambiente ostile”. Diciamo che sembrano esserci tutte le premesse per non sperare di rilassarsi tranquilli durante l’ascolto.
Nella parte di dentro del libretto, a rincarare la dose, troviamo di fianco alla tracklist, l’immagine di un fucile smontato, di quelle che si trovano nei libretti d’istruzione, con tutti i numeri sopra ogni pezzo e in basso, ancora una volta in inglese, l’invito a copiare e diffondere l’opera ma non a rubare le idee contenute all’interno. Finalmente mi sento pronto a schiacciare quel pulsante e trasformare la guerra fredda della mia attesa in una pioggia di bombe soniche.
Intanto che ascolto, vi racconto chi sono gli Starslugs. Nati poco più di cinque anni fa in Abruzzo, sono semplicemente un duo (che si definisce Punk-Noise) composto da Danilo “Felix” Di Feliciantonio e Pierluigi Cacciatore, ai quali si aggiunge un batterista che viene dal passato chiamato drum machine Roland TR707 (il suo nome preciso sarà strettamente legato alla musica, come poi vedremo). Scrivono i pezzi nella lingua di Poe e Bukowski e la cosa è un bene (anche se i puristi, fascisti, nazionalisti magari, non la penseranno cosi) perché è il modo migliore di applicare la voce a questo tipo di suono in frantumi. La voce è come la tecnica e la bravura applicate a un qualsiasi strumento. Un chitarrista nel suonare mette insieme le sue capacità con la chitarra che preferisce per il tipo di suono che emette. Cosi chi canta, mette insieme le sue doti con lo strumento, rappresentato nel qual caso, dalla lingua scelta. Ogni lingua come ogni chitarra può essere più o meno adatta a un certo tipo di musica.

Ho finito di ascoltare il disco e lo riascolto ancora e ancora. Nel brano iniziale “Body Hammer” entra subito in scena la Drum Machine e lo fa in un modo che adoro. Martellate ossessive, ripetitive, lineari, quasi marziali preparano l’ingresso alle chitarre che sferragliano come motoseghe impazzite e alla voce che, per quanto possa essere lontana dal concetto platonico di bello assoluto, è perfetta nel suo trascinarsi contorta nello stile del grande Steve Albini. Ci siamo, ecco svelato il trucco. La presenza non della drum machine ma proprio di quella drum machine era un indizio troppo grande. Sull’opera degli Starslugs si staglia imponente l’ombra dei Big Black, la creatura Noise Rock, Post-Hardcore nata negli anni ottanta proprio dalla mente genialmente contorta di Steve. La sua creatura che più ho amato e apprezzato nel corso della mia vita. Aspettate, però, a giungere a conclusione. Non pensate di essere di fronte a una band di “copioni” che volevano provare a fregare un pubblico magari ignorante in materia. La storia è un’altra.
Il secondo brano “Nuke”, il mio preferito, è uno di quei pezzi che ti mette voglia di ascoltarlo ogni fottuto giorno che avresti voglia di spaccare il culo al mondo; inizia con echi vocali di stile industriale e il solito ritmo tormentato, ma quando entrano in scena le corde, ti rendi conto che questi ragazzi hanno capito come pugnalare le orecchie in modo masochisticamente piacevole. Mentre la voce si limita a urlare lamentosa, chitarra e basso creano melodie strepitose che ti entrano nel cervello come un cancro.
