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Redska – La Rivolta

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Tempi propizi, bollenti e puntuali questi che corrono e vanno a sbattere con “La Rivolta” del combo romagnolo dei Redska, il nuovo disco e prova muscolare in quattordici tracce che pare proprio arrivare come un temporale giustiziero a freddare i calori che, poteri forti, 27 che non si raggiungono più, tasse e situazioni estere che sfuggono ad ogni controllo, e i “troppi controlli” crudeli dei nostri giorni, ci sgozzano come pecore sacrificali; i loro amplificatori, trombe, ska no-limits, antifascismo, reggae, eroi quotidiani, nuove favole e vecchie storie, coraggio e sangue elettrico, sono da anni la risposta “carrettiera” che infesta di voglia di lotta e rivoluzione, le piazze di questa nostra Italietta zimbello di potenti e nuovi invasori, la loro forza “gunner” è quella di farci saltare il cuore in gola per riprenderci il mondo nelle mani e toglierlo a chi ci gioca come fosse un pallone da football.
Il combo romagnolo condensa nella tracklist la “ventilazione sonora” dei quattro anni di tour nazionali ed europei sold out che li hanno visti protagonisti unici di un apparato spettacolare idealistico e di power-force sociale, un disco stradaiolo, ideato, concepito e nato dalla voglia di far esplodere mille NO in mano ai tanti Mangiafuoco della società.

Jumping, pogo, stage-diving e pensieri per un mondo migliore e senza scordare i piccoli grandi uomini che hanno lasciato loro malgrado un segno nella nostra mente, Stefano Cucchi ucciso dalla Polizia “Bastardi senza gloria”, Vittorio ArrigoniEroi”, e le tantissime prese di posizione politiche che urlano danzando per la loro libertà come il No al razzismo “Legato dalla Lega”, il No all’omofobia “Quello che sei”, i giovani precari dentro lo ska-swing “Studente precario antifascista” che ospita la voce di Kino degli Arpioni, poi la lotta alla pedofilia dei porporati “Lettera a sua santità”, contro il calcio violento “Holligan RudeBoys” insieme al cantante degli Offender e altre scosse telluriche che fanno tremare le circonferenze irte di questo bel disco epilettico.

Clash, Red-corner, Southampton, ed un’inesauribile carica di “contro”, una convincente massa di “Sveglia” che tra ragamuffin, Jamaica di casa nostra, punk rossastro e grandi idee in avanti da quello schiaffo robusto e danzereccio necessario per riaprire gli occhi, casomai ce ne fosse bisogno, ma a vedere i tempi d’oggi pare proprio di sì, e loro i Redska sono di nuovo qui a ricordarcelo, a farci sudare, divertire e a darci quel calcio in culo per non arrenderci mai, come dice il Subcomandante Marcos all’ingresso nello stereo di “Sounds of Revolution”.
Pugni chiusi in alto e Hasta Siempre Redska!

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Gasparazzo – Obiettivo Sensibile

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Viaggi in Africa, l’odore dell’oceano, il profumo del deserto, tanto reggae e la naturalezza del rock per il disco Obiettivo Sensibile dei Gasparazzo. Le esperienze musicali dei vari componenti della band sono nettamente diversificate tra loro e questo si sente parecchio nel sound dove Alessandro Caporossi, Generoso Pierascenzi (ex Squit) e Lorenzo Lusvardi (ex A.F.A.) mettono a disposizione dei Gasparazzo tutte le loro abili conoscenze musicali. Il risultato è sicuramente di un album suonato con tanta tecnica e disciplina (per citare i Luminal) senza mai scendere nell’errore dello sproposito artistico, Obiettivo Sensibile non vuole strafare ma non riesce quasi mai ad emozionare nonostante si parli di esperienze vissute direttamente dal gruppo (Frutti tropicali). Il disco registrato interamente in presa diretta presso una ex fabbrica attrezzata a studio di registrazione ha dalla sua un’energia indiscutibile che mostra subito le intenzioni folkettone dei Gasparazzo, loro non hanno paura di niente e cercano di portare verso l’ascoltatore un suono poco curato e molto sentito, a detta loro molto garage. Che poi sul suono “garage” si potrebbe aprire una discussione infinita.

