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Arctic Plateau – The enemy inside

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Questo disco sembra una visione notturna degli Slowdive o il canto epico rassegnato dei mangiatori di loto, dimentichi della loro vita e immersi in un apatico presente, invece è il soave decadentismo plumbeo che gira in “The enemy inside”  di Artict Plateau, moniker del musicista romano Gianluca Divirgilio, la nuova atmosfera discografica che l’artista fa scivolare negli orecchi galvanizzati di chi cerca un appiglio concreto – e a suo modo buono –  per iniziare alla grande una giornata in tema invernale, appiglio che si fa più che concreto, stupendo.
Un disco che non riuscirà – data la sua sofferenza interiore dei colori del vuoto e della mestizia – a farci vedere le stelle o qualche rappresentanza di esse, ma ci regala un diabolico collasso sensoriale ed emozionale, quel “lieve svenire” Kuntziano che sembra a tratti il principio attivo dell’estasi amarognola e disturbata Ottantina, carica di melodramma dark e del liberismo dei giorni contati della purezza shoegazer; undici piste per atterrare o decollare in quell’idea di malessere che in fondo è dentro noi tutti, connaturata nella dimensione umana, il nostro “impero interiore”, luogo dove rifugiarsi senza essere disturbati.

Ballate, schegge e ferite, radenti e amori che s’impastano in nuvole grigie che si susseguono una dietro l’altra come sipari di una commedia interiore che non ha pause, ricordi, scommesse e gole amare, una lunga poetica malata che trova conforti e tumefazioni nel rispecchiarsi di bruciature incancellabili; lo specchio di MorrisseyMusic’s like”, la dolcezza di una lacrima DrakeanaIdiot adult”, lontani echi di Phil CollinsAbuse”, “Wrong”, il pathos di una foschia folle condivisa con Carmelo Orlando (Novembre) nella disperazione urlata “The enemy inside”, l’eleganza in ballata di un Brian Ferry che danza in “Loss and love” in cui partecipa con la voce anche Fursy Teyssler (Les Discrets),  sono i sintomi complessi e belli di questa rabbia muta ed urlata, di questa ossessione fragile e corposa che è buio e luce senza fine, ossessione che vi sarà trasmessa con lo skippare all’indietro per ritornare sui luoghi del delitto d’ascolto della singola traccia  e dalla quale nulla potrete fare.
Artict Plateau, la levità dei sistemi emotivi.     

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Madkin | Perdone La Molestia

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Ultimamente si parla molto di questi Madkin, una band romana dedita ad uno Stoner Rock con forti riferimenti ai Kiuss. La band formata da Giuseppe Raffaele, Serena Jejè Pedullà, El Pais e Flavio Gamboni giunge finalmente al disco d’ esordio intitolato “Perdone La Molestia”; registrato e mixato presso gli Snakes Studios, ha come tematiche principali quella dell’alienazione umana, la comunicazione violenta, l’ amore  e l’ esperienza onirica. Musicalmente questo platter presenta massicci riff suonati con discreta velocità, insomma a tratti sembra che la band abbracci parti Hardcore ma la vena Grunge e Stoner si nota molto di più. Per farvi un esempio: mixate il sound dei Placebo e dei Kiuss, il tutto condito con un pizzico di aggressività alla Walls Of Jericho, ecco che otterrete la proposta dei Madkin. Questo “Perdone La Molestia” non sarà un apice, ne candidato al disco migliore dell’ anno ma è comunque un lavoro apprezzabile che nel bene o nel male ha qualcosa da mostrare, anzi, da far ascoltare. Il consiglio è quello di dare un opportunità ai Madkin, che indubbiamente hanno ancora molto da  apprendere ma per il resto ci sono dentro fino al collo, possiamo essere fiduciosi.