Se “Sad Sundays “ accelera il ritmo mantenendo intatta la natura Post-Hardcore degli Starslugs, con le successive “Sense Of Tragic” e ancor più “Betamax” e “Justice”, un sospetto diventa certezza. Dentro il tormento delle ritmiche di questo The Rite And The Technique c’è un’altra band che probabilmente, rispetto ai Big Black, saremo in meno a conoscere.  Le atmosfere tribali rievocate nel disco sono le stesse già raccontate dai Savage Republic, band Post-Punk californiana contemporanea dei Big Black, autrice di uno dei migliori lavori nel suo genere chiamato Tragic Figures (la formazione è ancora in attività e lo scorso anno ha prodotto Βαρβάκειος). La cosa che fa piacere è che, dopo aver ascoltato il disco e aver notato i chiari riferimenti ad Albini e i più nascosti alla band di Bruce Licher e Jackson Del Rey, sono andato a leggere la biografia della band teramana e questi due nomi sono gli unici inseriti nei loro riferimenti. Ciò significa due cose. Che, innanzitutto, gli Starslugs dimostrano una notevole onestà intellettuale citando in maniera schietta i loro riferimenti (calcolando che probabilmente il grande e ottuso pubblico non li avrebbe neanche riconosciuti, potevano fare i furbi e sottintendere i riferimenti). Infine, che, se volevano rifarsi a due grandi nomi del passato, l’hanno fatto in maniera egregia, riconoscibile. Il loro sound sembra la degna prosecuzione dell’operato dei due grandi gruppi degli anni ottanta e non una loro pessima copia e tutto questo è dovuto non solo alla loro bravura puramente tecnica e compositiva ma anche a tutto il lavoro di ricerca della strumentazione vintage fatta dai due. Il risultato è perfetto.
In “Uranus” sembrano riaffacciarsi (vedi “Nuke”) delle reminiscenze industriali, dark ambient proprie del movimento nato dalla mente di Genesis P-Orridge e i suoi Throbbing Gristle. Circa cinque minuti di note lente e ripetitive, quasi come una messa funebre in una chiesa sconsacrata. Non c’è nessuna parola ad accompagnare la voce. Solo corde acide e stridenti che pesano come il peccato originale nel cuore del nostro spirito.
Una voce meccanicamente in loop apre “Willie”, altro brano in classico stile Big Black che presenta una melodia nascosta tra il rumore, di quelle che non si scordano facilmente, mentre chiude l’album “Mishima”, l’ultima esplosione atomica, l’ultimo tassello della mia guerra fredda interiore, la bomba H che ha distrutto l’umanità nella mia anima.
Gli Starslugs non hanno sono preso Big Black e Savage Republic per rielaborarli e proporli con fredda imitazione. Hanno invece continuato un percorso tribale e rumoristico iniziato con Atomizer e che non poteva evidentemente concludersi nel 1992. Hanno ripreso la strada di un sound cosi semplicemente straordinario da essere fuori dal tempo, da essere talmente immediato e identificabile anche nel suo essere elementare. Sono stati capaci di creare melodie da materia tagliente e sanguinante come il Noise-Rock. È per questo che gli Starslugs mi sono piaciuti cosi tanto pur essendo probabilmente la band meno originale ascoltata negli ultimi dodici mesi. Perché la loro è una sorta di opera di recupero di sonorità che altrimenti sarebbero andate perdute nell’oblio dell’ignoranza.
Gli Starslugs hanno deciso di continuare la strada ideale di chi al mondo ha risposto con un beato vaffanculo.