Ognuno porta avanti le proprie idee giocando con musica e poesia in maniera elegante, non togliendo mai quel tocco rock che indurisce il tutto, il significato della musica andrebbe preso da pezzi come La danza di Dioniso o Tina, anche le cover se ben indirizzate possono avere il proprio effetto benefico per il risultato finale del concept (Tornerai). Per il resto Obiettivo Sensibile suscita sprazzi impercettibili di entusiasmo scivolando comodo comodo verso un finale che non lascia ne gloria ne perplessità, un genuino lavoro di musica italiana che merita di essere ascoltato e apprezzato ma che di certo non ricorderemo negli anni come il disco stratosferico dei Gasparazzo. Pane al pane vino al vino.

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Ilenia Volpe – Radical chic un cazzo

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Non sembrerebbe, ma la cantautrice romana Ilenia Volpe  è un bel dettaglio “dell’altra metà del cielo”, anche se il suo essere donna fa terrificante massa tra amplificatori devastanti, pugni nello stomaco e una poetica malata, nervosa, piena di sensualità storta; “Radical chic un cazzo” è il suo debutto ufficiale, sebbene la sua abilità a prendere fuoco nell’arte dei live, è cosa da manuale in ogni dove, un disco teso e dolce, prodotto da Giorgio Canali – che ne colora alcune atmosfere – e Diego Piotto, un undici tracce che impressionano il calendario di anni novanta mai andati via veramente, neppure un istante, quella finta assenza che di bordate grunge, picchi di hard-metal e prodigi di gioielli mid-acustici rarefatti, ne riportano l’urgenza ed il tenerume tutto per intero.

Non è un cattivo auspicio il titolo, ma è quanto promette e mantiene questa elettrintrigante artista romana che va ad inserirsi tra quelle figure rockeurs fragili “con le ali di metallo e acciaio”, quell’arte al femminile che divora le febbri della Courtney Love esasperata e una PJHarvey in collisione con l’anima, la parte nobile delle The Breeders con il concetto sussurrato d’ampere alla Claudia Fofi, fradicia anche della lirica Canaliana che ne costruisce le ritualità e l’immagine sentimentale verticale; aria e asfissia, buio e luce, deliri reali ed incubi vissuti, sono le prerogative primarie che girano nelle vene di questo disco stupendo, anche due cover “Fiction” del Santo Niente ed il brivido in acustico de “Direzioni diverse” del Teatro degli Orrori prendono parte a questo baccanale d’amore e tragedia di watt, poi quello che rimane a colpire nella tracklist è un attacco ai sensi ed all’esistenza riflessa.

Chitarre d’ aria “Mondo indistruttibile”, “La croci-finzione” e di fuoco “Prendo un caffè con Mozart”, “Indicazioni per il centro commerciale”,  ossessioni lancinanti “La mia professoressa di italiano”, il senso ripetuto di un vomito interiore di rabbia  “Le nostre vergogne” fino al pathos irraggiungibile di un cielo al contrario dentro il quale si muove la leggiadria eterea virtuale di una Ginevra Di Marco che si esalta con il plumbeo di una MannoiaPreghiera”, tutto ci rimanda, attraverso lo sviluppo di questo sentire, ad un demone sulla nostra spalla, a quelle produzioni linfatiche che non utilizzano nessuna forma di tendenza per stupire, uno strepitoso neutralismo da classificazioni che la Volpe ed i suoi blasonati scagnozzi gestiscono alla perfezione come un vento gelido sulla fronte.

Semplicemente bello.

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Drink to Me – S

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Non c’è niente di terrestre, una botta talmente forte da rimanere spiaccicati sul pavimento agonizzanti, qualche entità superiore mette mano sui sintetizzatori dei Drink to Me per tirarne fuori l’ultimo lavoro S. Ho perso nettamente il controllo, vengo bombardato da ogni dove e l’adrenalina sale a dismisura, cazzo sono arrivati gli alieni. Riprendo fiato ma non riesco a tranquillizzare l’agitazione cresciuta a dismisura. Sono pieno come un fusto di birra, esplodo. Questo disco caratterizza le cattive intenzioni dei Drink to Me ormai lanciati a tutta velocità verso la consacrazione definitiva sbeffeggiando tutta la spocchiosa schiera dei disfattisti “intenditori” musicali. Musica per chi scopa. Loro prendono la scena alternativa italiana e la girano e rigirano cacciandone fuori un sound personale dagli effetti elettronici devastanti, provare per credere, ascoltare pezzi come Henry Miller, Picture of The Sun, Disaster Area. Ma sparatevi tutto il disco, è decisamente opportuno. Provare per spaccarsi la corteccia celebrale. Sembra non mancare proprio nulla, velati sprazzi di indie pop riempiono il programma della festa, le voci sono intenzionalmente inglesi (di lingua e di fatto) nonostante loro siano un vanto tutto italiano. E questo si nota poco visto il sound poco (ma veramente poco) nazional popolare proposto dai Drink to Me, qualcuno osa Aucan, qualcuno infastidisce la mia pazienza cercando paragoni improbabili soltanto per il gusto di parlare, di mettersi sul piedistallo dell’arroganza, di rompere il cazzo sempre e comunque. I Drink to Me sono fortunatamente l’evoluzione musicale dei Drink to Me. Poi S segue una linea precisa spezzando le ali al precedente Brazil, una continua sperimentazione sonora, qualcosa di vivo che pulsa incessantemente. I Drink to Me viaggiano sulla cresta dell’onda rendendo onore alla musica italiana, finalmente un ottimo progetto da esportazione, lo spread dell’indie rock schizza alle stelle.

