Interviste

Roberta Carrieri

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Roberta Carrieri è tante cose. Simpatica, disponibile, alla mano, ma soprattutto una bravissima cantante e un’autrice divertita e divertente. La raggiungo via mail per un’intervista sul suo ultimo disco, Relazione complicata, ma anche sulle donne in musica, sul valore delle collaborazioni, sulle sue esperienze all’estero e sull’importanza delle proprie radici.

Partiamo dal nuovo disco, Relazione Complicata, uscito da pochissimo. So che è un concept, ce ne vuoi parlare?
Sì, è un concept che si muove intorno al tema delle “relazioni complicate”, idea che mi è venuta a seguito della lettura del libro della psicoterapeuta americana Robin Norwood che affronta la questione delle dipendenze affettive. Ho pensato: perché non provare a scrivere canzoni raccontando in modo ironico varie tipologie di relazione complicata? E sono venute fuori le canzoni di questo disco.
Per relazione complicata non intendo solo quella sentimentale tra uomo e donna, naturalmente. Bari Vecchia, per fare un esempio, parla della relazione complicata nei confronti della propria città… nel mio caso, Bari.

Com’è nato, e come si è sviluppato, Relazione Complicata? Ho letto che partecipano al disco i Rock’n’Roll Kamikazes e i Selton. Come sono nate queste collaborazioni e quanto hanno influito sul prodotto finale?
I Selton sono i “Pirati” de Il Valzer dei 3 giorni. Nutro una grande stima per loro sia come musicisti sia come persone, perché sono sempre solari e ben disposti, dote rara. Mi è piaciuto in questo disco sottolineare l’incontro tra maschile e femminile utilizzando interventi di voci maschili disseminati qua e là… oltre ai Selton, infatti, ci sono anche altre voci maschili, tra cui Aldebran dei Bloody Mary e Andy Macfarlane dei Rock’n’Roll Kamikazes. Con loro ho voluto sperimentare un incontro musicale atipico, visto che io vengo dal folk e e queste canzoni erano, per scrittura, abbastanza pop (nel senso dei ritornelli facili). Volevo vedere cosa sarebbe successo suonandole con un gruppo rock’n’roll/rockabilly e quello che ne è venuto fuori è questo suono un po’ western, surfeggiante a tratti, “Paris, Texas”. Quindi devo dire che sono più che soddisfatta dell’esperimento.

Quanto conta l’elemento femminile nelle tue canzoni? Più in generale: credi che “la donna in musica” sia in qualche modo “condannata” a cantare della propria (o altrui) femminilità, a farci sempre, e comunque, i conti? Secondo te questo è un valore o un limite, o entrambi?
Questa domanda la trovo molto interessante… la donna a mio parere non canta la propria femminilità, né è condannata a farlo… è semplicemente, naturalmente e inevitabilmente quello che è, cioè donna. Quindi non deve farci i conti, non è un valore e non è un limite. È quello che è.
Hai mai fatto la stessa domanda a un uomo? Anche gli uomini cantano inevitabilmente quello che sono come persone, portandosi dietro inevitabilmente la loro mascolinità. (Lo stesso vale per tutte le altre sfumature di identità sessuale naturalmente). Nessuno però se ne pone mai la questione… prova a chiedere agli Zen Circus se si sentono condannati a cantare la loro mascolinità! O agli Afterhours… o a Capossela… Il limite vero, nella realtà dei fatti, è che in Italia le autrici, rispetto agli autori, sono ben più rare, ed è per questo che ci viene da fare questo tipo di domande… bisognerebbe che ce ne fossero di più! Ma vedrai che pian pianino succederà.

Ti seguo abbastanza, e vedo che suoni spesso all’estero (da sola, ma anche “ben accompagnata”, con Voltarelli, ad esempio). In passato hai anche fatto tournée negli States e altrove. Com’è suonare musica italiana per il mondo? Come vengono recepite le tue canzoni nei Paesi in cui sei stata? C’è qualche episodio particolare che ti ha colpito?
Accompagnata benissimo direi! Peppe è un mio grande amico e dividere il palco con lui è veramente uno spasso. Qualche giorno fa siamo stati insieme a suonare a Bruxelles e quest’estate abbiamo condiviso l’intensissima esperienza del Festival di Avignone con anche Gabriella Grasso. L’esperienza all’estero è cominciata per me con i Fiamma Fumana con i quali ho avuto la possibilità di girare in lungo e in largo per Stati Uniti, Canada e Nord Europa. Devo ammettere che la cosa è molto gratificante, soprattutto perché all’estero ho sempre cantato in italiano (le mie canzoni) o addirittura in dialetto, con i Fiamma Fumana. Il pubblico apprezza proprio questo, la nostra identità culturale, e comunque rispetto all’Italia è un pubblico un po’ più curioso rispetto alle novità e alla musica, probabilmente perché meno succube della televisione… un episodio particolare che mi ha colpito è stato quando in America, e precisamente quando ho aperto per Rita Coolidge all’auditorium della Riserva Navajo a Shiprock, N.M., mi volevano pagare i cd più del loro prezzo, insistendo e dicendo che valevano di più!

Ho visto che su Youtube, nella descrizione del teaser inglese del tuo ultimo disco, viene specificata la tua provenienza pugliese. Che rapporto hai con le tue radici, dalla Puglia, al Sud, all’Italia intera? Come accennavi prima, hai anche cantato nei Fiamma Fiumana, uno dei più importanti gruppi di “italian world music”. Quanto conta, nella tua esperienza, la musica popolare?
Sono stata appassionata di musica popolare per anni, poi la mia attenzione musicale si è spostata verso altri lidi, conservando naturalmente quell’imprinting. Sono del Sud e orgogliosa di esserlo, anche se mi è piaciuto assorbire le cose belle dei posti che ho incontrato. Una certa attitudine mediterranea, soprattutto nei rapporti con gli altri, la porto e la porterò sempre con me, cercando di non dimenticarla mai. Un po’ come il mare. La canzone Bari Vecchia contenuta in Relazione Complicata parla proprio di questo, e della relazione conflittuale che si può avere con la città nella quale si è nati e cresciuti, e dalla quale poi, per un motivo o per l’altro, si è dovuti andar via, portando però sempre dentro di sé quel mare a cui si è stati abituati da quando si è nati.

