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My Speaking Shoes – Holy Stuff

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Ho sempre avuto un rapporto molto difficile con le voci femminili, soprattutto nel rock.

Escluse leggende del passato come Patti Smith e Janis Joplin, non sono mai riuscito a fare mia la rabbia di una seppur potentissima ugola rosa, anzi a volte la vedo come una minaccia dall’esterno. Forse provo semplicemente timore alle strilla di una fanciulla incarognita, impersonando in lei una mia pseudo-fidanzata che mi scaraventa addosso un set di piatti in ceramica per aver dimenticato la festa di compleanno del suo adorato chiwawa obeso in cambio di una serata con la mia cumpa ad un alcolico cineforum sui polizziotteschi di Tomas Milian.
Così quando approccio i My Speaking Shoes, parto molto spaventato dallo sguardo inquieto disegnato in copertina della vocalist Camilla e mi aspetto già la sua strillante gola franarmi rovinosamente addosso. E in effetti, così è.

Ma a parte le mie tare da psiconanalisi, il risultato (mi) fa paura. Già dal primo impatto è una bomba. Ma non una bomba a orologeria, di quelle che devi aspettare un bel po’ prima dell’esplosione. “Holy Stuff”, disco d’esordio dei ragazzi di Sassuolo, è una bomba atomica: appena tocca il suolo è devasto puro. Tutto e subito. Rock aggressivo e femmineo, leonessa che va a caccia per la sopravvivenza.
La band suona alla grande già dalle iniziali “Mushroom Head” e “Flies”, dove si intravedono dallo spioncino di una porta insonorizzata le innumerevoli ore di rabbia e repressione sfogata in sala prove. E avevo ragione, c’è da avere paura, la voce di Camilla (pronuncia a parte) tiene testa ad Anouk e alla tedescona Sandra Nasic (Guano Apes). Donna con le palle insomma. Di quelle che se la fai incazzare ti tira dietro pure il set di coltelli, altro che piatti in ceramica.
Il disco è registrato alla grandissima: basso che pompa ovunque come nella migliore tradizione alternative-rock americana, chitarre arricchite da suoni mai banali (non il solito “gh-gh” dei nu-metallusi californiani), batteria che corre veloce come la gazzella che prova a scappare dalla furia della leonessa. Produzione splendida, con una band che sa essere sufficientemente pop e allo stesso tempo sa jammare fregandosene degli schemi imposti dalle canzoni per Twilight.

Sfido chiunque approcci alla band a non trovare una somiglianza con le varie band per ragazzini cicciottelli lobotomizzati da MTV. Dai l’abbiamo notato tutti appena vista una loro foto. Non me ne vogliate cari My Speaking Shoes ma a mio avviso siete un po’ i Paramore “de noantri” (e non c’è niente di male dai!), e la conferma arriva nella geniale (il testo soprattutto) “L.O.V.E. Song”, squarcio più rilassato in un panorama frenetico, nervoso e ossessivo.
Un (altro) difetto? Troppi brani, troppa monotonia nelle corde vocali e nelle melodie. Troppa carne al fuoco insomma per un genere già molto monocromatico in cui reputo veramente difficile suonare coloriti. I ragazzi in ogni caso, propongono una formula solida ma ancora un po’ statica, che non spicca in fantasia.
Però non facciamo i pignoli, “Holy Stuff” è un gran bel prodotto ma per far entrare la loro quota rosa nelle “sacre scritture” i ragazzi di Sassuolo devono ancora predicare molto il rabbioso verbo.

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The PseudoSurfers – The PseudoSurfers EP

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In una canzone le parole sono fondamentali quanto la musica.
Di più, molto probabilmente, perché sono quelle che immediatamente ci comunicano un messaggio, sembrano chiarire il senso di tutte quelle note suonate e cantate, di quei colpi di batteria, di certi tocchi. Da sempre, il mio primo ascolto di un brano è dedicato tutto alla comprensione del testo, il resto viene dopo. A confermarmi o smentirmi le impressioni precedenti.
Per questo ho sempre diffidato di gruppi che tendono a fare della voce un mero strumento al pari degli altri, usandone solo il potere fonico e non badando al contenuto, limitandola allo sfondo del brano e facendola sopraffare dalla musica.
Ed è per questo motivo che The PseudoSurfers, progetto del compositore romano Enrico M. che dal 2011 si avvale della collaborazione della bassista Silvia S., col suo omonimo Ep, stava per esser liquidato all’ascolto di Jungles of Iran, che apre il cd con una risata sguaiata, improvvisa, che poco c’entra con le subitanee atmosfere distorte e chitarrose, che ci portano, su un giro piuttosto semplice ma dal ritmo incalzante magistralmente scandito dal basso, alla ripetizione ossessiva delle parole, le uniche veramente (e finalmente!) comprensibili, “Non mi muovo più da qui”.
Sonorità veramente lontane (e decidete voi se è un bene o un male) dalle più recenti e ben confezionate produzioni sedicenti indie, per quanto The PseudoSurfers si meriti tutta questa etichetta nella sua reale accezione: un brusio costante in sottofondo, che richiama subito la psichedelia di fine anni ’80, a cui vanno aggiunte la voce calda, ariosa e roca (sempre incomprensibile!) e una cura maniacale alla ricerca del rumore, un po’ in stile Verdena o Marlene Kuntz con Dan Solo.