Non potevate trovare di meglio, lasciatevi condizionare l’anima da questi cattivi compari.

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May Day – Eppì

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“Uomini, adesso, non derideteci,ma pregate Dio che tutti noi assolva.” Voglio dirvelo subito, senza falsità. Cosi non ci siamo. Avete messo tutto (domanda?) in questo Ep e il risultato è poco più di niente. Il sound è derivativo (passatemi il termine indiesnob) fino all’eccesso e questo potrà certo piacere a tanti. Ma vi chiedo. È questo che volete dalla musica? Piacere a masse informi di ragazzini che della musica hanno un’idea ristretta a jingle pubblicitari e MTV o, nella migliore delle ipotesi, ai dischi del fratello più grande? Passiamo l’orrida (per un disco del genere) copertina, passiamo il Cd masterizzato (fisicamente intendo) come la copia di un disco fatta da un vostro amico e passiamo anche il facile titolo da simpaticoni che chiamano l’Ep, “Eppì”. Ma cosa sono veramente questi May Day? Oggettivamente parliamo di tre ragazzi nati a (non lo dico perché loro dicono porti sfiga) nel 2002. Dieci anni dopo sono ancora gli stessi che suonano il più classico Alternative Rock in lingua italiana.

In una decade hanno prodotto due dischi, l’omonimo del 2003 e “Come Ieri” datato 2005 e hanno all’attivo due partecipazioni a compilation firmate Sana Records e Indie Box Records. Sul lato live si sono dati abbastanza da fare, condividendo il palco con Linea 77, Punkreas, Meganoidi, Bambole di Pezza, The S.T.P., L’ Invasione degli Omini Verdi, Medusa, Ln Ripley. Riescono anche a vincere il primo Biella Music Contest e partecipano alle fasi finali di Arezzo Wave e Transilvania Live.  Ultimo riconoscimento la vittoria dell’Open Mic Summer Tour Contest 2011. Ma chi sono veramente questi May Day? Decidono di condividere l’Ep in download gratuito per potersi mettere in gioco soprattutto nell’aspetto live. Non vogliono necessariamente lucrare (né ovviamente fare i coglioni a loro spese, immagino) sulle spalle della musica. Sono onesti fino all’osso. E soprattutto sono bravi. Quindi, perché non vi sfogate quanto create? Suppongo non sia una questione di limitazione artistica. Forse è il timore di osare. Ma perché non vi lasciate andare? Che siano le grandi band soggiogate dalle case discografiche a uniformarsi a un certo tipo di suono. Voi, indipendenti e liberi fino al midollo, dovete regalarci qualcosa di più. Se ne siete capaci (io dico sì ed è questo il motivo del voto forse troppo duro rispetto alle mie parole. Odio vedere il talento sprecato).

I riff che ci scheggiano la pelle per i brevi minuti che ci accompagnano nell’ascolto dei cinque brani sono eccellenti in un certo senso prettamente estetico, ricercati quanto basta e orecchiabili ma devono sempre qualcosa a qualcuno, sia insospettabile (il riff del primo brano “Supermario” non vi ricorda niente?) sia troppo scontato (The Strokes, Placebo, tanto per fare qualche nome). Stesso discorso per la batteria che ricalca alla perfezione l’Alternative più vicino allo Stoner Rock. Tutto quello che sembra uscire dalle casse è un ovvio misto di Indie, Pop e Rock. La voce (che ricorda quella di Federico Dragogna) è discreta, molto migliorabile a dire il vero, soprattutto in fase di registrazione e i testi, come spesso accade nel mondo Indie, non rappresentano certo il punto forte di “Eppì”. I motivi sono nel complesso abbastanza immediati e facili, come di una band che cerchi il più ampio consenso. Ma a mio avviso i May Day non sono questi. Lo voglio credere. I primi venti secondi (non è l’unico momento, ovviamente) di “Vecchio” mi parlano di una band che ci sa fare e non di una band che vuole vendere. L’energia che schizza in alcune poderose virate Alternative Rock è quella di chi non vuole sfondare, ma vi vuole sfondare il culo. La strada devono sceglierla loro. Gabriele Serafini (chitarra e voce), Francesco Petrosino (Basso e voce) e Patrick Seguini (batteria) hanno in mano il loro futuro. Piacere a chi di musica capisce poco col rischio poi di non piacere a nessuno e diventare un’altra delle tante band che spariscono dall’Italia ogni anno. Oppure darsi da fare e mettere in musica tutta la loro anima creativa.

