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Still Leven – Cases of bluntness

Written by Recensioni

Non si esce vivi dagli anni ’80, ammoniva Manuel Agnelli, come a dirci che possiamo girarci intorno quanto vogliamo, possiamo anche storcere il naso per certe sonorità e un certo look, concedetemelo, barocco, ma quella decade lì ci si è tatuata addosso  e non possiamo che accettarlo.
La questione, certo, è come ci si rapporta ed essa. Non se ne esce vivi se non si fa altro che continuare a scimmiottare le glorie Eighties, ma ci si sguazza con grandissima dignità se si fa proprio quel mood e quelle atmosfere tasti erose, se le si ricontestualizza al presente, se le si ammoderna.
Ecco cosa hanno saputo fare sapientemente gli Still Leven, trio genovese (Giacomo Gianetta, Greta Liscio, Matteo Spanò) che non guarda alla new wave e al dark fingendo che non ci siano stati il grunge e il post-rock e la house, ma che anzi, fa proprio della commistione con sonorità più moderne, la loro fortuna.
Immancabili le tastiere, sintetiche, fredde e quasi asfittiche, come un approccio fedele richiede, ma smorzate dalle chitarre, decisamente più recenti per ispirazione, con distorsioni piene e rotonde, che impastano le basse frequenze e aiutano il basso nella creazione di un groove caldo nonostante le premesse.
Cases of Bluntess riassume benissimo quello che sono stati gli anni ’80 per la dark e l’elettronica, in otto tracce tutte tiratissime e potenti. Il disco apre con la cassa in quattro di “Soulserching” e una voce che ricorda vagamente quella di Dave Gahan e prosegue con un tripudio di piatti e la voce di Greta sporca, metà punk e metà Siouxsie and the Banshees in “No moleskine”. Decisamente più tipicamente new wave e danzereccia, anche per il ritornello martellante, ripetuto allo stremo, è “Forever is just for a while”, mentre “Sex we can” e “Bring the cold war kids home” sono decisamente più elettro-dark: ricordano molto i tedeschi Arcana Obscura e i belga Kiss the anus of a black cat: voci e tastiere guidano la melodia e le tracce si fanno eteree e impalpabili, nonostante la marcata corporeità suggerita dalla sezione ritmica.
Lost in texture” è forse il brano meno riuscito del disco, tutto spinto all’acuto, con una quantità di tastiere quasi eccessiva, tutto troppo, troppo, Eighties (e per più di sette minuti, oltretutto).

Perdoniamo subito, però, questa momentanea e apparente perdita della loro cifra stilistica grazie a “Possession”: apertura in fade in, lenta e meditativa, che esplode in un ritornello dance con chitarra e tastiera che dialogano a suon di riff, la voce femminile dietro, mero strumento musicale che potrebbe dire qualunque cosa senza che questa abbia importanza, e quella maschile, grindcore e quasi parlata. Senza dubbio è la traccia più elaborata e complessa per quanto riguarda gli arrangiamenti e la cura dei dettagli melodici di ogni singolo strumento. The Cure e Depeche Mode sono prepotentemente i riferimenti di “Weekends of spring”: troviamo i primi nello scarto armonico costante maggiore-minore e nelle sonorità del basso, mentre i secondi sono stati perfettamente assorbiti nella realizzazione dell’arpeggio circolare delle tastiere.
Gli Still Leven hanno le potenzialità per riuscire a conquistare i nostalgici e ad emergere nei club, soprattutto d’oltremanica: sembrano averlo capito anche loro, visto che il 20 aprile terranno un concerto a Genova in anteprima al tour che li vedrà impegnati in Gran Bretagna.
Non resta che augurar loro buona fortuna.

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