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Edda – Odio i vivi

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Stefano Edda Rampoldi, al mondo Edda,  non scrive solo canzoni, ma da un senso da brivido a quello che dice nelle convulsioni della sua sofferenza dentro, al centro di quella sua poesia malata che si sbatte e rotola come in un catino rovente pieno di ferite e momenti di felicità al pus, ed è da quel senso da brivido e di gran rinascita  che la musica alternativa italiana prende uno scossone tremendo da parte di quest’artista stupendo, forte e fragile riesploso al mondo con Semper Biot – dopo i fasti e le cadute con i Ritmo Tribale –  e qui nella riconferma assoluta del nuovo album “Odio i vivi”, secondo personale incunabolo “off” che va ad emozionare ulteriormente lo spirito di un ascolto oltre il privilegio.
Disco da ascoltare varie volte prima di entrare nel suo io, è un percorso tortuoso e salvifico che Edda – con Walter Somà con cui ne divide i testi – intraprende attraverso una canzone d’autore che pizzica il rock, una certa “avanguardia” sperimentale e un’anarchia metrica, di convenzioni e scrittura, dieci tracce trasversali che della libertà espressiva ne fanno baluardo di sincerità totale; una sonorizzazione che, oltre alla strumentazione di prassi, prevede autoharp, ottoni, marimba, sega musicale e lamiere ferruginose, contrasti e melodie che si fanno copiose come l’umorale che l’artista cambia di continuo, come un temporale prima o dopo di una giornata ossessa.

Non ci sono direttrici da seguire od inseguire come i dischi “classici” pretendono, qui si viaggia beatamente a vista, tra ondate poetiche d’inimmaginabile bellezza come la stupenda “Topazio” sangue interiore che vomita fuori pensieri fuori geometria, il subliminale resoconto di un delirio vivo “Marika”, la ballata per una mancanza d’amore vero “Gionata”, tracce queste scritte insieme a Gionata Mirai de Il Teatro degli Orrori, il rumorismo lavico che esce da “Omino nero”, la sinfonia vibrante in crescendo “Il seno” e quel diadema storto appeso in finale che risponde al nome di “Tania”, un blues da piangere con il quale il grande Edda ci offre un affresco da pelle d’oca di quello che questo musicista interprete può far germogliare dal suo spirito, in alto, sempre più in alto fra trombe, ottoni, ottavini squillanti e lo spazio illimitato di quel cielo che si apre davanti come un sipario accogliente.
Prodotto da Takedo Gohara, arrangiato da Stefano Nanni, magnificato da Stefano Edda Rampoldi.    

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Maria Antonietta – Maria Antonietta

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Avere vent’anni e sentirsi liberi di fare tutto quello che si vuole, le cose poi senza logica cambiano inevitabilmente in peggio. Io quando avevo vent’anni ero uno stronzo. Il disco di Maria Antonietta esce proprio quando il bisogno di rivoluzione interiore inizia a bussare pesantemente alle porte di un’insoddisfazione ormai dilagante. Certo, Maria Antonietta arriva portando nelle corde vocali un timbro fresco che spezza la tradizione delle angeliche voci italiane, una ragazza ribelle della quale innamorarsi in maniera perversa, un diavolo tentatore in tutina fetish. Il diavolo è donna.

E vede bene in questo progetto Dario Brunori in veste di produttore tutto fare, strappa questa ragazza dalla scena new wave/post punk (Young Wrists), gli impone la lingua italiana creando una donna bionica dell’indie rock. E diciamo pure con risultati nettamente positivi, ne sentirete parlare fino allo sfinimento, tanto nel bene quanto nel male. Maria Antonietta debutta con un disco libero di farsi apprezzare marcando le voglie sessuali di ventenni arrapati in cerca di sfogo, chitarre acustiche e scopate al centro del mondo (perchè sono le donne a volerci portare a letto, Quanto eri bello). La voce poi ti entra dentro come una lama affilatissima, il dolore risulta piacere innescando un circolo viziosamente pericoloso. Ci siamo ormai dentro fino al collo. Una cantante capace di raccontare storie blasfeme con la naturalezza di una diva maledettamente importante (Maria Maddalena e Santa Caterina), l’esordio solista di una cantante fuori dall’ordinario. I pezzi giocano sulla semplicità d’esecuzione, strutturalmente poveri ma con la capacità di fissarsi rapidamente nella testa, l’espressione diretta del semplice, bello e subito senza troppa filosofia. Un esordio discografico significativo per Maria Antonietta, la ragazza più cattiva della musica indipendente.

 

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Nympea Mate – Endio

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Ma avete mai osservato il vizio di paragonare alcuni luoghi, paesaggi, città ad altri luoghi, paesaggi, città più o meno vicini nello spazio-tempo? Questo vizio in genere mi fa incazzare. Mi fa incazzare perché il posto in questione perde di identità e anche di dignità.
Anche nella mia città, Rivoli, ma ancora di più nella vicina Torino, mi è capitato più volte di ascoltare deliranti discorsi di mediocri turisti (io sono un pessimo turista perchè non ho visitato quasi niente, ma per fare il turista non basta aver fatto tanti viaggi) che si sforzano a giocare a Memory con le celle della loro memoria, arruffando paragoni azzardati tra Torino e città europee più o meno vicine a noi.