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Dirk Hamilton – Thug of love Live

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Dirk Hamilton, classe 1949 e proveniente dall’Indiana, non ha bisogno di presentazioni…

Con oltre dieci dischi in studio il suo sound ha influenzato generazioni di musicisti, in particolare con “Thug of love”, uscito in una edizione celebrativa per il trentennale in una versione live dai colori più freschi e moderni ma che non perde lo smalto di un tempo.

Tutto ha inizio con “Wholly bowled over”, una ballad fra l’acustico, il country e il rock, che sa di gioiello nascosto e che forse le generazioni moderne farebbero meglio a riscoprire…

“Moses & me” è molto più pacata e dai tempi più lenti rispetto alla precedente, ma ha un’intensità che è davvero impressionante.

“Turn off the tv” ha un drumming molto accentuato che a volte risalta persino rispetto a chitarra, basso e armonica.

“In a miracle” tratta di un incontro mai accaduto con la grande Kate Bush, che rispose a una lettera del cantautore, suo grande fan, concludendo con la frase “keep in touch”, ripetuta più volte nella canzone.

“Out To Unroll the Wheel World” è come un proiettile veloce che colpisce al cuore e alla mente  chi la sente ma che non fa male ma solo bene.

In “Change in a child’s hand” ci sono molti spunti che ricordano persino il miglior Frank Sinatra! ed è davvero facile rimanerne estasiati.

“I will acquiesce” con i suoi 17! minuti è forse il migliore episodio del disco coi suoi assoli di chitarra iniziali e la batteria che tiene un improbabile tempo da marcetta che rende il tutto davvero originale (anche se poi abbraccia sonorità molto più rock).

“Colder Than Mexican Snow” è invece caratterizzata da linee di basso molto incisive.

“Need some body”, com’è scritto nelle note interne del booklet, fu scritta pensando a Rod Stewart, che però secondo lo stesso Dirk, non avrebbe mai cantato perché “troppo gentleman”.

La lunghissima “The Main Attraction” è invece dedicata al bluesman Solomon Burke, purtroppo recentemente scomparso.

La bonus track “How do you fight fire?” è cantata in coppia con Graziano  Romani e vede la collaborazione anche di Max Marmiroli al sassofono e di Massimo Mantovani al piano elettrico (presente anche in “Change in a child’s hand”).

La tracklist è leggermente diversa dal’edizione del 1980 ma di certo non tradirà le aspettative dell’ascoltatore anche perché con il musicista americano ci sono i collaboratori di trent’anni fa, Don Evans alla chitarra elettrica e ai cori, Tim Seifert alla batteria ed Eric Westfal al basso e ai cori.

Il tutto forse anche per mantenere intatto lo spirito e l’integrità musicale di un tempo.
E credetemi… Questi quattro musicisti ci sono davvero riusciti!
Il compact disc è stato registrato interamente in Italia a Dozza (Bo) e Modena il 13 e il 14 marzo 2010 mentre il dvd allegato (che contiene invece tredici tracce) a Cologne (Bs).
La produzione è praticamente perfetta, i suoni molto puliti ed il pubblico si sente davvero pochissimo.
Affrettatevi quindi a comprare questo capolavoro!

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Bruce Springsteen – Wrecking Ball

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Rabbia, amore, dolore per l’amico sodale Clarence “Big Men” Clemons spentosi dieci mesi fa e amarezza non contenuta per il destino della sua nazione America e dei suoi figli che la crisi ha dilaniato insieme; il diciassettesimo disco in studio di Bruce SpringsteenWrecking ball” è insieme urlo disperato e pathos armonico d’Irlanda, un disco che è insieme sangue e speranza sotto un cielo plumbeo e triste, tredici tapes, tredici lamenti umani d’insondabile brivido, profondità e passione che si coagulano in un unico essenziale calore che è poi la cifra stilistica inconfondibile del Boss.