E allora la musica ci è piaciuta, quel finto ritornello (perché compare solo alla fine) ci rimbomba ancora in testa, ci siamo dimenticati del nostro insoddisfatto feticcio letterario per i testi e possiamo passare a 1664, che prosegue dritta per la strada spianata dalla traccia precedente, col basso quasi protogrunge, semplice, diretto, rotondo e scanzonato (con un richiamo quasi immediato ai The Vaselines). Semantics, col tema principale alle tastiere, ci avvisa che qualcosa sta per cambiare: le armonie si complicano, lasciando emergere la preparazione classica di base e l’ispirazione post-tonale, e per quanto il buzz sia immancabile, viene coperto da brevissimi incisi di chitarre eteree.
Che Enrico e Silvia siano cresciuti a Sonic Youth e My bloody Valentines, qui, è inequivocabile.
È però all’avvio di Space, la ballad immancabile in un sample come questo, che il duo abbandona completamente l’influenza post-punk e si macchia di una vena pop che proprio non riesce a sposarsi col resto dell’Ep, specie considerando la prosecuzione in Irrotational, traccia di chiusura, coi suoi oltre quattro minuti di sperimentazione esclusivamente e squisitamente strumentale. Ritorna il noise, ritorna la chitarra a farla da padrona. La voce tace e neanche ce n’eravamo accorti.
A differenza dei brani precedenti, però, questo sembra guardare più ai 2000, alla Treefingers dei Radiohead di KidA, ma soprattutto ai Mogwai. Si carica di una maturità musicale e di una serietà che davvero stona con le prime due canzoni, tanto da sembrare posticcia.
Un’inversione di tendenza, quella delle ultime due tracce e mezza, che lascia l’ascoltatore decisamente spiazzato. The PseudoSufers è un Ep e come tale deve mostrarci un po’ tutto quello che la formazione sa fare, ma un po’ di omogeneità in più, specie negli intenti, sarebbe stata decisamente più gradita.
L’impressione che lascia è che il duo, le cui abilità tecniche sono indiscutibili, non abbia ancora tanto le idee chiare su dove voglia andare: un vero peccato.

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Kubark | Ulysses

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Questi sono una vera  rivelazione, proprio loro i Kubark, un quartetto dedito ad un Rock sperimentale che miscela Stoner ed Elettronica. Marco, Elia, Enrico e Federico si fanno sentire con “Ulysses”,il nuovissimo disco intitolato cosi perché nel profondo dell’ anima i ragazzi con e per la loro quotidianità, un po’ come tutti noi, si sentono degli eroi. Un paragone giusto che dovremo sentire tutti  proprio per le continue sfide che ci attendono nei nostri giorni.  Ma veniamo adesso a “Ulysses”, un disco di una certa qualità, registrato e mixato ai Factory Studio da Cristiano Sanzeri e lavorato nei minimi dettagli, un lavoro pieno di enfasi detto francamente.  Anche se il platter contiene solo cinque tracce, queste sono riuscite a dare abbastanza elementi per tirare le somme, tra l’ altro positive. Io personalmente all’ ascolto del disco ho immaginato di essere in mezzo ad uno degli isolati di New York, non ci sono mai stato nella famosissima ed attraente metropoli, ma questo disco mi ha dato questa sensazione, un po’ cupa e un po’ selvaggia; ma questa è soltanto una parte del mio ritratto, perché il disco in se ragione sul concetto di “gente” ed “anonimato”, come specifica il gruppo, e dunque sul cambiamento e la metamorfosi dell’ umanità . Una piccola nota di merito va anche all’ artwork, influente e suggestivo come pochi . Difficile affermare una traccia migliore dell’ altra, tutte e cinque hanno qualcosa da dire, posso però dire che quelle che mi hanno coinvolto di più sono “Ainsoph” e la conclusiva “VIXI”.  I Kubark sono un gruppo con grandi doti e potenzialità, hanno le carte in regola per sfondare, non resta che dargli fiducia e contare su di loro.