So che vieni dal teatro, e in generale da esperienze attoriali, e che occasionalmente questa tua passione riaffiora (ti ricordo nel ruolo di ballerina indemoniata nel video – molto bello – di Farà Cadere Lei de Il Pan Del Diavolo). Quanto ti porti dentro di queste esperienze, sul palco e nel tuo modo di scrivere?
Quando lavoravo al Teatro Kismet a Bari avevo imparato (grazie agli insegnamenti della mia maestra Teresa Ludovico) a pensare per immagini o azioni più che per parole: se con i Quarta Parete questo si traduceva concretamente in azioni o immagini in uno spettacolo a metà strada fra la musica e il teatro in cui i due frontmen cantanti si muovevano come in un “videoclip dal vivo”, ora che vado in giro a suonare accompagnandomi con la chitarra e ho le mani occupate (!), ho spostato questa attitudine nei testi e nell’interazione col pubblico… in quest’ultimo disco un po’ di teatralità la si può ritrovare anche nel lavoro fotografico del booklet, opera del fotografo (nonché amico) Stefano Ruzzante. Del video de Il Pan del Diavolo conservo un ricordo molto forte… sono tornata a casa con le gambe completamente scorticate ma contenta perché era stata una danza liberatoria (un po’ come la pizzica tarantata).

Per finire, mi accorgo, facendoti tutte queste domande, che collabori tantissimo con altri artisti (se dovessi fare un elenco ci metterei due giorni). Quanto credi sia importante fare “rete”, nel mondo musicale italiano? Credi sia fondamentale per la crescita di un artista, o pensi sia spesso solo un modo per farsi più pubblicità possibile (senza esserci, in questo, necessariamente qualcosa di male)? Nella tua storia personale, quanto ti ha aiutato come artista e come persona? Sono state occasioni casuali o progettate?
Fare rete è importantissimo, soprattutto se si tratta di persone con le quali si condividono intenti e immaginari. Facendo rete si cresce insieme nello scambio di vedute, esperienze e abilità peculiari messe in condivisione. Non penso sia un fatto di pubblicità, io personalmente credo che non potrei condividere il mio tempo e la mia energia vitale con qualcuno che non stimo e che non mi stimoli, solo per farmi pubblicità. Sarei infelice se lo facessi. Certo la collaborazione con Van de Sfroos mi ha dato molta visibilità, ma se alla base non ci fosse stata la simpatia musicale (e personale) e la curiosità reciproca, la cosa non sarebbe avvenuta sicuramente, o comunque non sarebbe durata quanto è durata. Le collaborazioni in generale mi hanno aiutata nel senso che mi hanno dato la possibilità di imparare da chi ne sapeva più di me (o anche semplicemente in maniera diversa da me) e di arricchirmi della sua esperienza, sia dal punto di vista artistico che personale, come, giustamente, dici tu. Questo è successo anche quando nella collaborazione ricoprivo io il ruolo di quella più “brava” o più “conosciuta”, perché è nell’incontro che ci si arricchisce ed è reciproco. Poi secondo me è necessario sempre essere aperti e umili, altrimenti l’incontro non avviene. Quindi, insomma, concludendo, le collaborazioni che mi è capitato di avere non sono mai state progettate, ma per usare una parola importante… sono forse stati “incontri karmici”.

Relazione Complicata è disponibile su iTunes qui.

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Two Guys One Cup

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Quando credi che la serata sia già finita e ti appresti ad affrontare il bicchiere della staffa, di norma non ti aspetti più di tanto dal resto della giornata. Invece, a volte, succede qualcosa che può sorprenderti piacevolmente e che può portarti a prolungare ancora la serata (ed anche a continuare a bere, ma questa è un’altra storia). Disilluso e stanco mi trovo per caso ad ascoltare, nel buio del Qube di Pescara, un duo di power rock veramente valido ed a me fino ad allora sconosciuto, i Two Guys One Cup. Stefano Galassi, il batterista, picchia sodo e pare non perdere mai la concentrazione mentre Federico Falconi suona come un invasato la sua chitarra e coinvolge con le sue liriche anglofone. Ma dove sono finito? Non volevo farmi un solo bicchiere ed andare a casa? Invece, dopo una ventina di bicchieri della staffa, ecco che parte inevitabilmente la chiacchierata.

Two Guys One Cup. Dove nascono, cosa fanno e dove vogliono arrivare?
Noi veniamo da Teramo, ed il nostro genere può essere associato al rock indipendente, anche se di preciso non sappiamo classificarci. Riguardo a dove voler arrivare beh, vorremmo diventare famosi solo per avere una giustificazione nel portare gli occhiali da sole di notte. È da artisti. Con le lenti specchiate, magari.

Parliamo un po’ della vostra musica. Quali sono le vostre influenze? Vi ispirate a band come Japandroids o Death From Above 1979 che vi somigliano molto sia per formazione che per musicalità o le vostre scelte sono diverse?
Noi non abbiamo propriamente delle ispirazioni, a parte magari Hives, Mojomatics e roba simile. Facciamo semplicemente quello che ci piace e cerchiamo di farlo nei nostri limiti. Puntiamo molto suoi suoni, essendo un duo dobbiamo spingere su quest’aspetto per creare un sound compatto.

Il panorama italiano musicale al momento: vi appassiona o vi fa schifo? Come vi ponete al suo interno o meglio, c’è un posto per voi al suo interno?
La scena italiana è morta anni fa. Non c’è spazio per i giovani, per le band underground o per chi cerca semplicemente di fare musica che non sia mainstream. Però siamo ottimisti: forse, un giorno, qualcosa si ricostruirà e noi saremo lì, pronti ad occupare il nostro posto.