In questo gioco a volte la città viene esageratamente sopravvalutata, perdendo così il meraviglioso contrasto delle sue radici nobili e industriali, oppure viene sminuita a cittadella di montanari operosi che è diventata così cool grazie a locali radical chic vicino al fiume e alle Olimpiadi.
Lo stesso identico discorso vale per la musica sfornata dal capoluogo piemontese e delle sue zone limitrofe. Spesso surclassato dalla immeritata prepotenza milanese, l’underground rumoroso sabaudo incassa colpi duri e rimane in cantina. Per poi non parlare di chi azzarda ad afferrare il bollente testimone dei mostri sacri oltre oceano o oltre Manica. Qui Torino diventa la Berlino priva di fremente luce artistica, le mummie del museo egizio diventano l’ombra della Stele di Rosetta e la Fiat una piccola costola della General Motors. E tutti i gruppi che senti nei sudici club allagati dalle piene del Po diventano schifosi tributi maldestri a Velvet Underground e New Order, se non peggio a Nada Surf e Radiohead.

Questo è quello che capita a una band chiamata Nymphea Mate, composta da quattro ragazzi ben piantati in terra sabauda e innaffiati con pioggia londinese. Tanto british da essere catalogati spesso come gruppo “brit-pop”, termine che mi da i nervi proprio come molte altre stupide catalogazioni: “indie”, “alternative” o “power-pop”.
I ragazzi suonano inglesi, è verissimo, ma non rinunciando ad interessanti variazioni sul tema come i chitarroni pesanti di “Billy Vanilla” e “Song for The Leader” che sembrano più di Josh Homme che di Noel Gallagher o le melodie della opener “Sir Constance” che sembra il nuovo singolo dei Band of Horses in rotazione su Virgin Radio. Insomma una buona porzione di U.S.A. se la ritagliano, e pure negli episodi migliori del disco.

I suoni e gli arrangiamenti vantano un grande equilibrio nel limbo tra i due universi pop e rock, le due realtà firmano un momentaneo armistizio e vivono in pace e armonia in ogni brano di “Endio”. Tra chitarroni rock’n’roll che ammiccano allo stoner, melodie ammiccanti e un tappeto sottostante (semplice ma efficiente) che guida la banda, le due parti ostili si abbracciano, si toccano e a volte si lasciano andare in una folle danza come nello scoppiettante finale di “Waiting for The Bang”.
Tutto sembra cotto a puntino, salato il giusto, ma manca di spezie. Mancano allo stesso tempo quel pizzico di personalità e quella spolverata ruffiana che farebbero entrare dritto dritto un loro brano nella top 10 di NME.
Insomma il disco scorre, ma proprio come la fastidiosa pioggerellina londinese ti lascia un po’ bagnato e non entra nelle ossa. Anzi con un buon impermeabile non arriva neanche alla pelle.

 

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Dafne Bloom – Ginger sad

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Forse quattro brani sono troppo pochi per giudicare questo lavoro…

Purtroppo però mi trovo di fronte a un lavoro che assomiglia più a un demo che a un ep che dovrebbe essere anche venduto attraverso le piattaforme digitali…
Gli mp3, si sa, a volte limitano anche i suoni delle canzoni e può darsi che sia anche questo il caso dei Dafne Bloom.
Tuttavia ascoltandoli un po’ di amaro in bocca rimane…
Le qualità nel gruppo ci sono tutte, gli arrangiamenti sono anche strutturati abbastanza bene…
Il brano “Ginger sad” ne è un esempio col suo tappeto sonoro di tastiere sovrapposto a batterie ben ritmate e a un cantato che ricorda molto da vicino quello di Brandon Flowers dei The Killers.
I come from tekno” ha un inizio Krafterkiano ma poi si tuffa in una elettronica alla Nine inch Nails.

Forse però, un po’ più di chitarre e una mano di basso elettrico avrebbero giovato davvero molto al brano.
I “testi” pure risultano un po’ confusionari ma la cosa è evidentemente voluta, quindi almeno in questo il gruppo è ampiamente giustificato.
Baccanalis” invece ha un inizio molto ritmato in cui si innesta una chitarra abbastanza incisiva (almeno qui) e un cantato molto dark e oscuro che ricorda un po’ anche quello di Robert Smith dei The cure ed è sicuramente l’episodio più riuscito di questo disco.