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Male di Grace – Tutto è come sembra

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“Tutto è come sembra” è un disco molto atipico, sembra di ascoltare i Marlene Kuntz (“Dolce miele” e  “Ai confini” con gli urli alla Godano ne sono la prova) o gli Afterhours mentre incontrano la scena indie rock americana (Kyuss in primis).

In una canzone (Ninna surf) infatti compare anche Mario Lalli, musicista che milita e ha collaborato con band della scena desert californiana (Fatso Jetson, Yawning man, Desert sessions, Brant Bjork ecc). Insomma il gruppo in soli cinque anni di vita di strada ne ha già percorsa davvero tanta! Il suono credetemi è davvero perfetto, curatissimo in ogni dettaglio, merito anche delle registrazioni e dei mixaggi presso il Cellar Door Studio di Milano a cura di Gianluca Amendolara e del mastering effettuato presso il Newmastering studio da Maurizio Giannotti. La vena psichedelica però si fa sentire spesso sprizzando l’occhio (anzi l’orecchio…) anche al noise alla Sonic Youth o alla Fugazi e un po’ anche all’hard rock tipo Black Sabbath o Led Zeppelin. La particolarità del gruppo sta nel fatto che ¾ dei componenti si alternano fra chitarra, basso e voce con una maestranza davvero unica e con uno stile intrigante e raffinato.

Molto bello e singolare anche l’artwork del disco a cura di Edoardo Vogrig. L’autoproduzione spesso comporta molti rischi e/o imperfezioni ma qui credetemi se i quattro ragazzi hanno azzardato sono riusciti a superare ogni difficoltà, nel pieno spirito indie! Sarà datato 2010 questo disco ma credetemi la freschezza del lavoro si sente ancora, anzi è sicuramente molto più attuale di tanti altri concorrenti che circolano oggi e la perfezione assoluta giustifica il ritardo con cui è stato pubblicato. Undici tracce, tutte cantate in italiano, che vi lasceranno davvero di stucco! Lo strumentale “Ninna nanna per Grisù”, ad esempio,  vi terrà sicuramente compagnia e di certo non rischia di far addormentare l’ascoltatore, non fatevi trarre quindi in inganno quindi dal titolo! Che i nuovi Jesus Lizard si siano reincarnati in Italia?

 

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Margareth – Fractals

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Gran bel disco nuvoloso questo “Fractals” dei veneti Margareth, disco che suona spiazzante come un classico dal portamento molto strano, attraversato com’è da esplosioni, staccati di chitarra roventi, infinitesimali saette sinth e l’enorme bellezza d’arcadie softone che si slanciano delicatamente nel lungo e nel largo la tracklist; mix di freschezza, inquietudine e profondità che spiega lo stato di salute ottimo di questa formazione piena di quell’autorevolezza ormai imbattibile che vibra sull’underground nazionale e speriamo presto oltre.

Sensazioni pop, pizzicori i d’Americana, effetti satinati d’Inghilterra indie e particelle dreaming di splendore raccolto salutano l’ascolto di questo Fractals come in un incontro con la bellezza di una donna sofisticata ed eterea, un intrigante mondo emotivo di flash psichedelici sixteen alla Kula ShakerFlakes”, il cantautorato di Rice o Sheeran Rosemary calls” e certe dilatazioni bombastiche che appaiono tra i mulinelli di “Beautiful witch” o nella pastorale delicatissima che intenerisce emotivamente “It will be alright”; nove tracce percorse da ipnotismi e giochi di fondo, una sincerità d’esecuzione che fa dei Margareth la maturità interpretativa di un anima meticciata squisitamente musicale, un punto di vista sonico alto e,  a  tratti,  irraggiungibile  nelle sue venature hard-mantriche che ti frollano mente e corpo in una beatitudine elettrica senza uguali “Mind eyes”.

Un disco che abita più “tempi” felicemente lontano dai culti e dalle riformate occasioni di revival, un percorso già intrapreso dalle coloriture nell’esordio di White Line e che arriva integro all’intuizione di essere un buon frutto proteso di personalità e fuoco impalpabile “Shadows come”, traccia in equilibrio tra le scogliere di Dover e i Big Sur Thcizzati californiani; sensazioni in chiaroscuro messe a ponte di una solitudine espressionistica che porta questo straordinario disco alle alte vette dei sognatori spiritati. Da collezionare tra le cose più dolci che s’intende avere.