Quanto pensate che la formula del duo sia vincente? Come nasce l’idea di suonare con una line-up così scarna?
È sicuramente un’idea vincente al 100%, poiché ci aiuta ad essere più liberi ed indipendenti. Essere in due ci aiuta molto in questo, non ci sono fronzoli e cerchiamo di essere più diretti possibile. La difficoltà arriva soprattutto durante i live: in due devi spingere per cinque, cercando di trovare il suono e la potenza giusti per non far rimpiangere una formazione classica di più elementi. È difficile anche perché il pubblico nota molto più i tuoi errori: se sbagli in una band “canonica”, non risulta così evidente come quando si è in due.
La scelta poi nasce fondamentalmente dall’amicizia e dalla voglia di cercare qualcosa di veramente impegnativo che ci soddisfacesse a pieno: in due è più facile far collimare le idee, ma un altro conto è farle suonare bene quando si hanno a disposizione solo chitarra e batteria.

A proposito di cose difficili: la scena musicale della vostra regione è già di per sé scarna ma anche inficiata da un mare di cover/tribute band. È difficile suonare per voi nella vostra regione?
La musica ormai è solo una questione di soldi. A chi gestisce questo mercato non importa la qualità o la novità, ma la quantità di gente che porti. Ed il problema non è solo in Abruzzo, ma in tutta Italia ed anche all’estero: a Londra abbiamo visto che suonano una marea di cover band, anche se chi ha proposte originali ha molto più spazio rispetto che da noi.

I vostri testi sono in inglese. È una scelta portata esclusivamente dalla musicalità del prodotto finale o legata alla voglia di uscire fuori dall’Italia?
Non abbiamo mai pensato di fare testi in italiano perché fermarsi qui vuol dire morire. Se vuoi campare e farti conoscere qui con la musica è meglio fare del pop, e non è di sicuro il nostro caso. Cerchiamo di andare avanti con i nostri pezzi per espatriare, restare unicamente qui è deleterio. Prima c’era più spazio per gruppi emergenti o originali, sia nei centri sociali che nei locali si suonava parecchio, forse perché c’era anche più cultura musicale. Oggi Dj Set e cover band spadroneggiano e fanno molti più numeri che una band sconosciuta; questo ti porta a desistere, ma allo stesso tempo ti sprona ad andare avanti per dimostrare che la tua è comunque una proposta valida.

A questo proposito: cosa manca alla cultura musicale italiana rispetto a quelle anglosassoni o mitteleuropee?
Il valore della musica è differente. Si è perso il gusto di ascoltare rock o punk qui in Italia, non si trasmette più il fatto di ascoltare musica come cultura ma solo come forma di disimpegno. Poi ricerca e cultura in ambito musicale sono scomparse. Tutto questo si riflette anche sul pubblico, che cerca sempre di più una forma di intrattenimento “leggero” piuttosto che fermarsi ed ascoltare. La gente forse non sa che esistono band che spingono allo stesso modo davanti a quattro o quattrocento persone. Noi siamo così, abbiamo limiti di carattere tecnico ma sul palco diamo tutto e lo facciamo per passione, di certo non per darci delle arie. Poi c’è chi va a suonare, prende i suoi soldi ed il giorno li usa per mangiarsi una pizza. Noi non siamo così.

Parlateci un po’ del vostro disco Life Beyond the Door e dei vostri progetti futuri.
Life Beyond the Door è uscito da un mese ed è completamente autoprodotto, ascoltatelo, ne vale la pena. Inoltre siamo già in studio con altre idee, anche se è prematuro parlarne. La prossima data sarà a Roma, seguiteci su facebook per scoprire tutti i nostri live.

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REVERENDI

Written by Interviste

Grandi novità in questo 2013. E Rockambula cerca con santa pazienza di curiosare dove qualcosa si muove nel sottosuolo. Appiccica un orecchio al terreno per cercare di captare le vibrazioni più interessanti e viscerali. Quello che il buon vecchio Pino Scotto chiama “Il grido disperato di 1000 band”.
La vibrazione interessante di oggi è rappresentata da una band nata poco più di un anno fa a Torino da tre ragazzi che di palchi e di studi di registrazione in realtà ne hanno già calpestati. I Reverendi oggi si presentano senza mezzi termini e profetizzano: “il rock non lo fanno mica solo gli americani”. Escono ora con “Meno è sempre di più”, EP-concept di sette pezzi. E allora noi di Rockambula pigliamo la palla al balzo e ci facciamo due chiacchiere con il cantante/bassista Daniele.

Ciao Daniele, siete nati da pochissimo e vi presentate con un progetto molto ambizioso e determinato. Un concept di sette pezzi, tutti attaccati tra loro senza pause. Forse un’attitudine che tiene a valorizzare più l’intero pacchetto che i singoli brani. E’ poco pop o sbaglio?
Ciao!
Questo EP esce come nasce. Avremmo potuto scrivere una canzone unica, anche perché unico è il messaggio di questo esperimento: “meno è sempre più”, tutti i pugni che quotidianamente incassiamo sono stimoli per lottare, crescere e puntare al cambiamento.
Ciò che è sempre differente è il punto di vista e lo scenario del nostro messaggio. Ecco che prendono forma 7 canzoni, ognuna rappresentazione delle nostre debolezze.

Nelle vostre canzoni raccontate il vostro vivere in una band al giorno d’oggi. Il brano di apertura del vostro disco si chiama “Metafora sociale”, davvero fare parte di un gruppo musicale è una presa di posizione “sociale”? Ci fornisci una piccola guida per l’ascolto?
Metafora sociale è una canzone che è finita al primo posto nel disco non si sa per che motivo perché iniziare un disco così è una bella mazzata di allegria..
Abbiamo scritto questa canzone cercando di rendere con il testo e con la musica la violenza psicadelica che stiamo vivendo. La canzone parte dalla conclusione, quindi svelando già il significato metaforico della canzone accostando il momento storico/sociale che viviamo ad un ubriacone che vuole smettere di bere, ma che finchè non schiatta nel suo vomito alcolico non si nega l’ultimo bicchierino.
Nell’estasi border-line dell’”ultimo bicchiere”, in questo oblio postsbornia, persino il movimento, minimo, della terra è insopportabile, soffocante, omicida.
Parte nel bridge una presa di consapevolezza che termina con lo special “Questa è l’ultima tempesta prima della fine spaccami la testa, basta”.
Lo special cerca di rendere il concetto di confusione assoluta all’interno del nostro tempo, una tempesta alla quale preferiamo porre fine con una martellata, breve e indolore.