E all’interno ci sono anche i riferimenti agli anti-eroi della storia, le stelle senza coda che hanno tratteggiato pagine sonore o di carta della vita, il radicalismo di Woody GuthrieJack of all trades” come il furore SteinbeckianoShackled and drawn”, poi quello che come una ventata d’orgoglio infinito arriva dietro è apoteosi di fremiti e cronache che disegnano un’America nuda, un “naked lunch” sulla bocca ingorda del Dio Dollaro “Easy money”, una lista di ballate e out-style nate in precedenza per essere suonate con la sola chitarra acustica ma che poi in studio session si è voluto dilatarne il raggio d’azione per essere complici vaste di un inno vero contro le ingiustizie, le falsità.
Trema il Boss quando canta in “Death to my hometown”  “..hanno distrutto le fabbriche delle nostre famiglie/ si sono presi le nostre case/ hanno abbandonato i nostri corpi sulle pianure/ con gli avvoltoi che beccavano le nostra ossa…” o quando urla a vene gonfie che “..l’uomo è intrappolato nei debiti che nessun uomo onesto può pagare..” tra le righe della stupenda “Jack of all trades”, è una dimensione che fa saltare i polsi, come il gospel che incontra l’hip hop “Rocky ground”, ma è quando arriva quel pezzo di cuore in frammenti “Land of hope and dreams” dedicato all’amico di sempre, al magico sax della E-Street Band, il gigante buono Clemons che il disco lacrima davvero e che come una magia da chissà quale lassù, porta quel fascio di raggi sole ad illuminare l’America affondata del Boss con quel “domani splenderà il sole e passerà tutta questa oscurità”.  

Torna il Boss con tutte le inquietudini di un mondo spaccato, torna il Boss che al contrario di quando cantava “nessun posto dove andare e nessun posto dove correre” in Born in The Usa, sa dove colpire con i proiettili duri della sua poesia disillusa.  

 

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Sunset – Viaggio Libero

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Strano questo viaggio rock-west che i novaresi Sunset inanellano nel loro primo official “Viaggio libero”, se non ci sono dubbi circa il viaggio, quello che li mette i dubbi è il “libero”, perché la libertà agognata dalla band è un tragitto sonoro troppo gonfio di Ligabue “Doc”, “Tu”,  Litfiba “In alto le mani”, Axel Rose e C. “Bambole”, Graziano Romani “Regalo alla mamma”, il Priviero d’antan e gli echi d’ex indiani padani (Rats) –  dei quali l’ex leader Wilco Zanni è presente nella traccia n.2 “El frago” –  che a tratti sembra essere davanti ad una tribute-band troppo precisa e a vetrofania con gli heroes citati.
Tecnica e pathos da highways americane riempiono tutta la vitalità di queste quattordici tracce freewheeling, hooks radiofonici che passano e rimangono in circolo il tempo di mandar giù un bicchier d’acqua, non per chissà quale cosa, solamente per una collana di canzoni che si vestono d’ovvietà e tritumi ritriti stracotti e digeriti a josa, un genere che non da spazio ed amplietà a nessuna ricarica creativa, il soliti rifferama, la solita voce vissuta tra alcool e pupe sverginate, poster di ZZ Top, saloon e pillole d’odiernità urbana, sguardi e riflessioni messi a contrasto nella rudezza di un rock’n’roll che di strada ne ha fatta molta e dunque un salutare “riposo” è quello che gli compete.

Altri ospiti di questo disco sono Graham Bonnet  vocalist (già con Rainbow) che interviene in “Lunghezza d’onda” e Jennifer Batten alla chitarra in “Sospetto” (Timoria?), nomi illustri del rockerama internazionale ma che non riescono a tirare su la sorte del registrato che, seppur ben fatto, di mestiere e d’enorme passione, si va a collare tra le migliaia di prodotti di genere che occupano gli store d’ogni dove e d’ogni quando; disco che se preso per un ascolto di sottofondo tra una faccenda e l’altra può anche aiutare a far passare il tempo gradevolmente, se vi si cerca un nuovo mondo, ruvido, ma mondo nuovo trova solo una continua (ben fatta) tiritera amplificata.

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Modì – Il Suicidio della Formica

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Perdersi nella nebbia di queste plumbee giornate diventa quasi obbligatorio, farlo con la giusta colonna sonora (Di venerdì tutto succede) diventa un lusso che non tutti possono permettersi. Almeno chi non conosce il genio artistico di Giuseppe Chimenti per la musica Modì. La malinconia potrebbe iniziare a piacervi di brutto, l’ossessione dell’errore bussa alla mente accendendo ricordi di amori perduti, rimpianti, la solitudine del sentimento umano. E proprio de Andrè a vegliare su un album di cantautorato introspettivo e dalla singolare bellezza, la creatura di Modì prende il nome de Il suicidio della Formica, una chitarra spezza il confine tra sofferenza e liberazione.