L’impressione comunque è proprio quella di un vero e proprio baccanale sonoro…
Dafne in bloom” è invece una ballad dal tono decadente molto orecchiabile che potrebbe trovare anche spazio nei networks radiofonici ma a quasi tre minuti dall’inizio un improvviso cambio di volume nella regolazione dei suoni rovina un po’ l’atmosfera creata e purtroppo la cosa si ripete anche alla fine.
Peccato davvero quindi, perché il talento non manca e forse con la mano di un produttore di talento tipo Trent Reznor, il supporto di una major discografica e magari anche un mastering migliore questo lavoro avrebbe potuto tranquillamente sfondare.
Una nota di merito però va all’artwork per la copertina appena bicolore, davvero molto bella nel suo minimalismo (una piccola opera d’arte!).

Aspetto quindi i Dafne Bloom alla seconda prova perché per ora la sufficienza appare lontana…

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Camillorè – Graffi e perle

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Un Barnum folk che si agita a più non posso, verve, diaboliche cialtronerie di verità che manomettono l’ipocrisia del buon pensiero e delle comodità d’ascolti  snob; da Bari il pensiero senza catene dei Camillorè,  “Graffi e perle”, sedici tracce umorali e quattro intermezzi recitati dall’attore Pasquale D’Attoma con il fulminante sax del jazzista Roberto Ottaviano, comiche e sanguignolescamente guitte, gravide di j’accuse, prese per il culo ed il teatro virtuale di Dario Fo che incontra la spiritualità ridanciana di Caparezza.

Questo e quant’altro rotea intorno a questa band che, con il fare raffazzonato dei musici di strada, arrivano ad incantare, imbambolare ed affabulare un ascolto divertito e indagante; idee chiare e strampalate con storie sbilenche che graffiano la carne per reclamare ascolto, vibrazioni di jazz, caracolliì  estrosi, mirabolanti piroette di folk-rock che battono forte sul nervo della fantasia più declamata, più recitata; il sestetto pugliese è una fonte d’energia “rinnovabile” ad ogni cambio traccia, una forza teatrale che fa spettacolo uditivo senza sospensioni o tiri di fiato, una sequenziale ironia che rimane appiccicata in testa e  – come una trottola a comando – ti sollecita muscoli e neuroni ad attivarsi nel pensiero e nella smaniosa forza di scaltrezza.

Jannacci che fa cucù su “Il jezzarolo”, il rock di un Capitan Uncino che riverbera dentro “Stequattromura”, l’assurdo rendiconto sulla fiducia che sghemba in un rock’n’roll brass “Il professor Procopio Trombetta”, orientaleggianti deliri alla Totò le MokòTemistocle Malalingua”, le sarabande di un Capossela infervorito “Pllaq plluq”,  “La nonne”, “Papà Oloconte”: questo è solo un assaggio di quello che troverete qui dentro, tra le fronde di una tracklist ricca e mordace, un teatro circus che ha un sorriso per tendone e veleni comici per stelle, una straordinaria scoperta made in Bari che vi farà smontare le tensioni con la forza di parole e suoni inaspettati.
…” e sempre allegri bisogna stare che il nostro piangere fa male al Re/ fa male al ricco e al cardinale diventan tristi se noi piangiam..” .

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Bologna Violenta – Utopie e Piccole Soddisfazioni