 

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Stereonoises – Colours in the sky

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Hanno fatto davvero un buon lavoro questi siciliani Stereonoises, qui al decollo ufficiale con “Colours in the sky”, un nove tracce abbastanza intrigante, ben suonato e puntato direttamente oltre le scogliere di Dover, lì in quell’Inghilterra filtrata attraverso i Ray-Ban a goccia di Bono degli U2 Time”, “I’m still here”, “How long”, il Noel Gallagher “Something you should know” della spinta solitaria ed il concetto impattante di una certa ruvidezza morbida sullo stile Kelly Jones degli StereophnonicsTonight”, “Room on fire” e tutto ciò non fa altro che lievitare “in alto” le azioni di quest’album che riunisce due anime e culture diverse ma senza la presunzione d’essere “terrificante”, soltanto un buon esempio di come una qualità emergente sia all’altezza, pronta, per produzioni dalla mira verticale; la band da vita ad una ricchezza di suoni capaci di mediare brillantemente fra certe atmosfere indie che s’innestano come satelliti vaganti e lo spunto – ora uggioso, ora estetico – del brit meno glucosato, di quella concezione apparentemente non allineata che non si porta dietro i modelli generazionali, piuttosto le planimetrie riconoscibilissime di un’epoca che ha dato pathos e sangue dolciastro, fino a ritrovarle beatamente adagiate dentro questo registrato.

Buoni gli arrangiamenti ed il respiro internazionale che gli Stereonoises esaltano senza sforzo, una caratterialità quasi naturale che li rende autonomi dalle vetrofanie di tanti loro colleghi, una dosatissima miscela d’elettricità e tensioni melodiche che – una volta evidenziata dalla bella vocalità del cantante – si mette a disposizione di un ascolto molto, ma molto interessato; dunque antenne puntate sulle venature leggermente rock-wave tratteggiate nella title-track o nella punta di diamante dell’intero disco, quella ballata che ti trascina dentro consistenze vaporose e sofferte,  dove puoi incontrare sia il Billy Corgan, il despota del melone sfracellato sia il passo lento e ironico di un Lou Reed spelacchiato ed imberbe, lungo i marciapiedi umidi e tristi della Hassle Street NewyorkeseMakin’ a circle”.

Davvero un buon lavoro per una band che ha costruito le proprie basi su di un sound deciso, determinato, una dotazione sonora e poetica che sa rallentare e darsi a manetta con professionalità insospettata, che mi strappa un punto in più oltre la lode, semplicemente vincente, esordientemente grande.

 

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The Crocs – …And The Cradle Will Croc

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Correva l’anno 1998, un triste giorno di ottobre il mio compagno di banco Alessandro mi passò una cassetta con un bel teschio in copertina. In un primo momento mostrai la tipica ostile resistenza, classica per uno sbarbatello che fino a quel momento nell’insieme della musica rock inseriva solo pochi elementi nostrani come Litfiba e Ligabue. Ma alla fine accettai, un po’ come si accetta di andare sulle montagne russe anche se soffri di vertigini, tentato dal demoniaco sorriso del teschio disegnato a mano del mio amichetto.

Arrivato a casa subito dopo pranzo infilai il diabolico nastro nella mia piccola radio trasportabile. Giusto pochi secondi del “crrrrr” tipico del nastro (quanto mi manca, creava attesa adrenalinica) e fui travolto dallo spietato delay di Slash, che sembrò tagliarmi a pezzetti la gola. I Guns’N’Roses e il loro hard rock furente si erano impossessati di me. Da quel giorno  tutto è cambiato. I jeans si sono strappati, i capelli cresciuti a valanga, teschi orribili sono comparsi su t-shirt sempre troppo larghe e sono diventato (insieme ad altri 4 scapestrati del liceo) il più fuori moda di tutta la scuola dove in quegli anni regnavano fighetti, discotecari e punkettoni. Dopo quasi 15 anni e tanti (mai troppi) dischi masticati i jeans si sono ricomposti, i capelli si sono un po’ accorciati (alcuni in verità persi per strada!) e i teschi li sfodero solo in alcune giornate di eccessiva nostalgia. Però l’orecchio per quel genere così stradaiolo, così feroce e così chitarroso non l’ho mai perduto. E con gli anni l’ho forse un po’ addolcito e reso più docile, mischiando i riff con un po’ più di melodia.