“Meno è sempre di più”. Riflesso di band eternamente insoddisfatte oppure presa di coscienza della fortuna di poter suonare (comunque vada) buona musica in una città viva come Torino. Insomma bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto?
Il bicchiere è sempre mezzo pieno, se no l’avremmo chiamato Più è sempre meno 😉
Meno è sempre più nasce da una chiacchierata con un amico, Paul Greenwell dei 2 Fat Men. Una sera a casa dopo cena si parlava di musica, di quanto “togliere” nella musica sia arricchire, una nota data nel punto giusto, un colpo al momento giusto vale più di mille larsen o rullate.. Ad un certo punto Paul disse: “Sai Dani, nella musica meno è sempre più” SBAM.. In quell’istante mille lampadine cominciarono a illuminarsi e dissi a Paul che questo sarebbe stato il titolo dell’EP. Lui mi rispose: “EEh!”

L’EP è prodotto in modo magistrale da Marco Liba (Liba Recordings). Tutti insieme siete riusciti a mantenere il prodotto grezzo e vivo (nel senso che ha il sapore “live”) ma allo stesso tempo dilatato, in certi momenti quasi onirico. Come sono nati i pezzi e come si è svolta la produzione con Liba?
Si Liba è stato un elemento fondante per noi e per il nostro disco.. A tutti gli effetti si può dire che lui sia uno di noi, parte integrante della band, tanto che gli ultimi due live ha pure suonato con noi. Le canzoni sono nate da svariate idee melodiche, riff, qualche brandello di testo e un lungo week end insieme a Sauze D’Oulx. 48 ore di creazione all’Osteria dei Vagabondi e poi qualche giorno in studio con Liba a ragionare sugli arrangiamenti, sulle melodie, sulle ritmiche. Insieme siamo riusciti a trovare la quadra di questo EP che è cambiato in continuazione durante la sua realizzazione e che sarebbe cambiato ancora..
Abbiamo fatto delle ottime prese di rec. Non ci sono replace, non ci sono trigger, né parti elettroniche, tutto ciò che c’è è suonato con batteria, basso e chitarra. Abbiamo poi lavorato sui reverb, delay e reverse per dare spazio. Si, nell’onirico mi riconosco, fa parte di noi. Violenza e alienazione a fasi alterne.

Portate un nome dissacrante, irriverente e per questo di grande impatto, a mio avviso pure originale e divertente. Da dove arriva la “vocazione”?
Ahah bene!!! Pensa che la critica più costruttiva arrivata ad oggi è stata “sembra i ministri”….
Anyway…  Siamo e sono personalmente molto legato a questo nome. Proprio per un dicorso di vocazione e di contraddizione. L’ispirazione nasce da una novella di Verga che si chiama appunto “Il Reverendo” nella quale si delinea questo personaggio spirituale, corrotto e materialista che non ha la minima coerenza con le vesti che porta.
Pensiamo che questa sia la situazione nella quale ci troviamo oggi. Un mondo fatto di santi e di diavoli, in cui i santi e diavoli banchettano insieme e si giocano a poker fino all’ultima indulgenza.
Il nome, quella giacca, l’immaginario è come se le avessimo piratescamente strappati di dosso alla carcassa di qualche blasonato santone.

Stupida osservazione da pignolo: sostenete di suonare “grunge italiano” (e in effetti torna) ma tra le vostre influenze leggo tutti i grandi nomi dell’alternative rock internazionale: Pearl Jam, Rem, Radiohead, Coldplay. Non pensate di dover pregare anche qualche santino italiano, tipo Marlene Kuntz, Afterhours e Verdena o addirittura qualche vecchio oracolo come The Beatles (io dentro i vostri pezzi li sento sempre ondeggiare in sottofondo)?
UUh assolutamente… Noi ci definiamo grunge rock per l’attitudine live e per il mood dei testi e delle atmosfere.. Poi in realtà musicalmente siamo un focolaio di ispirazioni, tutti quelli che hai citato… Beatles tutta la vita.. ma ti dirò.. anche Pink Floyd, Cure, Foo Fighters, Smashing Pumpkins, Blur, Who…
Non si può definire la matrice del nostro stile, Fabio (il batterista) per esempio ascolta tutt’altro.. Rock e crossover americano. La cosa curiosa è che non siamo dei grandi ascoltatori di musica alternative italiana.. Marlene, Afterhours, Verdena, li stimo moltissimo e ci sono delle canzoni che mi piacciono, ma ne conoscerò 6 o 7 tra tutti e tre.. Faccio un mea culpa, ma la verità è che non mi hanno mai attratto magneticamente.

In “Sempre di notte” dite una frase molto realista: “questa pioggia non è l’Inghilterra”. L’unità di misura per fare musica rock rimane sempre la Gran Bretagna, ma credete davvero che stiamo proprio un gradino sotto? A Torino poi mi pare che non ci sia carenza di band che (senza mezzi termini) spaccano il culo. Tu cosa dici?
Assolutamente! L’Italia ha dei grandissimi talenti e Torino è prima fila, anche se i Milanesi a volte sono più furbi.
Sempre di notte è una suggestione, un Flash back di emozioni provate durante le mie esperienze Londinesi, con riferimenti molto concreti a fatti accaduti.
“Questa pioggia non è l’Inghilterra” è un modo per dire l’acqua è sempre acqua ma non puzza di zolfo come a Londra.. Odori, emozioni, sprazzi di colore, nubi fumose, vestiti umidi, contrasti di grigio, l’inghilterra ha delle caratteristiche rispetto all’Italia nelle quali mi riconosco, in ogni caso sono ancora qui.. Nonostante le ultime evoluzioni politiche credo in questa nazione e soprattutto credo nella musica di questa nazione.