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Partiamo da lontano circa metà anni ottanta. In un buio scantinato freddo e puzzolente, tra rifiuti, siringhe usate, bottiglie rotte e sorci neri e grossi che si divorano gli uni con gli altri, sopra un materasso intriso di piscio giallo e sperma rinsecchito, l’Hardcore, strafatto come al solito, si stava trombando violentemente e senza precauzione alcuna quella fighetta dell’Heavy Metal, non sappiamo quanto consenziente. Poco tempo dopo ecco il parto tanto (in) atteso. Come un alieno verde, con la lingua biforcuta in bella mostra, dalla vagina della fighetta in tutta la sua furia estrema, in tutta la sua follia, senza lacrime, sulla terra fa la sua comparsa una nuova specie. Grindcore è il suo nome e come un vampiro presto inizia a nutrirsi del sangue degli ultimi, inizia a diffondere il suo verbo urlando e a spargere il suo seme dal Regno Unito al mondo intero come una pioggia di psicopatica violenza acida. Napalm Death e Carcass sono i primi apostoli poi convertiti al Death Metal. Proprio Mick Harris (drummer dei Napalm Death) battezzò il nuovo genere parlando di grind, tritacarne, per definirne i tratti caratteristici. Pezzi brevi come esplosioni, liriche sociali, rumore nero e parole a tratti incomprensibili. Nicola Manzan (c’è lui dietro la one-man-band Bologna Violenta) è molto giovane all’epoca ma segue la crescita e lo sviluppo del genere in maniera apparentemente maniaca. La prole dell’originale Grind si è spostata fisicamente, soprattutto in terra Americana (U.S.A.) e ha cambiato alcuni dei suoi tratti somatici. Spesso si è fatta più precisa, ad alto livello tecnico, con riff discordanti tra loro, struttura spesso molto complessa e dilatazione dei tempi di esecuzione, sfociando nel cosiddetto Math-Core (The Dillinger Escape Plan una delle band più rappresentative del genere). In altri casi si è allontanata verso le terre del Metal, sia Death sia Brutal, mantenendo intatte, in questo caso, alcune peculiarità quali la velocità nel riffing o il martellamento della batteria oltre i 200 Bpm, riducendo però la voce a qualcosa d’incomprensibile e quindi mettendo il secondo piano l’aspetto sociale delle liriche.

Nicola Manzan (trevigiano classe 1976, diplomato in violino e polistrumentista, già collaboratore con Teatro Degli Orrori, Non Voglio Che Clara, Baustelle e tanti altri) oggi ha quasi quarant’anni e uno spiccato senso di malinconia propositiva, di voglia di passato, un forte legame con le radici ed anche tanta attenzione agli aspetti evolutivi sia del genere sia della società in cui ha vissuto. La nostra società occidentale, italiana fino al midollo. Nel bene e nel male. La nostra musica di chitarre e pelle che bacia l’elettronica. Pseudo nichilismo teatrale e teatralizzato in una sorta di colonna sonora di un film fantasma (anche se stavolta sono assenti i riferimenti diretti al mondo cinematografico). Esiste un legame tra la “nostalgia” con la quale riprende il Grindcore originario plasmandolo e mescolandolo con l’elettronica e con schegge impazzite avanguardistiche che possono essere voci distorte, trasmissioni radio, inserti di musica classica, jazzismi, cover (splendida) dei C.C.C.P. (Valium Tavor Serenase cantata da Aimone Romizi dei Fast Animals and Slow Kids), electro-music e tanto altro, con quelli che sono i riferimenti testuali sociali e letterali delle canzoni (canzoni è il termine meno adatto per le esecuzioni di Bologna Violenta) che tanto si rifanno agli anni ottanta, proprio gli anni in cui il genere è nato.

Bologna Violenta è palesemente ben oltre il Grindcore. Utopie e Piccole Soddisfazioni, secondo album dopo l’ esordio datato 2010 “Il Nuovissimo Mondo”, è un insieme di tante cose. E soprattutto è una degna evoluzione, logica prosecuzione, eccelso sviluppo di quanto fatto nell’ album precedente, con notevoli miglioramenti strutturali e compositivi, maggiore lucidità, visione più ampia e meno incentrata sulla sola tagliente chitarra elettrica. Un enorme passo avanti. Il Grind è la materia prima penetrata da citazioni, digressioni splatter, intellettualismi, parole del Presidente della Repubblica Saragat del 1967, canti polacchi, il bambino Dario e la signora Maria, Arturo Taganov  e altre follie. Utopie e Piccole Soddisfazioni è accozzaglia, babele, cagnara, confusione, disordine, guazzabuglio, macello, pandemonio, sconquasso, trambusto, il risultato defecato dalla società italiana in digestione dagli anni settanta fino a oggi, che un Demiurgo chiamato Bologna Violenta ha lavorato come creta per creare qualcosa che disturbasse il perbenismo in maniera mirata e apprezzabile da chi riesce a saltare la schematicità della classica forma musicale tipo canzone e una volta creato qualcosa di bello ci ha pisciato sopra per rendere l’opera ancora più viva nella sua ripugnanza. Come abbiamo detto, dall’analisi del disco e delle sue singole parti, emerge una varietà notevole di elementi. Dalle parole del PdR di “Incipit” e la violenza della chitarra, si passa alla purezza (nel qual caso non prendete la parola alla lettera) di “Vorrei sposare un Vecchio” e il suo coro di bambini, fino a sperimentazioni elettroniche Harsh stile Kazumoto Endo, pseudo improvvisazioni noise degne dei Dead C o dei Flipper e follie pregne d’impulsi sessuali avantgarde memento dei geni della provocazione Butthole Surfers. Ci sono collaborazioni importanti (oltre alle citate ricordiamo quella con J.Randall degli Agoraphobic Nosebleed, con Nunzia Tamburrano, compagna e collaboratrice che recita in Remerda e con Francesco Valente, batterista de Il Teatro Degli Orrori, che urla in Mi fai schifo) e inserimenti di violino, ci sono parole di rabbia, ci sono cover, c’è una ricerca metodica e spasmodica, c’è rassegnazione e speranza, ci sono ballate dall’aspetto folk che raccontano una novella finto De Andrè (Remerda) come a prenderci per il culo, ci sono intermezzi che sarebbero perfetti con le foto delle piazze italiane sullo sfondo, c’è la decadenza culturale e politica, c’è la decadenza dell’arte musicale, ci sono cori monastici squartati dalle urla della chitarra, c’è tutta Bologna Violenta, fino alla fine, ovvia come la morte, triste come la vita. C’è cosi tanto che descriverlo, è impossibile. Utopie E Piccole Soddisfazioni è parte dell’unico strumento a nostra disposizione per distruggere dalle fondamenta il Panopticon nel quale la mente della collettività è stata rinchiusa in completo potere psichico dal guardiano della società moderna. Tutto è smitizzato,tutto è ridicolazzato. Ora sta a voi.