Potete ora capire quanto aspettassi di recensire un disco come quello dei milanesi The Crocs e come il titolo del loro album mi rimandi subito ai fasti liceali, riportandomi immediatamente al macchinoso e massiccio brano dei Van Halen (intitolato appunto “…And The Cradle Will Rock”). Appena scarto il disco capisco subito dalle facce dei 4 ragazzacci di cosa stiamo parlando e il sorrisino mi scappa.
Si parte in quarta con il brano migliore del disco: “I Wanna Trust In Santa”, è scopro che di pop ce n’è proprio tanto, ma ben mischiato con quell’hard rock classico molto sornione. Il tutto è poi condito dalla voce di Andy che, nonostante presenti alcune sbavature esecutive e una pronuncia un po’ da “americano a Roma”, spara altissimo il falsetto e pare abbia copiato la ricetta del frullato di testicoli proprio da un maestro come Justin Hawkins dei The Darkness.
Andando avanti: in “Bring Me Down“ si trovano sonorità più moderne e più corali alla My Chemical Romance, “Living On Danger” è hard rock classico con chitarrismo tamarro, strillo devastante e basso ben pulsante in primo piano, il funky di “All Alone” e la pseudo-ballad “Possession” invece sono gli episodi più glam-fricchettone, si vola in Scandinavia e si raccolgono le ceneri dal recente funerale dei The Ark.

I testi come nel migliore stereotipo sono (s)porchi e abbastanza scontati, ma forse è meglio così. Manteniamo bassa la frivola dignità del buon rock’n’roll cazzaro.
Insomma tutti spunti intelligenti e tutto sapientemente arrangiato dai quattro ragazzetti. Manca solo un po’ di personalità nelle loro melodie che, con un pizzico di ispirazione in più, potrebbero benissimo essere esportare con fierezza dalla provincia lombarda.
Niente di nuovo, niente per cui farsi ricrescere i capelli fino al culo, niente di eccessivamente hard rock da farmi rimettere su “Appetite For Destruction”. Ma almeno la vecchia maglietta nera coi teschi oggi me la fate indossare?

 

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Story Of Jade – The Damned Next Door

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Mai come questa volta ho trovato difficoltà a fare un’ analisi di un disco. Tanti sono stati gli ascolti di “The Damned Next Door”, il nuovo album della Horror Metal band Story Of Jade e diversi erano i momenti in cui l’ ho ascoltato. Automaticamente anche arrivare alle conclusioni si rivelava complesso perché da un lato si teneva tra le mani un disco di buona produzione,  suonato bene senza alcun dubbio e dunque con una tecnica discreta, dall’ altra parte troviamo un prodotto di un banale Thrash Metal che di Horror a dirla tutta ha poco e niente. Insomma, considerando gruppi pilastri come Daemonia, Death SS e Cadaveria che in Italia hanno messo le radici, sono i gruppi che in un modo o nell’ altro attraverso i riff e le atmosfere fanno proprio lo stile dell’ Horror: Citando sempre questi big e facendo un paragone con gli Story Of Jade,  vediamo che questi ultimi non hanno le atmosfere che creano i Daemonia, non hanno le sinistre e cupe melodie dei Death SS ne c’è quel tetro e grezzo suono che i Cadaveria riescono a creare con i loro massicci riff.  

“The Damned Next Door” è indubbiamente un disco piacevole, tralasciando questa questione sull’ Horror, il resto del lavoro è ben composto, non è eccezionale ne innovativo ma scorre facilmente. Tecnicamente il gruppo è preparato infatti avrebbe potuto fare molto di più, ma ad ogni modo non perdiamo le speranze perché se gli Story Of Jade riusciranno  a giocarsi le proprie carte, state certi che faranno centro.

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Dust – Kind

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Preparatevi ad ascoltare la Bibbia dei Dust. Preparatevi ad assaporare le note e le parole dei sei profeti del Rock di Milano; Andrea (voce splendida e autore di gran parte dei testi), Riccardo, Jimbo (chitarra solista dal 2009), Tomas, Gabriele e Muddy. Preparatevi a tutto. Per cogliere solo alcune delle sfaccettature del disco, servirà un notevole avvicendamento delle vostre percezioni. La giusta mescolanza di acume e beatitudine.  L’Ep “Kind” è il loro secondo lavoro, dopo il demo autoprodotto del 2009 “Tuesday Evenings” e la giusta conclusione di una peregrinazione a colpi di perfette esibizioni live e l’inizio di una nuova vita. Registrato al Mono Studio di Milano e prodotto da Matteo Cantaluppi (The Record’s, Punkreas, Canadians, Bugo), che avrà un ruolo primario per lo sviluppo del sound Dust, con l’apporto di Matteo Sandri (Sananda Maitreya, Il Genio) e il mixaggio, in due brani, di Paolo Alberta (Negrita) all’Hollywood Garage di Arezzo, “Kind” si presenta tanto breve (ventuminutieventottosecondi) quanto intenso e ricco di spunti. Partiamo dall’inizio. “O my Mind” (che vede la partecipazione di Giorgio Garavaglia, mandolinista e direttore d’orchestra) ci regala subito un giro che te lo levi difficilmente dalla testa e una melodia spensierata di quelle che ti mettono la gioia di vivere.