Come vi ponete nei confronti dei social network? Oggi pare siano di una importanza fondamentale per emergere, ma non bisogna perdere di vista il vero cuore della musica underground, ovvero il palco. Che obiettivi avete sul fronte live?
Ah beh.. Certo! Con i social networks ci poniamo come qualcuno che cerca di usare gli strumenti che ha per fare quello che può..
Sicuramente il web è una grande risorsa, ma è dispersivo, in continua evoluzione e tutt’altro che immediato nel suo utilizzo corretto.
Cerchiamo di valorizzare i contenuti che proponiamo creandoci una fan base vera e interessata che speriamo cresca in funzione della nostra crescita.. Siamo al primo EP e la nostra musica è proprio neonata, quello che abbiamo fatto in questo EP è stato vomitare argomenti e musica così come ci sono venuti. Ci sono già idee per il primo album che sono curioso di vedere che forma prenderà..
Live siamo in attesa di alcune conferme, soprattutto fuori Torino, nella nostra città invece faremo una piccola cosa a fine marzo e poi un concerto con gli amici del collettivo OPPOSITE il 26 aprile  al Lapsus.
Nel frattempo CONTINUEREMO A SUONARE ANCHE COVER, in giro per l’universo mondo perché ci diverte, ci fa fare palco e vita di gruppo ispirandoci sempre qualcosa di nuovo.

Daniele, un bel saluto ai lettori di Rockambula e dicci un po’ cosa vorresti di “meno” e cosa di “più” nel vostro futuro.
Cari lettori di Rockambula un giorno faremo una rivoluzione insieme, vi saluto e vi stimo perché vi incuriosite di musica e di persone. Vi ricordo di andare ad ascoltare i Waste Pipes, se non l’avete mai fatto perché spaccano e anche i Nadàr Solo.
Per il nostro futuro vorrei “meno” Maria De Filippie “più” Rockambula. La messa è finita, andate in pace.

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Intervista (video e non) ai De Rapage. Delirio Totale!

Written by Interviste

I nostri Silvio Don Pizzica (il cameraman) e Riccardo Merolli (l’intervistatore?!) sono andati a Chieti, nella sala prove dei De Rapage (https://www.rockambula.com/de-rapage-sberle/) per realizzare con loro una video intervista. Avrebbero potuto chiedere della loro musica demenziale, del nuovo disco in preparazione, delle loro influenze, dei loro live spettacolari ma se mettete insieme due pazzi come Riccardo e Don Pizzica con una band fuori di testa come i De Rapage, non poteva che succedere questo:

Qualche giorno dopo, Don Pizzica ha reincontrato i De Rapage e ci ha provato ancora. Secondo voi come è andata? Leggete voi stessi:

INTERVISTA AI DE RAPAGE (Francesco-voce, Pasquale-basso, Marco e Maurizio-chitarra)

Don
Ciao a tutti. Per prima cosa, come state? Vi siete ripresi dall’ultima volta che ci siamo incontrati?
M.Z.: perchè ci siamo incrociati? Oddio la testa….
F.: io ho avuto una leggera diarrea ma in fondo bene.
M.S.: mai più (naso di pinocchio)
F.: naso di Pinocchio?
M.S.: nel senso che mento.
M.Z.: vabbè francè..lassa sta! Mento o naso? deciditi cazzo!

Don
Diarrea anche io e un mal di testa da paura. Non vi chiedo perché il nome De Rapage (la risposta è nel video) ma chi cazzo sono i De Rapage potreste spiegarlo al pubblico.
M.Z.: i De Rapage sono un gruppo fregno!
F.: i De Rapage sono la summa dello scarto e del fai-da-te, che come obiettivo hanno quello di distrarre, offendere ed essere offesi.
M.S.: i De Rapage sono un gruppo musicale che hanno iniziato a suonare proprio per essere un gruppo musicale. all’inizio erano molto, molto diversi.
P.: secondo me è uno stato mentale che noi rappresentiamo in musica, una sgommata al posto del cervello, un modo di rendere un po più marrone il reale

Don
Perché avete scelto di fare musica ironica, a tratti demenziale e non provare a fare qualcosa di veramente nuovo?
F.: perché è uno sfogo, principalmente. Non si tratta di affrontare temi universali, ma di sviscerare tutto quello che hai di malato dentro, senza falsi pudori o inibizioni. E poi ce l’ha suggerito satana.
M.Z.: fare qualcosa di nuovo? tutti ci provano, a noi non interessa (forse non siamo capaci)
M.S.: qualcosa di nuovo? il qualcosa di nuovo che ho in mente io non si può suonare con strumenti musicali tradizionali. Si divertono tutti, ma il disco non è il medium primario per noi, noi siamo da concerto.

Don
Ho letto da qualche parte (inutile dirvi dove) che vi divertite più voi che non chi vi ascolta. Pensate sia vero? E pensate che manchi qualcosa alla vostra musica per colmare il divario?
F.: è vero. Noi siamo divertiti da noi stessi ma anche dalle reazioni degli altri: c’è chi si indigna ma anche chi ride a crepapelle. Nello scambio siamo noi i maggiori beneficiari e vogliamo resti così.
M.Z.: l’importante è che ci divertiamo noi, del pubblico non ce ne frega un cazzo! Alla nostra musica potrebbe mancare tutto o niente, ma ce l’ha detto satana di fare così!
P.: be i De Rapage che suonano tristi è cacofonico
M.S.: io mi divertivo da spettatore ai loro concerti, e dopo anni di corte mi hanno chiamato a suonare. dobbiamo essere spettatori di noi stessi sennò diventiamo autoreferenziali senza avere le capacità tecniche e l’ideologia per farlo.

Don
Schillaci, sempre ultimo.
M.S.: perché ci penso.