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Cybersadic – Droga alla massa

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Questo lavoro al primo ascolto sicuramente vi lascerà un po’ spiazzati…
“Droga alla massa” dei Cybersadic è infatti un vero e proprio calderone sonoro che comprende nei suoi ingredienti i Subsonica (citazione “dovuta”, visto che si parla del panorama elettronico -techno  musicale italiano) e i Chemical brothers (“Wake up” ricorda molto le sonorità di “Hey boy, hey girl” famosa hit del 1999 del gruppo di Manchester).

Molte infatti le similitudini nei confronti dei due gruppi citati sia a livello vocale sia a livello musicale.La loro però è un’ispirazione proveniente anche da vari repertori musicali, cioè una sorta di eclettismo che permette di apprezzare ogni pezzo come un’entità, diciamo “autoconclusiva“, che peraltro non annoia mai l’ascoltatore.
Poche liriche e musiche ben collegate tra loro vi accoglieranno in un tappeto sonoro che ogni tanto fanno  ritornare alla mente anche i vecchi Kraftwerk, che non appaiono mai datati e che continuano a ispirare le generazioni moderne di giovani musicisti.

Le tematiche trattate nei testi evocano atmosfere cibernetiche però contemporanee e non
paleofuturiste ma sempre con il carattere sovversivo che contraddistingue il loro stile.
Non stupirebbe quindi se qualcuna delle nove tracce trovasse spazio in qualche film di fantascienza alla “Blade runner”.
Nella prima parte del disco c’è un ritmo deciso, consapevole e urlato, dal forte intento comunicativo, anche se spesso intervallato da momenti di pura melodia elettronica che distendono questo incalzare.
La quarta canzone “La notte” ad esempio inizia con un riff di chitarra alla Depeche Mode per poi tuffarsi in un cantato che ricorda i più quieti Cccp distorti da un vocoder.

Molti anche i richiami anche alla new wave italiana dei primi anni ottanta, soprattutto per quanto riguarda le chitarre che confluiscono con la tradizione musicale d’avanguardia degli stessi anni.
Un progetto ambizioso quindi quello di questi ragazzi campani che attende solo di superare la prova del live…
E non lasciatevi fuorviare dal titolo di questo cd…
Semmai consigliate l’acquisto di questo cd alla massa e che la nuova rivoluzione (musicale) permamente abbia inizio da voi!
Attenzione: il disco è sicuramente uno dei migliori lavori usciti in Italia nel 2011…potreste diventarne dipendenti!