Il timbro intenso di Andrea allarga le nostre percezioni verso orizzonti Wave in stile The National. Un brano che si lega al passato in maniera indissolubile eppure suona alle nostre orecchie carico di una fresca e inaspettata originalità. Ti entra nella testa senza squarciarla e riempie quello spazio rimasto da troppo tempo vuoto nel tuo cervello. Il mix tra chitarra, voce e linea di basso sembra un melodioso ludico correre nel buio spazio vuoto del niente. Qualche cosa sembra già chiara. I Dust hanno scelto la strada popular nel traffico del Rock. Niente fretta però. Il secondo brano, “Ink Loaded Love”, con le sue elettriche sferzate e le urla soffuse, mette già in crisi le nostre certezze. I milanesi sembrano accarezzare un certo tipo di Grunge, meno legato all’Hard Rock, se volete, ma più Pop, mantenendo tuttavia viva la loro porzione d’anima Dark Wave. In pratica un groviglio complicato gettato da una muraglia sonora in fiamme. “In Collapse of Art” potete prendere la vostra testa e scaricarla nell’indifferenziato. Rallenta il ritmo e la musica si trasforma in materia oscura come il Blues. I Dust continuano ad attingere, anche involontariamente, dal continente Nord Americano. La malinconia dei Girls sposa le atmosfere folk meno folk degli Okkerville River (l’inizio del brano vi ricorderà certamente l’inizio di “Titletrack” dei sopracitati) ma il matrimonio si trasformerà nel giro di due minuti in un pandemonio nervoso che si risolverà in parte col ritorno all’origine, un ritorno alla pacatezza solo esteriore del blues degli episodi più malinconici di Dan Auerbach. Un brano che comunica l’incapacità comunicativa attuale dell’arte in Italia. Il trionfo dell’apparire sull’essere. Con “Never Defined”, riaffiorano le atmosfere Wave scuola The National (quelli più energici di High Violet) e la chitarra stilla gocce di Lsd che finiscono dritte nel cuore. Il brano, come a riassumere l’intero Ep, si palesa senza paura nella sua totale complessità. I rimandi ai grandi nomi sono infiniti e si accavallano all’interno del singolo brano cosi come nella totalità dell’opera. Eppure tutto si fonde in una divina unicità.

L’album si chiude con la romantica “Still Hiding, Still Trying” nella quale si torna a danzare tra le nuvole come in “Collapse of Art, ma abbracciati a una donna splendida, vestita di nero, con tacchi alti e labbra carnose, chiamata Morte. La voce prende le redini del nostro ascolto con una delicatezza sublime e ci accompagna all’uscita mentre la chitarra sventola note sotto una brezza umida e la batteria pulsa come un cuore rivelatore nel profondo della nostra essenza. Il sound nella sua delicata ricercatezza, nei suoi accenni psicheledici, nella sua teatrale, passionale empatica vocalità ricorda ancora quello di Christopher Owens e delle sue “ragazze” americane ma sempre senza scimmiotteschi rimandi. Ora potrà sembrare che vi abbia detto tutto. Non è cosi. Riascoltate l’Ep e tutto sarà diverso. Come ho detto (a mezza bocca) in precedenza, la caratteristica del sound dei Dust è proprio questa. Ti sembra di aver compreso solo fino a quando non rischiacci play. Il primo impatto che ho avuto è stato quello di una band di chiara ispirazione Buffalo Tom (o che comunque per uno strano scherzo del destino, lo sembra in maniera netta). Non è tutto qui. Ferma restando la struttura cardine chitarra/voce di un prodotto comunque rivolto all’apprezzamento popolare, la miriade di mondi musicali racchiusi nel disco si accavallano a ogni ascolto. Cosi come si avvinghiano le emozioni della vita, del vagabondare nel mondo, della socialità, dell’amore e della morte. Se una volta il Rock Pop-Punk spensierato, fuso al Folk e al Power Pop da muovere il culo, in stile Lemonheads sembrerà essere la colonna portante del tutto, il giorno dopo vi sembrerà piuttosto di essere cullati dalle atmosfere più melodiose e levigate del Blues, in combutta col Soul e il Grunge, specie nella parte cantata. Oppure vi sembrerà di riascoltare il miracolo degli Arcade Fire e del loro Pop-Wave, magari solo per un attimo. Vi sembrerà di ascoltare Wilco o i R.E.M o il Jangle Pop dei The Smiths. Un attimo che vi farà pensare abbastanza da far ripartire il disco dal principio. La prima pietra è ben salda. Aspettiamo la lunga distanza; aspettiamo un album oltre l’ Ep. Allora potremo dire veramente quale sia il valore dei sei. Intanto alcune cose sembrano chiare. Ai Dust piace la musica d’oltreoceano più di quella d’oltremanica. Ai Dust piace fare Rock senza suonare mai troppo pesanti (difficili, meglio). Ma soprattutto è chiaro che questo “Kind” come la Bibbia, si è presentato come il luogo in cui cercare le risposte, ma non fa nient’altro che avvinghiarci in continue altre domande. “Dream unless you can see the truth”. Dov’è la verità?