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Twiggy è Morta! – Credo Mi Citeranno Per Danni

Written by Recensioni

Prima di buttare totalmente testa e orecchie nelle nuove produzioni del nuovissimo anno duemilatredici, ho deciso di mettermi ancora a spulciare tra quanto è rimasto dell’anno vecchio, sperando di trovare qualche cosa che si faccia maledire per non essere spuntato fuori prima, fosse anche per colpa mia. Fidatevi, non è tempo perso. Solo ieri mi sono deciso, ad esempio, ad ascoltare seriamente l’omonimo esordio dei King Tears Bat Trip, band Avantgarde e Free Jazz di Seattle e cavolo, se l’avessi fatto prima… In realtà non sarebbe cambiato un cazzo. Forse avrei ascoltato solo un paio di dischi di merda in meno ma non è neanche detto e forse avrei inserito quell’album nella mia classifica di fine anno, cambiando radicalmente la vita di ogni essere umano. Avrete capito che, in realtà, l’unico motivo per cui si va alla ricerca di qualcosa di bello è semplicemente per udire qualcosa di bello (wow, che scoperta rivoluzionaria) e allora, come già detto, eccomi a rovistare tra le vecchie uscite sperando di essere colpito dal disco giusto.

Twiggy è Morta! Oddio chi era Twiggy? Quella modella inglese supermagra di qualche decennio fa, se non ricordo male. Deve essere proprio il suo, sulla copertina di Credo Mi Citeranno Per Danni, quel volto, tutto scarabocchiato, come vi capita di fare con la foto di Michele Cucuzza in prima pagina alla Settimana Enigmistica, quando seduti sul cesso, noia e stitichezza, avanzano tra le vostra budella.
Molto accattivante la cover. Ho scelto cosa ascoltare.
Sembrano fare le cose in grande questi romani, almeno all’apparenza. Hanno anche un manifesto:
“L’arte è citazione. L’artista copia, il genio ruba. Ridiamo l’arte agli artisti! Twiggy è Morta! Significa che l’arte è morta. La musica è morta, verso un decadimento apparentemente irreversibile. Twiggy è il simbolo, la musa, il feticcio utilizzato. Se prima nascevano i Modena City Ramblers, i Diaframma, i Verdena, gli Afterhours, Paolo Benvegnù o Moltheni, ora è il tempo de Lo Stato Sociale, I Cani, Dente: musica da quattro soldi fatta di slogan in un periodo in cui nessuno ha più niente da comunicare. È tempo di ridare all’arte la sua collocazione.”
Direi che chiamarlo “manifesto” è un po’ eccessivo, però spiega bene il senso di quello che vogliono o forse vorrebbero fare. E poi, cazzo, hanno le palle di dire quello che sembra impossibile da far dire a qualunque artista, soprattutto emergente, del mondo Indie italiano. Lasciando stare il mio giudizio, hanno il coraggio di proferire parole come… ora è il tempo de Lo Stato Sociale, I Cani, Dente: musica da quattro soldi fatta di slogan… Parole che mai, nel corso di un’intervista anche con veterani della scena, sono riuscito a cavare dai loro (dei musicisti) denti. Già solo per questo, Twiggy è Morta! mi fa simpatia. Mentre scorre il loro Ep, cerco di capire chi sia questa band. Come detto, si tratta di quattro ragazzi laziali, Paolo Amnesi (voce e chitarra), Andrea La Scala (chitarra), Valerio Cascone (basso) e Simone Macram (batteria) con già all’attivo un Ep autoprodotto e più di cinquanta esibizioni live e un bootleg, L’arte Marziale (lo trovate in download gratuito o anche su You Tube), tratto un loro live alla Festa De L’Unità. Come avrete capito, i Twiggies (pare che cosi si facciano chiamare) si sono dati un ruolo da supereroi nel mondo Indie, salvatori della musica contro il male rappresentato dalle canzonette nostrane. Assolutamente niente da dire. Anzi, magari ci fosse qualcuno a ridare linfa artistica alla nostra musica. L’unica cosa che mi viene da sostenere è: “Non è che state esagerando?”. Magari converrebbe prima scrivere, suonare, farsi sentire, costruire arte che non lo sia solo per chi la fa, ma anche per chi ascolta e poi, aspettare che qualcuno si renda conto, magari con qualche aiuto, che questa è Musica e non Lo Stato Sociale o I Cani. Non lo dico perché l’arroganza può essere antipatica ai più ma soprattutto perché si rischia di fare la figura dei coglioni.
Intanto che il primo album Le Parole Sono Un Muscolo Involontario, sempre per l’HitBit Records, sarà pronto, io continuo ad ascoltare questo Ep. Sentiamo che succede.
Succede che si parte con il Rock molto classico de “Il Parossismo Del Cuore”, brano che nella sua semplicità melodica e nelle sue esternazioni derivative è abbastanza apprezzabile anche se non proprio originale. Ma questa cosa dell’originalità, come avrete capito, non riguarda necessariamente l’arte o il genio, almeno a detta di tanti, tra cui i nostri Twiggies (vedi il manifesto). Se da un punto di vista musicale i possibili riferimenti sono tantissimi, sia italiani sia stranieri, in ambito vocale, si sfiora in maniera preoccupante non tanto la copia o il furto, ma la parodia involontaria di Giovanni Gulino (Marta Sui Tubi) e Pierpaolo Capovilla (Il Teatro Degli Orrori). Più distesa l’atmosfera di “Crepapelle”, che insegue, a differenza del brano precedente, linee soprattutto vocali più Pop, anche grazie ad armonie sonore languide e struggenti e un cantato a volte quasi solo sussurrato. Con “Legno”, la musica di Twiggy è Morta! sembra fare per un attimo un passo indietro, verso le sonorità del Rock alternativo anni ’90 stile Diaframma, fatto di riff puntuali e mai ridondanti. Il testo non si occupa più dell’amore ma guarda prima all’esterno, attraverso un pessimismo letterario che vi sfido a riconoscere e poi si fionda alla ricerca del genio presente dentro l’animo di ognuno di noi. L’ultimo brano, “A Bocca Aperta” è quello che più di tutti, specie nella sezione ritmica, richiama il sound delle nuove leve della No Wave, come Editors, Interpol, The National, ma anche dei Piano Magic ultimo periodo. Il testo invece sembra essere una specie di manifesto (anch’esso) di quello che significa Twiggy è Morta!, affrontando il tema della bulimia culturale e sociale in un metaforico parallelo con l’anoressia di una modella come Twiggy, appunto.