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Lambchop – Mr.M

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Misero il destino per chi da eroe diventa un numero zero, ma questo non riguarda i Lambchop. La band di Nashville era un numero zero agli inizi di carriera, zeri rotondi come il sole della loro terra: poco musicisti e molto sognatori, nichilisti dell’atmosfera , assertori che un mega blob inconcludente sostasse nel nulla pneumatico della musica. Questo era il lusso frenetico che questi giovani americani senza collare donavano e donano nei loro lavori. Qui al loro undici della carriera “Mr.M”, provano qualcos’altro, rinunciando al caracollare consueto, per un disco- sì malinconico di prassi – ma con accenti soffusamente smooth, jazzly, confidenziali con sospiri di Tindersticks e Wilco a soffiare delicatamente su braci semi-spente di fuochi andati; della band colpisce sempre la vena svaporata, i suoni tratteggiati che in questo nuovo disco sono dilungati a dismisura, in concreto slow song che stirano la tracklist come un lungo ballare delicato e in uno stato mentale d’abbandono e di rimpianti, ma è solo l’effetto delle orchestrazioni che ampliano il lento pathos che regna ovunque.

Undici pezzi, undici “classici” si vanno ad aggiungere ad un ascolto ovattato, fuori memoria e fuoco, da prenderci l’abitudine anche se si crede che questi “giri di boa” stilistici siano solo prendi tempo per ritrovare quella via maestra d’un tempo, che qui man mano pare vada a  scemare su derive incontrollate; detto ciò Mr. M rimane un disco piacevole, allentato ma sincero e onesto, con tanti sogni dentro e pochi effetti speciali fuori, praticamente inesistenti; Kurt Wagner, il leader vocal della band non sì da pace, crea atmosfere cantate sofferte, acide “Kind Of”, “Nice without mercy”, e nel suono totale vivono un crooneraggio alla lacrima “Mr.Met”, un Nike Drake che cavalca il folk di “Gone tomorrow”, arie da night con coretti “Gar”, la ballata bradiposa “2B2” o i violini sparuti che segano le tramature lente di “Buttons”.

Non si può gridare a nessun miracolo, è solo un buon disco che cozza leggermente con le precedenti produzioni e che abbisogna di più di un bel giro di stereo prima che ti rilasci sensazioni specifiche e idonee di un bel listening; del resto non si può pretendere boom discografici dopo lunghi anni d’altrettanti boom già acquisiti, una ciambella con mezzo buco riuscito ci può anche stare, l’importante è non ricaderci e tornare alla propria storia.

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Amp Rive – Irma Vep

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Da quel lontano 1991, quando un gruppo di ventenni trascinati da David Pajo e Britt Walford, plasmarono in maniera netta quello che oggi chiamiamo senza troppi problemi Post-Rock, a ora 14 febbraio 2012 ore 16:26, quali e quanti passi avanti sono stati fatti in merito? Pochi, pochissimi e tanti nello stesso tempo. Il trio classico chitarra elettrica, basso, batteria è stato, di volta in volta, affiancato da synth o altre strumentazioni meno consuete ma la spina dorsale è rimasta sempre praticamente illesa. Il rock strumentale degli Slint è diventato qualcosa di totalmente diverso eppure non è mai cambiato. Il calderone, sopra la fiamma degli anni novanta, nel suo continuo ribollire ha rovesciato all’esterno stili diversi che sono sfociati in diverse correnti scivolate lontano dalla pentola (pensate al Math-Rock dei Don Caballero). Il Post-Rock non era ancora un preciso genere musicale ma il tempo l’ha reso tale. Ogni variazione sul tema di quel celebre Spiderland ha generato diverse correnti musicali. Quello che non è quello che era allora, allora è altro. Ogni ramo partito da quel 1991 è diventato una pianta diversa dal tronco. Quello che resta, Il Post-Rock oggi, è esattamente quello creato tanti anni fa da quei ragazzi di Louisville ed è esattamente quel tronco che ci propongono i ragazzi di Reggio Emilia sotto il nome di Amp Rive.

