Nel nuovo album dell’artista uruguaiana varchiamo soglie che mettono a dura prova il nostro subconscio, realizzando che i serpenti non sono esattamente ciò che sembrano.
[25.04.2025 | Unguarded | electronic, club music, deconstructed club]
Premessa: quelle che dovevano essere poche righe pronte a far parte della rubrica Sinapsi si sono inaspettatamente trasformate in ciò che definiremo una brevissima recensione fatta di pancia, in una tarda serata di inizio giugno.
“Morte a Videodrome, gloria e vita alla Nuova Carne!”: così si chiudeva una delle pellicole divenute (per fortuna) cult degli anni ’80, nata dalla geniale e avanguardistica mente di sir. David Cronenberg.

Scomporre per dar vita a Nuova Carne.
Decomposizione, disgregazione, futurismo, in una chiave visceralmente corporea e reale, per quanto assurda. Tutto ciò è esattamente quello che emerge dal nuovo incredibile lavoro della musicista e produttrice di origini uruguaiane – di stanza in Irlanda – Lila Tirando a Violeta.
Trasformando quello che per qualcuno potrebbe essere un brutto incubo (non per lei) su dei serpenti in una vera e propria opera a metà tra purgatorio e inferno, la musicista ci lascia entrare nel suo microcosmo fatto di dub in continua decostruzione, sperimentalismi su oscuri ritmi latini, quasi reggaeton, ma non lasciatevi ingannare dal suddetto termine. Io non ascolto reggaeton.
I generi vengono distrutti e rimessi in piedi in modo del tutto imprevedibile, tra voci cyborg/sci-fi e sonorità troppo folli per una “banale” pista dancefloor, troppo distorti e scomposti per un rave party illegale in posti fatiscenti.
Cupi tribalismi ritualistici si intrecciano a BPM sparati alla velocità della luce, su strade irregolari che abbracciano ora IDM, ora techno, ora drum and bass, il tutto in chiave body horror, esattamente come se stessimo assistendo all’ennesima visione di Videodrome senza riuscire ad aprire bocca se non per respirare quell’aria di New Flesh che entra dalle nostre porte, con un brivido lungo la schiena che ci avverte di quello che potrebbe accadere se non lo accogliamo.
Sacro e profano – già intuibili dal curioso e variopinto artwork – si mescolano in un gioco di suoni dissacranti, quasi fastidiosi a volte, penetrando sottopelle senza lasciarci più andare.
C’è anche l’Islanda di Björk.
Non a caso, a riprova del fatto che non stiamo parlando di una musicista qualsiasi, nel brano Ostrich/Nandú l’artista vanta la collaborazione del trio islandese di musica elettronica sideproject, con cui una certa Björk aveva già lavorato ad un remix di una traccia facente parte del suo disco Fossora.
Per comprendere davvero Dream of Snakes, correte a metà album: dalle tenebre dubstep dipinte in Rest&Relaxation, si arriva ai battiti al cardiopalma di Eye Slice senza mai riuscire a riprendere fiato, fare un sorso d’acqua, asciugarsi la goccia di sudore che inevitabilmente cadrà sul volto. Nulla è concesso, ma al tempo stesso tutto è lecito.
Un’artista fenomenale dagli ascolti trasversali che vanno dai Suicide alle soundtrack cinematografiche, dai This Mortal Coil al folk sperimentale, dal post-punk di Siouxie alla contemporaneità di Dean Blunt.
A mani basse, questo è uno dei dischi che più ha sconvolto il mio 2025 musicale fino ad ora. Spero entri in qualche modo anche nel vostro cuore, che sia per amarlo, che sia per odiarlo. Di sicuro non può lasciare indifferenti. Buon ascolto.
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Last modified: 9 Giugno 2025