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Granturismo

Written by Interviste

Dicono di fare Calypso Punk, con Caulonia Lumbo Ya Ya tornano a fare parlare di loro a tre anni dall’esordio discografico (Il Tempo di Una Danza, per Live Global) e si beccano il massimo dei voti dalla sottoscritta. Claudio Cavallaro (voce, chitarra e autore dei testi) ed Enrico Mao Bocchini (batteria e cori), mi hanno raccontato come è nato il disco, com’è stato il ritorno in studio e quali sono i loro criteri compositivi. Genuini e poliedrici come si intuisce dall’ascolto dei loro lavori, i Granturismo (per lo meno i due terzi intervistati) mi hanno anche confidato un paio di opinioni forti e ben delineate sul panorama musicale attuale, tanto nostrano quanto straniero, sull’eterno conflitto tra live e studio e su Music Raiser

Caulonia Limbo Ya Ya è un gran bell’album e anche un gran bel titolo, che risulta davvero azzeccato dopo aver sentito l’album anche solo una volta. Da dove arriva la scelta del nome?
Claudio: è una specie di formula voodoo che usiamo contro le cattive vibrazioni, contro il maltempo, la grandine, gli avvocati, la calvizie, gli hipster, le malattie veneree, le bollette del gas, gli sbirri, cose così. Una notte mi ha fermato un carabiniere e mi ha chiesto patente e libretto, poi voleva farmi il test dell’alcool ma io gli ho urlato in faccia appena in tempo CAULONIA LIMBO YA YA!!! Così lui si è messo sull’attenti, mi ha fatto il saluto militare e mi ha lasciato andare augurandomi la buonanotte.

Come sono nati i brani dell’album? Chi anticipa l’altro fra musica e testo?
Claudio: Ho scritto le canzoni  principalmente in casa, su una chitarra acustica, in autunno e inverno. Poi quando ci siamo trovati a provare a febbraio del 2012 con l’attuale formazione di Granturismo – che al momento oltre a me, alla chitarra e alla voce, comprende Enrico Mao Bocchini alla batteria e Alfredo Nuti alla chitarra – capitava che ne tirassi fuori qualcuno e lo usassimo come ceppo da modellare insieme come dei veri mastri falegnami. Di solito scrivo prima la musica e poi ci adagio sopra un testo, che oltre a raccontare qualcosa deve avere il sound giusto per poter essere cantato. La parte musicale è molto più intuitiva, appena ho l’idea per una melodia la sviluppo in maniera rapida, mentre i testi mi portano via molto più tempo. Sono capace di aspettare la parola giusta per mesi e mesi. Ho un limbo di una cinquantina di canzoni praticamente finite ma che non tiro fuori da lì perché magari qualche sillaba non mi suona ancora bene.

Non era la prima volta che entravate in uno studio di registrazione. Avete notato qualcosa di diverso rispetto ai vostri precedenti lavori? Mi riferisco tanto a una maggiore consapevolezza tecnica, quanto a una tendenza stilistica diversa.
Claudio: la sostanziale differenza rispetto al primo disco dei Granturismo è che questa volta abbiamo fatto esattamente quello che ci pareva, mentre magari in passato è capitato che mi affidassi a produttori navigati perché pensavo di non avere abbastanza esperienza e di non essere in grado di produrre un disco come si deve. Puoi anche farti produrre da Phil Spector o Danger Mouse, ma se non condividete un immaginario comune, c’è il rischio che il tuo suono e il tuo messaggio vengano stravolti. Registrando questo disco invece avevamo molta fiducia nei nostri mezzi e c’era molta coesione, e questo si sente.
Enrico: Abbiamo arrangiato i pezzi insieme, cercando di usare al meglio il poco che avevamo (una batteria, due amplificatori e due chitarre), abbiamo fatto attenzione a non suonare troppo, lasciando anche molti spazi vuoti. Poi siamo corsi in studio e li abbiamo spuntati in tre giorni.

I vostri testi sono spesso ironici, sia discorsivi, sia frammentari e cinematografici. L’immaginazione sembra essere sì un espediente comunicativo ma anche una via di fuga. Da cosa scappano i Granturismo e il loro pubblico?
Claudio: Di sicuro siamo in fuga, è una cosa che avverto, anche se non ho ben focalizzato da cosa stiamo scappando. Forse scappiamo dalle “perversioni del tempo che fa”. Forse scappiamo da qualcosa che ci ha già trovato.

Tropici, Mambo, giungle urbane, rime più o meno sottili, riferimenti letterari e richiami Pop. C’è sempre una grande attenzione a ciò che è “altro”. Come si inseriscono i Granturismo in questo panorama così variopinto?
Claudio: C’è sempre una grande attenzione a ciò che è altro: bello, hai individuato il punto di tutta la questione. Siamo sempre alla ricerca di nuovi stimoli, cerchiamo sempre di spingere i confini un po’ più in là. Sono una persona molto pigra, quindi se decido di attivarmi di sicuro non mi va di fare la stessa cosa due volte. Bisogna sempre temere quello che può partorire una mente cauta, o peggio, annoiata.
Enrico: Mi è sempre piaciuto il termine altro. Con i Granturismo cerco sempre di suonare in modo lontano forse perché i miei ascolti vengono da lì, sinceramente di musica attuale italiana ne ascolto veramente poca. Però mi sembra che il panorama italiano sia molto frammentato, direi che c’è posto anche per noi.