Nessuna sperimentazione, nessuna voce fuori dalle corde, nessun estremismo o divagazione, niente Screamo Post-Hardcore in onore della madre The Death of Anna Karina. Niente di niente, oltre il cuore. Nuda e cruda musica strumentale. Tanto per capire di chi parliamo, gli Amp Rive sono una band di Reggio Emilia, nata dalle idee di Adriano e Luca dei The Death Of Anna Karina (Unhip Records), assieme a Gualtiero Venturelli (chitarra) e Alessandro Gazzotti (basso). La band nasce nel 2005 con il nome di Irma Vep e negli anni successivi si dedica a un’intensa attività live, aprendo i concerti per numerose band italiane tra le quali Three Second Kiss, RedWormsFarm’s, The Zen Circus e Le Luci Della Centrale Elettrica. Nel 2009 compongono una colonna sonora originale per il film Vampyr di C.Th. Dreyer del 1932, che eseguono in sonorizzazioni dal vivo in diversi festival cinematografici, con la collaborazione della Cineteca di Bologna. Nel corso del 2010 registrano i pezzi che vanno a comporre il loro primo album, presso l’Igloo Audio Factory di Correggio (RE) da Andrea Sologni (Gazebo Penguins) che ha fatto parte della band dal 2007 al 2010 e che ha suonato synth e chitarra nel disco, con la collaborazione di Enrico Baraldi (Ornaments e Nicker Hill Orchestra). Con l’uscita del primo album gli Irma Vep decidono di cambiare il loro nome in Amp Rive, in seguito all’arrivo di nuovi componenti: Enrico Bedogni alle Tastiere e chitarra e Daniele Rossi al violoncello e chitarra.

Il cd, intitolato “Irma Vep” proprio per dare continuità al lavoro svolto negli anni precedenti, è uscito il 1° ottobre 2011 per l’etichetta francese Als Das Kind, ed è stato anticipato dal video della canzone “Best Kept Secret”. Parlare del disco, avrete capito, rischia di diventare un puro esercizio di espressa banalità. Sei canzoni di classico Post-rock senza alcuna via di fuga. Continui richiami ai mostri sacri del genere come Godspeed You! Black Emperor depurati dalle incursioni vocali e dall’alone di mistero che aleggia nell’opera dei canadesi. Dal silenzio totale alla violenza totale come Explosions In The Sky ma senza silenzio e senza violenza. Ma soprattutto tanto tanto Mogwai sound. Tuttavia, ovviamente (avrete capito che il suono degli  Amp Rive si presenta estremamente “puro e ri-pulito” da ogni sorta di variazione sul tema) sempre senza eccessi noise. Per capirci, se qualcuno vi chiedesse di spiegare platonicamente cosa e quale sia l’idea di Post-Rock, arrendetevi, la risposta è tutta in quest’album. Strumentale e moderna classicità che forse nulla aggiunge al panorama musicale italiano odierno in termini d’innovazione ma che ci affascina comunque per la sua poesia. “La bellezza è mescolare in giuste proporzioni il finito e l’infinito”. Come se non bastasse la neve a scaldarci romanticamente il cuore in queste altrimenti inutili giornate di Febbraio, c’è anche Irma Vep, non dimenticatelo.

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Bobby Soul – Conseguenze del groove

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Il nuovo disco di Alberto De Benedetti, in arte Bobby Soul, è una sorta di esperimento sonoro che forse accade per la prima volta in Italia: “Conseguenze del groove” è infatti inciso con tre band differenti, i Knickers, i Les Gastones e i Bonobos Boracheros, a seconda dei brani.

Diciotto tracce che vi catapulteranno nell’universo del soul e del funky sin dal primo brano “Conseguenze” in cui il rimpianto critico Ernesto De Pascale mette subito in chiaro che “I negri hanno creato blues, jazz, rock’n roll…noi stiamo semplicemente rivivendo impressioni nate dal popolo di colore”.
Ascoltando questo compact disc infatti si sente tantissimo l’influenza di tutta la musica black con testi mai scontati a volte persino anche ironici, come succede in “Bobby Soul, who the funk you think you are?” e “Un’assouluzione”.
Il singolo “Stringidenti” scritto a quattro mani con Andrea “Manouche” Alesso è molto orecchiabile e le tastiere di Mattia Minchillo trovano qui il giusto e meritato spazio.
C’è anche tempo per la riuscitissima cover di Ritchie Havens  “Freedom” in cui prevalgono la chitarra e le percussioni e che nonostante siano passati molti anni dalla sua pubblicazione non mostra i segni del tempo.

Ospiti prestigiosi del disco Rickey Vincent , il già citato Ernesto De Pascale (a cui è dedicato l’intero album) e Gil Scott Heron.
Certo dai tempi di “73% Phunk” c’è stata una notevole evoluzione e maturazione nei suoni ben evidente soprattutto in “Amore a prima vista” e “L’uomo della porta di servizio” e in “Crudele”, che qui troviamo in una versione stravolta rispetto a quella del disco citato.
Lasciatevi quindi prendere dall’incantevole voce di Bobby Soul, che a tratti vi potrà anche ricordare anche quella di Mario Biondi.

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