Non sempre giocare con le parole porta a risultati apprezzabili soprattutto se si osa sopra le proprie capacità, Modì amalgama con ingegno musica e testi portando alla luce canzoni artisticamente valide (Carnevale) senza buttare macigni di elevata cultura sulle spalle dell’ascoltatore, semplicemente musica per chi ne vuole. Un ambient noir e la riscoperta di poeti maledetti, un cuore martoriato e reminiscenze fanciullesche, una cicatrice indelebile sulla pelle, Baudelaire capirebbe di cosa stiamo parlando. La solitudine in Suicidio in Stazione alza notevolmente i parametri di musica interiore, il collasso mentale dell’indifferenza, un concetto di esasperata voglia di chiudersi alle spalle una vita indegna di essere vissuta. Ci vuole un cuore grande e una sensibilità come pochi per vivere e scrivere un disco con queste intenzioni, cerco di viverlo spalmandomelo sulla faccia per non perderne neanche un piccolo frammento, ne sono rapito senza scampo. Un timido sole si affaccia tra le nubi, non ho nessuna voglia di accoglierlo, oggi è un altra storia. Modì ti entra dentro come un demone dantesco, la sua musica scava senza alcun indugio dentro la vita quotidiana delle persone. Questo è l’obbiettivo essenziale di ogni cantautore che si rispetti. Modì è un cantautore dei giorni nostri, Il Suicidio della Formica ne è la prova inconfutabile.

 

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Management del dolore post-operatorio – Auff!!

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Da Lanciano il grido di dolore contenuto nel loro primo official album, “Auff!!”, e loro sono il Management del dolore post-operatorio, una band non masochista come si potrebbe credere per via della loro genesi nata su di una corsia d’ospedale dopo un incidente, ma un’accolita di poeti “attivi contro” che prendono di mira la crisi, i fantasmi che la sussurrano, i non diritti ai sentimenti e la non reattività o disillusione che si rivolge al futuro.

Dieci tracce accasate alla MarteLabel che suonano potenti, prepotenti e che vanno a sbomballare tutto il bagaglio filo-punk dei CCCP dei tempi dell’insurrezione alternativa anni Ottanta, un bell’ascolto off e stracolmo di riff elettrici, distorsioni chitarristiche e sociali che urlano, riverberano e declamano – tra cinematiche esposizioni  – ironia e verità particolari, un punkyes aggiornato ai nostri giorni, un moving che si colloca anche tra i migliori Claxon e i nipotini Franz Ferdinand dentro traiettorie che scalfiscono l’ascolto; il cantautorato elettrico, tanto disegnato da multipli ascolti,  che questa band stende è scritto bene e si asseconda a registri differenti, magari, quello che non riesce ad incresparsi di molto è la parte più “quieta”, quella vissuta da depressioni scandite “Amore borghese”, lo shuffle disco “Irreversibile”, “Nei palazzi” o il pathos liquido che galleggia in “Il numero otto”, mentre per la parte caffeinica, quella dedicata all’ossessività rock esplode come una mina anti-uomo al passaggio di “Pornobisogno”, sotto la mannaia elettro-funk “Auff!!”, nelle palle gonfie di “Irreversibile” come tra le vertigini amperiche che rotolano dentro “Macedonia” con gli omaggi dei Marlene Kuntz.
Veramente, un disco di dolore nato dal dolore, che trasmette dolore da combattere e attrae fan addolorati, un disco che ci avverte che il tempo corre, scorre e che quando finiscono le lacrime non è il momento di fare tappezzeria, ma e proprio da lì che bisogna segnare il recupero dei sentimenti, delle persone, del mondo che ci fa da corolla violentata in mezzo a tutti quei  detriti e frammenti di gioventù andate.
In poche parole un bel disco che si fa mazza!