Nordici come i Kings of Convenience e caldi come Gilberto Gil. Secondo voi c’è un futuro geografico della musica? E quale potrebbe essere il ruolo dell’Italia? Insomma: il nostro panorama musicale attuale può tenere testa a quello estero e magari arrivare a influenzarlo?
Enrico: Forse non riuscirà mai a fare i grandi numeri come quello americano, però può influenzarlo sicuramente, anzi penso che succeda tutt’ora come in passato. Riesco benissimo a immaginarmi un produttore americano che gira su Youtube cercando qualche cosa di italiano che lo possa ispirare… sicuramente non esiste più un solo centro geografico della musica, sempre che sia esistito…
Claudio: Con la rete e canali come Youtube o Spotify non esiste più un tempo né un luogo: galleggiamo tutti nello stesso sconfinato, disordinato oceano. C’è da dire che tendenzialmente all’estero sono più aperti ad ascoltare prodotti di altri paesi. Basti pensare che proprio lunedì scorso la Radio Nacional De España (la RAI spagnola, per capirci) ci ha dedicato un’intera monografia durante uno dei suoi programmi più seguiti. Invece in Italia spesso non consideriamo nemmeno gli stessi italiani.

Il live è la dimensione più importante di ogni produzione musicale, sia per il contatto diretto con il pubblico dovuto alla compresenza di emittente (l’artista) e ricevente (il pubblico), sia per la chiarezza con cui emergono le competenze tecnico-strumentali. Voi vi sentite fedeli alla resa in studio? Come definireste il pubblico di un vostro concerto? Rispecchia il vostro ideale di pubblico?
Enrico: Secondo me lo studio e il live sono due cose abbastanza diverse, esistono tantissime band che dal vivo sono fortissime ma in studio non riescono a fare bei dischi, e viceversa. Noi cerchiamo di stare in mezzo a questo, anche se ultimamente lavorare in studio ci piace tantissimo!
Claudio: Con questo disco la resa studio e live praticamente combaciano, dal momento che abbiamo registrato tutto in presa diretta con quattro microfoni. Il nostro pubblico cambia continuamente, a seconda delle zone d’Italia e dai momenti. A volte il pubblico cambia per motivi che vanno aldilà della musica. Per farti un esempio, nel tour del primo disco abbiamo suonato in un paesino in Toscana, vicino a Lucca. Era pieno di ragazzine, boh. Io quella sera non ero molto in forma e durante il concerto ho vomitato sul palco e poi sono svenuto. Quando siamo tornati a suonare nello stesso posto un anno dopo, il pubblico era composto solo da ultras e punkabbestia.

Tra tutte le diavolerie che ci si è dovuti inventare per emergere, promuoversi, trovare finanziamenti a un progetto musicale, c’è Music Raiser, che è arrivato non solo ad attirare l’attenzione di artisti emergenti ma anche di musicisti che sono emersi da parecchio e che cercano nuovo lustro e festival come ArezzoWave. Che ne pensate?
Claudio: Lo stai chiedendo a uno che per realizzare Caulonia Limbo Ya Ya e promuoverlo si è autofinanziato e ha fatto un buco di svariate migliaia di euro in banca, e non sa se riuscirà mai a recuperarle. La cosa positiva è che la banca mi chiama ogni settimana per sapere come sto, e questo mi fa sentire meno solo, so che qualcuno mi pensa e ci tiene a me. Non sono d’accordo sul fatto che gli artisti promuovano collette per finanziare i propri lavori, le raccolte fondi per me andrebbero fatte solo per beni di prima necessità o per cose tipo i cataclismi e i terremoti. Se ami una cosa e ci credi devi essere pronto a rischiare tutto quello che hai, e anche di più, senza nessuna certezza… altrimenti che amore è? Avevo un amico che si era innamorato di una ragazza che era scappata in India, così lui qualche mese dopo ha mollato il lavoro e tutto quanto, ha comprato un biglietto di sola andata per Bombay ed è andato là a cercarla dappertutto, senza sapere se la cosa sarebbe andata a buon fine o meno, ma solo perché sentiva di doverlo farle. I veri artisti dovrebbero avere un tipo di atteggiamento del genere.
Enrico: Se non ci sono soldi per fare musica sarebbe giusto che la musica venisse realizzata senza quelli, pensa anche a che nuove estetiche musicali potrebbero nascere…

La domanda è scontata ma d’obbligo: in quale direzione muoverete i prossimi passi?
Claudio: è un po’ presto per parlare, però nella pausa tra un concerto e l’altro io ed Enrico ci incontriamo per suonare. Abbiamo improvvisato uno studio casalingo e, dal momento che abitiamo molto vicini, ogni volta che abbiamo qualche ora libera la dedichiamo a lavorare su qualche idea nuova. Abbiamo anche registrato 5-6 nuove tracce. Hanno un suono molto radicale, e un attitudine piuttosto Rock’n’roll: alcune si basano su groove torbidi e scuri, altre sono delle gioiose esplosioni di eccitazione selvaggia. Voglio proprio vedere che testi riuscirò a scrivere sopra delle cose del genere! Ma non è detto: all’ultimo momento potremmo sempre decidere di buttar via tutto e ripartire verso un’altra direzione.

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