Don
In pratica non vi frega se chi vi ascolta dà poco peso alla musica pensando piuttosto a divertirsi sulla base dei vostri testi. Non avete paura di essere presi poco sul serio come musicisti?
M.Z.: bhe..come musicisti siamo i primi che ci pigliamo poco sul serio! (a parte Schillaci)
P.: pure io mi divertivo ai concerti dei De Rapage; Jo di Tonno è musica seria?
F.: infatti io urlo, non canto. È questo forse il segreto del nostro divertimento e della nostra visione poco competitiva della musica in genere.
M.S.: il problema di essere preso poco sul serio come musicista non mi affligge nel momento in cui cerco di fare risaltare ciò che suono, su disco e live. abbiamo dato spazio a parti musicali molto più che in passato, se senti gli ultimi due dischi. Infatti l’idea di suonare in situazioni di volumi e sonorità differenti mi attira. il 23 febbraio suoneremo diversamente dall’ultima volta per volumi dinamiche e cazzi vari.
P.: essere preso sul serio facendo rock scostumato è sintomatico di una società alla frutta
M.Z.: poi ai concerti più che suonare mi diverte insultare Schillaci!!! Ahaah.

Don
Ottime esecuzioni e buona musica. Eppure i dischi vi tocca regalarli ai concerti. Chi ve lo fa fare?
M.Z.: credi che qualcuno veramente comprerebbe i nostri cd? Allora noi li freghiamo e glieli regaliamo!
M.S.: li comprerebbero pure, ma poi saremmo alla stregua di altri gruppi tipo i pr°°lax.
P.: bella marco! la musica non ha prezzo stavamo pensando di vendere i dischi a 2500€ a copia o gratis..abbiamo scelto la seconda non siamo attaccati al denaro
F.: Perché la musica è condivisione. Non me ne frega un cazzo di prendere la 5 euro dallo spettatore del concerto. Quello che facciamo è per la gente e non per noi stessi. Ci stiamo promuovendo ed il modo migliore di farlo è spargere più seme possibile. Il giorno in cui pagheranno per un nostro disco diverrà un lavoro. E satana si incazzerebbe.

Don
Perchè ce l’hai coi Prophilax?
M.Z.: perchè lui non può usarli!
M.S.: non ce l’ho con loro. non siamo così, punto.
P.: conosco gente che si fa le seghe con i profilattici
M.Z.: non fate incazzare satana
M.S.: dopo veramente la valigetta con le parolacce.

Don
Dunque l’unica via d’uscita per le band emergenti sembra essere l’esibizione live. Ma anche in questo, avete scelto la strada più difficile. Non solo vivete in una regione (Abruzzo) che sembra aver dimenticato l’esistenza della musica (salvo rare eccezioni) ma, visto che nei vostri testi siete spesso diretti, volutamente volgari, vi tocca pure prendervi le porte in faccia dai centri sociali che vi accusano di maschilismo o dai locali che non vi ritengono adatti ad un certo tipo di pubblico. Non vi va proprio di scendere a compromessi?
M.Z.: ricordati di Satana! A noi piace fare questo e questo facciamo!
M.S.: dei centri sociali ho altri ricordi di altre epoche. questi sono cresciuti con internet, mi sucano il cazzo loro e le loro teorie di complotto.
F.: mai. Che gusto ci sarebbe altrimenti? A quel punto meglio fare la tribute Band!
P.: sono i radical chic che non volano più in alto del loro nanismo
M.Z.: per quanto riguarda i centri sociali, sono fascisti! Come possono accusarci di maschilismo se io e Ficurilli un concerto si e uno no ci baciamo in bocca?
F.: Io bacio chi mi pare, ma tu…
M.S.: per quanto riguarda i locali, noi il pubblico ce lo sappiamo gestire abbastanza. il problema sono i gestori, finchè non contano i soldi in cassa sono (giustamente) diffidenti. ma non infanghiamoci con il discorso delle merdose coverband e di come abbiano rovinato il suonare live.
P.: sto fatto che vi baciate mi fa ribrezzo

Don
Meglio non esprimermi. Abbassiamo un po’ i toni. Che cosa ascoltavate dieci anni fa e cosa ascoltate oggi? Quali artisti vi hanno maggiormente influenzato? Nella mia recensione ho accostato la vostra musica a Oneida, Rage Against The Machine e Beastie Boys, Nirvana, Litfiba, Radiohead, Exploited, Skiantos e addirittura Benigni. Ditemi pure che cazzata ho detto?
M.Z.: aggiungi pure i SexPistols e stiamo a posto!
F. : nessuna. Personalmente aggiungo Sex Pistols e Massive Attack
M.S.: io sono cresciuto con il rock classico, tipo quello inglese. nel disco ci sono un sacco di citazioni al limite della caricatura: tutto voluto, eh…

Don
Massive Attack? Non l’avrei detto.
M.Z.: bhe… ascolta SEGEDOUT del primo album!
F.: e certo. Se ascolti bene al contrario il nostro primo disco scoprirai che suona esattamente come Mezzanine
P.: penso che per fare musica così bisogna aver ascoltato molto, sinceramente alcune volte sembra che si sia veramente un po di tutto, a parte Nilla Pizzi e Tiziano Ferro
F.: che comunque ascoltiamo da soli in macchina.

Don
Vediamo se vi faccio incazzare. Questi continui passaggi da un genere all’altro non vi sembra possano impedirvi di dare un’impronta personale alla vostra musica? Forse c’è qualche citazione (voluta come dice Maurizio) di troppo? (parlo soprattutto a lui).
F.: è colpa di Maurizio
P.: si ostina a sentire i Litfiba, scusa Maurì ma Ghigo Renzulli fa cagare

Don:
Concordo. Su Renzulli.
M.Z.: infatti….è un casso con la chitarra!
F.: il peggiore
M.S.: le citazioni possono scomparire, non è un fatto involontario. ci penso spesso quando un brano sa già di già sentito.
F.: Maurizio è comunque meglio di Renzulli. Fisicamente

Don
Prendiamo Nkul Frekt Aua (l’ho scritto bene?). C’è tanto Creep dentro. Forse troppo?
F.: è veramente colpa di Maurizio e dei suoi arpeggi gay, ma ci piaceva così e chi se ne frega.
M.Z.: bhe, su Creep non sono d’accordo, ma l’idea era di fare qualcosa alla Radiohead
M.S.: non è che ci pensavamo più di tanto. gli accordi erano diversi all’inizio, ho modificato il sol e il la mettendoli in minore. c’è anche l’accordo indie per eccellenza, il do 7+!
P.: a parte gli scherzi nell’ultimo live, con il nuovo set, abbiamo migliorato di molto questo aspetto l’approccio ora è più denso e uniforme
F.: Pasqua ma a che domanda hai risposto?
M.Z.: Pasquale sta a fumà robba pesante!!
P.: ahh me che ci stanno le domande!?
M.S.: ngulo freket è stato scritto dal pubblico della lampara che assisteva ad un concerto indie di un gruppo indie. Erano tutti come nella canzone.
P.: sgamato