Nel complesso, quello che ho tra le orecchie è un buon Ep per una band in cerca del suo spazio che mostra ottime capacità esecutive ed anche una certa discreta voglia di essere diversi dalla massa, attraverso la riscoperta di una qualche forma di classicità Rock e soprattutto una scrittura lirica fortemente “arrogante” e concettualmente aggressiva. In realtà, preso come punto di riferimento quello che dovrebbe essere l’obiettivo della band palesato nel proprio manifesto, ci sono alcune cose che non vanno. Innanzitutto, in molti passaggi, non è chiaro quale sia il ruolo dell’ironia nelle loro esternazioni.  Inoltre, fermo restando e preso per buono il concetto che anche l’artista o il genio possono copiare o rubare, è anche vero che artista e genio, quando imitano, migliorano. Nel nostro caso, preso come punto di riferimento il Blues e il Rock Alternativo, la musica dei Twiggies, vi ruota attorno, schiantandosi di volta in volta contro Marlene Kuntz, Placebo, Afterhours, oltre ai già citati, senza mai riuscire, partendo dalla propria orbita, a seguire una strada diversa e comunque più efficace. In merito ai testi, certamente non possiamo negarne l’originalità e sicuramente, sotto questo punto di vista, la loro voglia di distinguersi dal gregge è ben rappresentata ma è anche vero che non ci sono molti spunti davvero poetici o affascinanti.
Credo Mi Citeranno Per Danni è quindi un Ep pieno di buona musica, stracolmo di buoni propositi ma anche una piccola delusione, visto l’obiettivo posto dai quattro laziali.
La speranza è che, con l’uscita del prossimo disco, alcuni limiti possano essere superati. Non vorrei minimamente che ridimensionassero la loro filosofia, anzi. Voglio solo che ce la mettano tutta per dimostrarci che la loro musica non è intrattenimento ma arte, voglio che ci facciano vedere che “se prima nascevano i Modena City Ramblers, i Diaframma, i Verdena, gli Afterhours, Paolo Benvegnù o Moltheni” ora non è solo il tempo de Lo Stato Sociale, I Cani, Dente ma anche di band ancora capaci di creare opere d’arte. Magari band dal nome Twiggy è Morta!.
Una cosa importante che dovrebbero comprendere i Twiggies è che la musica ha la forza di essere arte, a volte intrattenimento o anche tutte e due le cose. L’errore è di chi scambia l’una per l’altro più che di chi fa l’una o l’altro, sempre che non spacci i suoi cazzeggi per opere di valore assoluto. Non è colpa de Lo Stato Sociale, se il loro fare canzoni per divertire e divertirsi è stato scambiato da qualche idiota per il futuro della musica italiana. Prendersela con loro sarebbe come prendersela con chi fa i meme, incolpandoli di distruggere il valore artistico del fumetto. Se cercate dei nemici, cercateli tra chi si annoia a vedere Lars Von Trier e si fionda al cinema per Boldi a Natale, tra chi legge Fabio Vola e ne decanta le capacità filosofiche al bar, tra chi ascolta I Cani convinto della loro genialità e sparla del ritorno di “quel vecchiaccio” di David Bowie. Loro sono il Male. La gente è il Male. L’ignoranza è il Male.

http://www.youtube.com/watch?v=9qUIOo02COw

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Alanjemaal. Parte Seconda!

Written by Interviste

In questa seconda parte, Alberto Casiraghi ci parlerà della loro musica e della scena indipendente italiana, della loro vita, di “Dalla Ruggine“, della scena underground di Italia anni ’90, dei suoi sogni e delle sue paure. Buona lettura.

Nel disco, spaziate dalla psichedelia sixties, al Post Rock, dal Funky al Prog ed al Math, passando per il Noise e il più classico Rock italiano. Quello che viene fuori è un suono difficile da inquadrare eppure non proprio originalissimo. Voi come lo definireste?
Non lo definiamo. Non credo che abbia questa importanza, anche perché per esperienza, ognuno trova nella nostra musica quello che vuole. Per esempio, tu citi il funky, che io non porterei mai come esempio. Certo, capisco che il basso di Trappole possa ricordare l’epoca del cross-over o delle cose alla Fugazi, anche perché quel brano fu scritto con il precedente bassista. E anche il prog è una cosa lontana dai nostri interessi, se con prog intendi quel genere preciso. Se invece si intende un modo di scrivere dove la progressione degli accordi e delle armonie è un fattore importante allora siamo anche prog. Se intendi Genesi e Yes, allora ti dico che siamo fuori strada. Ma anche qui, io sono un malato della scuola canterburyana, anche se quello non è comunemente denominato prog. Comunque ritornando alla domanda, se èproprio dobbiamo ci definiamo, un po’ scherzosamente, Indie Psychedelic Post Rock Post Punk, il che vuol dire tutto e niente.