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Following Friday – Outside The Fence

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E’ già tempo di maturità al secondo colpo quello della Bay Area Band Riminese Following Friday, fortemente coesi per consentirci d’essere presenti con gli orecchi al secondo loro sforzo amperico “Outside The Fance”, ed è veramente un buon sentire, un perfetto incarnare lo spirito passionale e fun che sin dai primissimi giri di piatto si pone come una fistola prepotente sulle terga incontinenti di tanti Finley, Lost e dAri  che credono di imbambolare teen e ombrosi Emo senza catene; sei tracce percussive per un Ep che scalda il giusto, punk affiancato da arrembaggi rock che paiono arrivare anche dalla parte dell’attuale scena newyorkese con i protagonisti strapazzati di Ours o The Sea And CakeFuture lover back problems”, “A dive into the ocean”, dunque buone influenze e scuola quelle che i nostri FF utilizzano per costruire quello che è sicuramente un alto livello d’intesa sonica, ed anche – perché non ammetterlo – quella qualità ed estetica che può benissimo reggere il confronto con  altre magnifiche “banderuole” italiote che li hanno preceduti.

E se punk deve essere, che punk sia, Ep come questi, che ancora sopravvivono ai cavalloni spumosi e le tavole da surf  Californiane, vanno salutati con affetto e riguardo, sono piccole lezioni di una gioventù ribelle-educata che amplifica poesia, amore e dolorose istantanee generazionali che segnano il messaggio profondo della “voglia di esserci”, dell’essere protagonisti di una nuova era scalmanata mai autoreferenziale, piuttosto fondante; ed allora a manetta dentro il fuoco incrociato di “First shot is the hardest”, a radente nelle filologie hard-rock che permeano la ballata “Out on the deck”, al centro dell’ansia di tastiere e chitarre sincopate “Dear Charlie you ruined my life” o nelle sgassate di purissimo tween-pop che intossicano di pogo “Girls like that”.
Grandi schitarrate spigolose vi attendono disponibili per farvi un bel giretto a bordo di questa tensione elettrica dall’anima cortese, un modo di intendere la musica come un contatto da innescare tra pancia e cervello, tutte cose che una volta messe in moto da questa band dalla doppia Effe faranno da collante per un atletica artistica che vi mozzerà il fiato. Ammesso e non concesso!

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Sùr – Brainschift

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Certo che stiamo parlando di musica suonata con i contro cazzi, questo è un dato di fatto. Nessuno metta la mano sul fuoco, brucia. I Sùr sono tre ragazzi piemontesi forse troppo legati agli anni novanta per far esplodere e trasmettere le proprie idee artistiche negli avanzati anni zero. Ascolti immortali come Alice in Chains, Stone Temple Pilots, Kyuss e tutta la schiera forte di quel periodo devono aver toccato indelebilmente le menti di questi ragazzi che non riescono proprio ad uscirne fuori, ascoltare la loro EP Brainshift per rendersene conto. Indubbiamente quattro pezzi (belli lunghi lunghi) suonati a regola d’arte, è poca la differenza che si nota tra loro e un dinosauro del genere ma l’imbarazzo dell’epoca mette stranezza nei miei ascolti. Qualcosa rende il tutto stranamente insopportabile, il gusto di una cover band è troppo forte per passare inosservato, qualche piccolo accenno di nu-metal mi riporta quasi all’attualità ma è veramente poco per poter giudicare un lavoro di queste intenzioni. Sicuramente i giudizi positivi fioccheranno da tutte le parti, questo è ovvio, sono tecnicamente bravi e fanno musica giá testata e sperimentata venti anni fa, in più la fanno bene. Ma questo non basta per essere vincenti, bisogna caricarsi di nuove responsabilità sulle spalle, avere delle idee da mettere in pratica, sentirsi orgogliosi di essere i creatori di se stessi. Chi non lavora non fa l’amore.

Brainschift rimane nei miei ricordi come una buona demo suonata alla perfezione ma senza cervello, i Sùr sono una band che attualmente preferirei vedere in un pub piuttosto che comprare un loro disco. Rischiare ragazzi è un obbligo morale nei confronti di chi vi ascolta, avere una propria personalità vi aiuterà a fare il salto di qualità di cui avete bisogno, le altre carte le avete tutte.