Don
Andiamo avanti e parliamo della situazione Live della penisola. Parlando con un ex musicista ora membro di una cover band (non tribute ma pur sempre parte del Male) mi ha detto che le difficoltà ad emergere delle nuove realtà è soprattutto conseguenza dei gestori dei locali e del pubblico, poco avvezzo alle cose nuove. Chi ama suonare, vuole suonare e per farlo, in alcune piccole cittadine, può solo fare cover. Peggio i gestori che della musica non gli frega un cazzo ma le tasse le pagano, peggio il pubblico, che della musica non gli frega un cazzo ma ha sgobbato una settimana e un rum lo paga 5 euro o peggio i musicisti che si riducono a fare cover ma della musica gli frega eccome ma non vogliono continuare a suonare in uno scantinato?
M.Z.: per me il problema è sopratutto dei gestori. Io credo che si può creare un bel giro di gruppi originali e comunque riuscire a lavorare. E’ una questione culturale. Se crei un bel giro la gente ti ci viene al locale. d’altronde negli ani novanta c’erano molte band originali e non mi pare che i localli chiudessero tutti. Naturalmente ci vuole anche un minimo di selezione! Anche perchè scusate, noi alla fine siamo anche un piccolo esempio, i locali li riempiamo più delle cover band!
P.: questa si che è una domanda…la risposta è difficile, è tutta una questione di background culturale…siamo in italia e qui il pdl ha governato per 20 anni e rischiamo che piglia più del 16% a febbraio. Vabbè l’ho buttata sul pesante però c’è gente li fuori con le hogan
F.: se al musicista gliene frega di suonare le situazioni le può anche creare, è inutile mordersi la coda, i problemi sono quelli che hai appena citato ed è innegabile che le cose, per ora, non cambino. Ma se non le cambia chi la musica la fa allora cosa dovremmo fare? Aspettare in silenzio l’apocalisse? Se ci fosse una rete di musicisti vera o una struttura che li collegasse si potrebbero scambiare, oltre alle idee ed si musicisti anche locali e pubblico, ad esempio, i cercare spazi adatti al live che non siano locali. O crearli. All’inizio, inoltre, noi non chiedevamo una lira per suonare: la voglia è quella che conta! Così ci di diverte.
M.S.: hai presente la depressione quando da una persona passa ad un’altra, poi un’altra, poi un’altra come una pianta infestante e rovina una famiglia intera? è così, non è peggio nessuno, siamo tutti peggio. così la penso io. dove c’è gente sana, anche in piccolo circuito di una piccola comunità, trovi ancora creatività, fantasia e senso degli… affari (brutta parola!)

Don
Non deprimiamoci pensando troppo a questo paese del cazzo e alla sua gente del cazzo. Parliamo del vostro ultimo disco. Sberle. Che roba è? Fatelo capire a chi non ha idea di che musica facciate.
F.: io neppure l’ho capito, non ancora.
P.: è un disco tipo calendario francescano
M.Z.: Sberle è un capolavoro!
P.: aiuta il raccolto, è un rito propiziatorio alla inseminazione naturale
F.: ma nessuno risponde seriamente? Dai Mauri!
M.S.: “quello che cazzo ci pare”, perchè andava detto. non lo dice nessuno, sono tutti a spompinare il pubblico. siamo partiti dai titoli e poi abbiamo costruito i pezzi sopra, abbiamo applicato in musica la cementificazione selvaggia. ad esempio “sberle” è uscito fuori perchè da una ripresa audio delle prove fatta con uno smartphone il suono del ride della batteria sembravano schiaffi dati belli forte.
M.S.: ecco, ho scritto una risposta mega sgrammaticata…
F.: bravo cazzo

Don
Mi rivolgo a chi legge. Difficile parlare serio con i De Rapage. Forse solo con Schillaci. Ascoltatevi il loro pezzo sotto se volete capire di che parliamo. A proposito,ora mi rivolgo a voi quattro. Come è nato quel pezzo, Inquilino Sexy?

https://soundcloud.com/derapageband/10-inquilino-sexy
F.: da un volantino!
 Don
Cioè?
P.: la storia del pelo di cazzo io la so

Don
Spara.
M.S.: c’era un flyer nella pizzeria vicino alla sala prove in cui si pubblicizzava un tipo del grande fratello che faceva una ospitata in una discoteca:”L’inquilino sexy della casa del grande fratello”. La storia del pelo di cazzo è mia. ho immaginato di trovare un pelo di cazzo altrui nel letto della mia ex, magri c’era davvero. “Magari”
P.: la prima strofa parla di un tipo che mendicando un letto si è fatto ospitare dalla ex, durante la notte ha trovato un pelo di cazzo sul cuscino.

Don
In pratica è “tratto da una storia vera”. Immagino la scena.
P.: aaa eri tu? Scusa Mauri
F.: Ahahahah
P.: tutti i pezzi sono storie vere
F.: tranne tarzanello
M.S.: cioè, dopo mesi che non ci dormivo in quel letto poteva essere accaduto qualcosa che non mi coinvolgesse. in realtà la storia diventa gay, oppure l’io narrante è femminile, ma questo la sa francesco.
P.:  faccio una domanda io: Francesco parlaci di Megawatt
F.: è femminile, certo. Perché?