 

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Alessandro Arcangelelli – Compendio ragionato sull’educazione della natica

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La nonna me lo diceva sempre da bambino, spesso dopo un buon piatto di fagioli ben arricchiti da spicchi di cipolla rossa: “chi non petta muore gonfio”. Ma da quando ho iniziato a frequentare le scuole elementari ho subito capito che l’utilizzo della voce sottostante dovesse essere ben controllata e calibrata proprio come le parole che si usano durante un’interrogazione alla lavagna.
E poi ditemi un po’ se non capita a tutti noi esseri umani di trovarci in situazioni fisiologicamente scomode in qualsiasi momento della vita. Per ovviare a questi problemi Alessandro Arcangelelli ha ideato un simpatico audiolibro dal titolo inequivocabile: “Compendio ragionato sull’educazione della natica”. Nato come scherzo tra amici, il manualetto sta riscuotendo un discreto successo tanto da vantare le voci di Giorgio Melazzi e Andrea e Michele di Radio DJ.

Si discorre in modo aulico e formale dei roboanti venti e di varie tecniche per arginare l’imbarazzo dell’ignobile gesto, mal gradito dalla società. Anche le ambientazioni e i personaggi rimandano a salotti dell’alta borghesia e questo evidente contrasto è il punto di forza del “Compendio”, che descrivendo varie tecniche per il “controllo dei venti imbarazzanti”, strappa più volte il sorriso all’ascoltatore a cui torneranno sicuramente in mente vecchie scomode situazioni. Il tutto è poi condito da goffe rappresentazioni sonore degli “uragani digestivi”, più o meno rumorosi, più o meno prolungati nel tempo.
Ma oltre alle quattro risatine per il tema divertente, questo “Compendio” risulta essere una piccola critica alla nostra società occidentale che accetta bestialità ben peggiori di un naturalissimo peto.
Insomma un modo per passare una mezz’ora spensierata in auto o in casa mentre si prepara cena. Assicuratevi di non avere conti o duchesse nei paraggi e provate a sperimentare la “Gambetta” e lo “Scricchiolaporta” e se vi dovesse andare male aprite subito la finestra.

 