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Venus In Furs – Siamo pur sempre animali

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Ho sempre avuto un’amorevole avversione per le storie dei 20enni disadattati. Insomma la mia frazione razionale non ha mai gradito troppo tragicomici racconti su insormontabili scogli di giovani incerti su un futuro che sembra per loro già scritto. Tutti paladini della libertà con una laurea in Lettere e Filosofia in mano. Tutto trasuda retorica e stereotipi, me ne rendo conto, ma non sono mai riuscito a frenare il violento impulso di curiosità verso questo filone di romanzi o film (vedi Culicchia e Virzì, tanto per citarne due)

Non voglio assolutamente sminuire il problema, anzi. Sono convinto che i ragazzi del 2000 (me compreso dai, non sono così antico) debbano battersi con mostri che da anni sembravano ben sotterrati da una scorza sociale ben dura. Oggi invece questa scorza fa breccia da tutte le parti e allora gli artigli feroci di queste bestie grame si catapultano in superficie in cerca di carne fresca da deturpare. E così ci sono affitti da pagare, la paura di una scelta universitaria sbagliata, una fede che vacilla verso qualsiasi tipo di santo, un alcolismo divampante, una fede in nulla, mass media che plastificano pure la realtà della cronaca nera e dulcis in fundo un’onda economica che precipita come il peggior burrone di Willy il Coyote.

Ma la cosa che mi fa un po’ incarognire è che almeno nelle storielle, che possono comunque darci qualcosa in più di ciò che ci sbatte in faccia la vita quotidiana, si dovrebbe avere qualche stimolo in più di un banale stereotipo incartato e venduto all’ingrosso al supermercato. E così forse si affronterebbe tutto questo scatafascio con un sorrisino che si tramuta facilmente in stretti denti digrignati. Alla fine i mostri spaventano, ma noi siamo bestie come loro e sappiamo bene come affrontarli.Tutto questo pare ce lo insegnino i pisani Venus In Furs che presentano il loro album con un nome che presuppone bava alla bocca (per rabbia, non per fame): “Siamo Pur Sempre Animali”. Preparatevi insomma a mettere un attimo da parte le emozioni e i sentimenti per essere veramente cattivi (e di questi tempi serve esserlo).

La scuola dei compaesani Zen Circus (Andrea Appino insieme a Gianluca Bartolo del Pan del Diavolo partecipa addirittura al bluseggiante crescendo finale de “In questa città”) è più che evidente e come la migliore tradizione delle correnti rock si porta dietro questi 3 giovani ragazzetti (l’anagrafe è sconcertante, tutti poco più che ventenni) che trasudano rock’n’roll da tutti i pori. Ci sono la rabbia agonizzante dei Linea 77, la botta in faccia dei Ministri, l’arroganza svarionante degli Afterhours più noise e addirittura (mi sbilancio) la roboante potenza di Led Zeppelin II. Il risultato pare un pastone, ma tutt’altro che stantio, è freschissimo come pesce appena prelevato dal fondale marino. Ancora vivo e scalpitante in superficie ti immerge subito in un vortice di volume con il riff di “Nefasta in testa”, brano apre il disco e sembra sgraffignato proprio ai Ministri, se la vacilla febbricitante tra hardcore e pop da classifica. Il prepotente e inaspettato boogie boogie di tastiera dell’opener ci conduce alla drittissima “Io odio il mercoledì”, una prepotente danza infernale in riva al burrone che a sua volta ci scaraventa nelle dinamiche ancora più oscure e tetre di “Cecilia e la famiglia”: “ciò che luccica e non brilla, si Cecilia, è la famiglia”.

Il disco scorre veloce insomma e si fa ascoltare tutto di un fiato nonostante le sue 13 tracce (ambizioso mettere 13 tracce in un disco d’esordio, no?). Le sonorità si dimenano forsennatamente tra atmosfere seventies, urla sporche (complimenti alla voce di Claudio Terreni, che nonostante la giovane ugola mostra grande maturità canora), tastiere sintetiche, chitarre acidognole e grande botta generale (figlia di una produzione impeccabile) che non vuole rinunciare alla bellezza della melodia italiana, un po’ violentata, ma ben viva in brani come la stupenda “Naif” dove Manuel Agnelli sembra direttore di questa piccola orchestra elettrificata.Un bel biglietto da visita insomma, un disco che i giovani d’oggi dovrebbero ascoltare e assimilare, perché arriva proprio da loro coetanei incazzatissimi. Così, come cita la loro “Las Vegas (non mi rilasso)”,  buttiamolo nel cesso sto “manuale bignami per ventenni 2000”, perché a noi animali le “loro” regole non ci piacciono affatto. Occhi aperti e denti stretti.

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