C’è qualche nome nuovo che vi assomiglia o vi piace molto? Sia italiano che straniero, ovviamente.
Artisti che ci piacciono ce ne sono molti e i nomi li ho fatti prima. Non credo che però ci sia qualche gruppo che ci assomigli. Pur essendo assolutamente convinto che tutta la musica rock contemporanea sia in qualche modo derivata, e quindi musiche assolutamente nuove e inedite è difficile ascoltarne, sono altrettanto sicuro che il nostro sia un calderone musicale molto personale. Non inedito, sicuramente derivato da tutto quello che c’è stato prima e da tutto quello che abbiamo ascoltato e amato, ma altrettanto personale. E’ la somma del tutto quel che conta; la sua sincerità e la sua onesta.

Una domanda personale. Cosa avete fatto dal 2001 al 2012? Oggi pensate di dedicarvi solo alla musica o farete anche altro?
Se con “dedicarci alla musica” intendi che possiamo vivere di essa, ti rispondo di no. E’ assolutamente utopico pensare che in Italia si possa campare con questo mestiere, ed è così anche per gli artisti molto affermati. In Italia in questo momento è già un miracolo se per un concerto si venga pagati. Solo dieci anni fa le cose erano nettamente diverse. Ovviamente abbiamo tutti un lavoro, una famiglia, i nostri affetti e le nostre passioni. Anche per una questione anagrafica le nostre vite private sono molto strutturate. Riuscire a suonare costantemente è già di per sé un mezzo miracolo. E in parte con questo ti ho risposto alla domanda riguardante cosa abbiamo fatto in questi dieci anni. Abbiamo vissuto: alcuni di noi si sono sposati, alcuni di noi hanno avuto figli, alcuni di noi hanno dovuto cambiare lavoro, alcuni di noi hanno cambiato compagna. Siamo in cinque: metti solo in fila due di queste vicende – di solito ricorrenti nella vita di ognuno – e capisci in fretta come sia stato possibile entrare in un buco di così tanti anni. E’ molto banale, ma altrettanto vero. Quello che facciamo è un misto di passione, sacrificio, determinazione, visionarietà e amicizia. Però, perché tutto funzioni nelle nostre vite private deve esserci un minimo di serenità, altrimenti viene a mancare automaticamente la concentrazione e la volontà di mettersi totalmente in gioco. Non è che queste cose si decidono a tavolino. Molto spesso succedono e quando te ne sei accorto sono già passate. Ecco, quando ci siamo accorti che avevamo deragliato erano passati un bel po’ di anni. Ma quando ce ne siamo accorti e abbiamo capito cosa era successo, e cosa volevamo fare da lì in avanti, siamo ripartiti.

Come già detto, il vostro disco è nato nel 2001. I pezzi che possiamo ascoltare oggi sono esattamente gli stessi di allora? E l’idea della vecchia lavatrice in copertina e del nome “Dalla Ruggine” è cosa nuova, immagino.
Dalla ruggine è stato pubblicato nella stessa forma del master che abbiamo prodotto del 2002. Non abbiamo fatto aggiunte e variazioni nel frattempo, e oggi si può ascoltare quello che si sarebbe potuto ascoltare dieci anni fa, ne più ne meno. Oggi non suoniamo quasi più quei brani dal vivo, tranne Allucinazione ipnagogica. E’ un’evoluzione naturale, cercare nuove strade, nuovi stimoli. Nella scaletta degli ultimi concerti ci sono quasi tutti i brani del nuovo disco che stiamo ultimando e addirittura brani nuovissimi. Però, pur essendo passato molto tempo e avendo oggi un suono diverso credo ci sia una continuità tra quello che suonavamo allora e quello che proponiamo oggi. Almeno, noi pensiamo che ci sia. Non so se questo viene avvertito da chi ci viene a sentire dal vivo.