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Fononazional – Una Sera

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Facciamo una cosa. Giuratemi di non prendere le mie seguenti parole, che vi ruberanno al massimo cinque minuti della vostra preziosa vita, come una classica recensione da Webzine. Cercate di fare finta che quello che segue non sia altro che una tranquilla chiacchierata con un vecchio conoscente, nato ascoltando i Ramones e i Nofx, cresciuto a Grunge, Blues, pane e Post-Punk e che ora si ritrova sommerso da universi paralleli di psichedelia, avanguardie, sperimentazioni e quant’altro ci si possa aspettare di “rock” dal Rock. Uno come voi perennemente disperso in un oceano di musica alternative, industrial, electro, disco, dream, post, pop, fuck, dub, hip, Burp! E che ogni tanto ascolta cose che non gli piacciono. Fate finta di chiacchierare al tavolino di un bar mediocre del centro della vostra cittadina mediocre di un’Italia mediocre come mai. In sottofondo “Una Sera”, il nuovo, secondo album dei lombardi Fononazional. Mettiamoci comodi. Ordiniamo da bere. Prendo una bicicletta. Happy hour. Davanti a voi ci sono io e c’è il vostro specchio. Io sono voi che ascoltate i Fononazional per la prima volta e leggete Rockambula e voi che uscite fradici da concerti da cinque euro e comprate i vinili di Tim Buckley ai mercatini. Se ho capito chi sei (e chi sono), questo disco non ti piacerà (non mi piace). Facciamo chiarezza. Tutti i membri della band hanno ottimi curricula e ottime qualità. Paola Atzeni (voce e flauto traverso) tiene seminari d’interpretazione applicata al canto, ha studiato flauto al Conservatorio (per la cronaca lo Statale Pier Luigi da Palestrina), ha fatto da corista di Eros Ramazzotti, Lucio Dalla, Alex Britti, Edoardo Bennato. Marco Bianchi (piano) è anche un compositore e arrangiatore, insegna piano moderno, ha all’attivo diversi album e compilation, ha collaborato con Mario Biondi, Luca Jurman, Irene Grandi, Tullio De Piscopo, Carlo Fava, Laura Pausini, Thomas Moeckle, Maxx Furian. Marco Mangelli (basso) ha studiato lo strumento con Ares Tavolazzi e quindi con John Patitucci, Victor Bailey e Percy Jones. Ha inoltre collaborato con Cristiano De Andrè, Andrea Bocelli, Biagio Antonacci, Gianni Morandi, Umberto Tozzi, Enrico Ruggeri, Syria, Alex Baroni, Mia Martini. Eugenio Mori (batteria) impara con Tullio De Piscopo e Franco Rossi. Continua gli studi, iniziati alla Civica Scuola di Musica di Milano, diplomandosi alla Grove School of Music di Los Angeles. Quindi perfeziona lo stile con Dick Grove prima di collaborare con Tony Scott Quintet e Long Horns Blues Band, lavorare alla Scala e fare il turnista per Biagio Antonacci, 883, Gianna Nannini e Franco Battiato. Come mai questo lungo, spaventoso elenco? Semplice. Voglio che sia chiaro che il mio giudizio sarà come non mai prettamente legato alla capacità della musica di emozionarmi e, semplicemente, piacermi. La bravura, la tecnica, le capacità pure non sono in discussione. La seconda opera dei Fononazional si distingue dalla precedente per prima cosa per l’assenza al piano di Enzo Messina. Tale assenza ha spostato la musica verso i lidi Jazz di cui parliamo oggi vista l’assenza del rhodes e dell’organo Hammond. Inoltre i brani non sono esclusivamente cover, come in precedenza. Anzi la parte più importante è rappresentata proprio dai brani originali. Inoltre la zeta sostituisce la t. Il digipack e il booklet che custodiscono questi dodici brani si presentano di un bianco puro con una foto un po’ inquietante della band in primo piano. All’interno troverete oltre al disco anche un Dvd, effettivamente di buona qualità, contenente brani live registrati alla Salumeria della Musica di Milano. Già dal primo brano, “Vivo”, è chiaro che il Jazz proposto dai quattro niente ha a che vedere con le improvvisazioni folli, acide, cool e avantgarde che ci piacciono tanto nel genere (pensiamo ai mostri Miles Davis, John Coltrane, Charles Mingus). Abbiamo davanti alle nostre orecchie una commistione di Pop Cantautorale, Black Music, Fusion, Jazz, Bossanova. La musica che ne esce si presenta comunque particolarmente elegante ed equilibrata (aspettate però a considerarlo un pregio). Tal equilibrio rassicurante è portato, però all’eccesso e in fusione con la voce e le parole di Paola Atzeni l’insieme si presenta piatto. Equilibrato come il grigio è in equilibrio tra bianco e nero. Inoltre proprio la voce è uno degli elementi che hanno generato maggiori problemi nel giudizio. Ottima e gradevole ma, ricalcando in maniera esplicita Mina e soprattutto Ornella Vanoni, non sembra riuscire a creare un marchio di fabbrica. Il timbro ricorda troppo per essere ricordato e inoltre l’Atzeni raramente azzarda e mette in mostra le sue capacità preferendo mantenersi su binari puliti. Tornando alla musica il problema è molto simile. Il Jazz si tiene sotto braccio alla voce e viceversa. Non azzarda mai e non si allontana mai da quell’atmosfera cristallina e confortante che è lo scheletro dell’opera. Nessun rischio. Nessun eccesso. Ai brani originali, vanno aggiunte alcune cover, nello stile tipico della band, di cui abbastanza ardito (sempre nel limite) il riarrangiamento de “La Collina dei Ciliegi” di Battisti-Mogol mentre sembrava evitabile “Nel Blu Dipinto di Blu” di Modugno.  Il risultato d’insieme, compresi i testi anch’essi particolarmente grigi ed esclusivamente funzionali alla musica, è un sound morbido, tranquillizzante, in parte mieloso. Per capirci, il genere di musica che puoi ascoltare in un bar durante l’aperitivo. Quella musica che non ti disturba o stuzzica mentre chiacchieri e sorseggi il Campari. Che non ti accorgi neanche che c’è. Abbastanza banale da ritrovartela a Sanremo. Ascoltandola in macchina con vostra madre risulterebbe sufficientemente scialba da impedirle, per la prima volta, di dire le famose orrende parole: “Che è ‘sto casino. Spegni che mi fa male la testa”. Ripeto che il mio giudizio non è da esperto ascoltatore Jazz. Quel tipo di critica la lascio alle webzine di settore. Come voi, la musica che amo, è quella che di solito trovi su Rockambula e se non la trovi, è perché è abbastanza fuori da non trovarla neanche in un normale negozio di dischi. Prima di ascoltare “Una Sera” stavo ascoltando Å – Å. E non scambio la figurina di Iggy Pop con quella di Mina. Capite la difficoltà di giudicare questo gruppo. So anche che nell’Italia delle fissazioni (lo Spritz, Le Converse, il Vino bianco, ecc…) parlare male oggi di un gruppo Jazz è cosa ardita. Il semplice nominarlo sembra creare un muro che ci impedisce di dire “non mi piace”. Come una critica al caffè, alla pizza, alla pasta. A me non piace questo “Una Sera”. Devo chiedervi umilmente scusa?

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