Per quanto riguardo la copertina con la lavatrice e il titolo “Dalla ruggine” entrambe sono state decise a ridosso della pubblicazione dell’album. Cercavamo un concetto che potesse esplicitare queste canzoni riesumate da un cassetto, ma anche il fatto che in qualche modo gli Alanjemaal tornassero a suonare seriamente. Per caso, navigando in internet, un po’ di tempo fa, nel portfolio fotografico di una mia amica – una giovanissima e bravissima fotografa, Marta Rossetti http://www.flickr.com/photos/marta_vs_elan/ –  ho visto questa foto di una lavatrice arrugginita. Mi è subito sembrata un’immagine molto semplice, ma con una forte valenza poetica, tanto che il titolo è stata una conseguenza spontanea e immediata.

Che differenze avvertite tra la scena rock italiana di inizio millennio e quella attuale, non solo in ambito compositivo e artistico?
Non so se ci sia differenza. O meglio, non vorrei che le differenze che io noto siano dettate dal fatto che per me gli anni dell’entusiasmo quotidiano per quello che sento e della scoperta continua sono passati da un pezzo. E’ una pura questione anagrafica. Non so se sia questo il motivo, ma mi sembra che sia più accentuata l’intenzione di emulare i modelli, confronto a dieci/venti anni fa. Certo, prima c’era sicuramente più ingenuità e magari meno perizia tecnica. Ora qualsiasi gruppo alle prime armi ha un bagaglio tecnico che io negli anni 80 mi sognavo. C’è più consapevolezza dei propri mezzi ma anche meno genuinità, meno spontaneità. Ma ripeto, magari è solo come la vedo io. Ma la cosa che più mi preme è la differenza che trovo tra il pubblico, e questo lo dico da ascoltatore che va a vedere un sacco di concerti ogni anno. Ecco, trovo che ci sia meno attenzione per l’esibizione live, meno voglia di sentire musica dal vivo, ma soprattutto meno voglia di lasciarsi stupire e magari andare a sentire qualcosa che non si conosce minimamente. Vedo molta pigrizia e molto disinteresse verso la cultura in generale. E per me questo è un grosso problema.

Il mio tormentone. L’arte è prostituzione, diceva Baudelaire. Si può (soprav) vivere oggi, solo della propria arte?
No, almeno in Italia è escluso se non per una cerchia ristretta di nomi. E non penso che cambierà.

Quale è il vostro sogno di musicisti e la vostra paura più grande?
Il nostro sogno è semplicemente quello di comporre la miglior musica possibile, quella che a noi per primi piacerebbe ascoltare. La paura più grande è che nonostante averla scritta a nessuno importi.

Una brutta domanda, alla quale vi sfido a dare una bella risposta. Chi è la grande truffa dell’Indie italiano?
Sinceramente non so cosa rispondere. Ci sono tante band che non mi piacciono, ma non so se si possono definire “truffatori dell’indie italiano”. Anche perché a malapena potrei definire “indie italiano”.

Dove potremo ascoltarvi nei prossimi mesi, dal vivo?
Fosse per noi in tutta l’Italia. Più probabilmente in Lombardia.

Che differenze ci saranno tra “Dalla Ruggine” e il prossimo album?
Il prossimo album è composto solo da brani cantati, mediamente più corti, mediamente più semplici. Più rock che post rock. Magistrali dice che suoniamo come una band degli anni 70. Non sono molto d’accordo, ma è anche vero che faccio fatica a definire il nostro suono.

Sceglierete ancora la strada del download gratuito?
Dipende se troviamo un’etichetta o meno che ci pubblichi il cd. Il download gratuito può comunque essere una opzione, da affiancare alla vendita del cd, per la promozione del gruppo.

Vi siete mai chiesti dove sarebbero potuti arrivare gli Alanjemaal se il disco fosse uscito undici anni fa? Cosa vi siete risposti?
Obiettivamente, non molto lontano. E questo al di là del valore intrinseco del disco. Eravamo convinti già da allora che il cd avrebbe trovato poco pubblico, e questo soprattutto per la non facile catalogazione in uno stile. Se ci pensi, per un gruppo delle nostre dimensioni questo può essere un problema. Al di là di ciò, c’è sempre da rapportarsi con le dimensioni del mercato discografico italiano, che proprio in questo decennio si sono ridotte ai minimi termini. Certo, probabilmente avremmo suonato molto di più in giro e oggi non saremmo qui a promuoverci come se il gruppo si fosse appena formato. Cosa che ci mette in concorrenza – che brutto concetto – con band i cui componenti hanno mediamente dieci o venti anni in meno di noi. Questa è una vera difficoltà.

 

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