Don
Oh mio Dio. Lasciamo perdere. Abbiamo capito che la dimensione live è quella nella quale vi sentite più a vostro agio. Grazie ad un pubblico di fedelissimi che vi segue ovunque, intavolate uno spettacolo fantastico. Il vostro live non è solo esecuzione ma puro teatro partecipato col pubblico. “Fikurilli sei una merda”, “tua sorella è una troia”, una sfida all’offesa più originale con chi vi ascolta. Ma se doveste suonare dove nessuno vi conosce? Nessuno!
M.Z.: sarebbe bello! Il pubblico capirebbe subito!
P.: pagheremmo qualcuno per la clack, sicuramente, 200 € di buono e sano investimento
M.S.: avremmo bisogno di più tempo per entrare in confidenza col pubblico. siamo capaci di fare più di due ore di concerto filate, mica come quei poveri scheletri chitarra e barba tipo Dente.
F.: Stai sicuro che sapremmo comunque come farci offendere di brutto. Inoltre il nostro pubblico cresce ad ogni concerto e gli sconosciuti che ci offendono si moltiplicano di volta in volta. Alcuni sono degli acrobati della parolaccia, insospettabili per giunta! Maurizio stai infangando questo mondo e quel l’altro, sei un hooligan!
M.Z.: maurì pure tu sei uno scheletro chiatarra e barba
P.: montgomery
M.S.: ma siamo anche musicisti, non mortifichiamoci da soli con la storia dei testi. Se suoniamo bene attiriamo l’attenzione a prescindere dai cazzi e dai culi.
F.: che c’entra? Tu sei davvero il cognato del diavolo

Don
Appunto…vedi domanda numero tre.
Un giorno si potrà tornare a vivere della propria arte? Oggi il conto in banca sembra inversamente proporzionale alla qualità proposta.
M.Z.: solo se usciamo dall’euro! ahahahahhaha
M.S.: ottima domanda, io la girerei ad Umberto Palazzo. mi scriveva che quasi tutti i musicisti in italia sono poveri. effettivamente fai, mettiamo, 100 serate all’anno, ma se non arrivi a fare tipo 1500 euro al mese ddò cazzo vai? la gente lascia, smette… orrore.
F.: altrove è possibile, anche per quelli che non propriamente c’è la fanno, ma la deriva culturale, perché di questo si tratta fondamentalmente, coinvolgerà tutti. E noi potremo dire “te l’avevo detto”. Speriamo che aprano una banca gestita da solo artisti. Forse allora…
M.S.: ma TUTTI i musicisti,anche gli orchestrali!

Don
Tutti gli artisti, non tutti i musicisti.
F.: mauri concentrati

Don
Siamo in dirittura d’arrivo. Quale è il vostro sogno di musicisti e la vostra paura più grande?
P.: secondo me si e pure molto presto, è rimasto troppo poco in giro e tutto stramaledettamente appiattito e simile per il semplice fatto che non può tornare un neomedioevo
M.Z.: il mio sogno e poter continuare a suonare il più allungo possibile.
F.:  da musicista vorrei fare l’astronauta. La paura più grande è quella di dover rinunciare per andare altrove. Ma anche un po’ quella di rimanere incinta.
M.S.: vorrei definirmi artista senza paura di usare questo termine per non usare “disoccupato”. ci sono tre categorie di artisti.
P.: il mio sogno è diventare ambidestro e l’incubo è perdere la mano destra
M.Z.: la mia più grande paura è suonare per sempre con schillaci
M.S.: quelli veri veri veri, quelli definiti tali solo perchè hanno l’enpals e i nullafacenti che non sanno come altro definirsi.
F.: Mauri stai due domande indietro
M.S.: la mia più grande paura siete voi

Don
Ahahahahhaha. Una brutta domanda, alla quale praticamente non mi ha mai risposto nessuno. Chi è la grande truffa dell’Indie italiano? E perché?
F.: l’indie è una truffa, perché non esiste. Cosa significa ancora nel 2013 indie?
M.S.: guarda, Rockit promuove certi campioni da sette spettatori a concerto… “il rock è cazzo, e il tuo è morto” (The Doors, il film)
M.Z.: continua la crociata di Schillaci contro Rockit
F.: Maurizio sei il peggio
M.S.: la truffa è il pubblico. non ne capiscono un cazzo di musica.
M.Z.: quindi quando sei tu pubblico, sei tu a non capire un cazzo! Maurì, smittil a di cazzate!

Don
Giusto. Comunque, niente nomi. Come preferite.
P.: per me indie è una modalità alla musica, la truffa è attribuirgli un genere musicale specifico

Don
Invece c’è qualcuno che vi assomiglia? E qualche nome nuovo che pensate abbia tanto da dire? Sia italiano che straniero, ovviamente.
P.: i Bachi da Pietra
M.Z.: I Managment del Dolore Post Operatorio (solo perchè so abbruzzesi!!!)
M.S.: Pilar, MA.DE DO.P.O., Maria Antonietta, Paolo Benvegnù, e altri…

Don
Nessuno che vi somiglia però…
M.Z.: siamo unici!
P.: pensando a qualcuno che ci somiglia mi sta a venire l’emicrania, comunque inglesi gli Holyfuck ce garbano..ma io aspetto la risposta di Francesco
M.S.: ce ne sarebbe qualcuno ma è davvero borderline e il nome non ti direbbe nulla. il vincitore della coppa Rimetti del 2012, ad esempio, Francesco Niente.
F.: gli squallor. Escludendo che sono quasi tutti morti rappresentano indubbiamente il futuro. In questo momento sto seguendo molto anche gli Indian Jewelry, ma io non capisco un cazzo.
P.: Holyfuck so canadesi cafò…
F.: ah e aggiungo pure, dall’Italia, Gianfranco Marziano, nostro precursore sconosciuto a noi fino a qualche anno fa.
P.: lo sapevo che sbancavi bella Frangè
M.S.: ah, i Progetto Panico, grandissimi!

Don
Nomi non molto noti. Difficile diventarlo quando si fa musica come la vostra. Siamo in chiusura. Dove potremo ascoltarvi nei prossimi mesi, dal vivo?
F.: meno male. Avremo meno concorrenza.
M.S.: il 23 febbraio al Fictio di Chieti
P.: il 6 marzo a Berlino, in piazza vicino al bar che vende le birre alla spina
F.: il 23 febbraio al Fictio, a Chieti, dove giochiamo in casa e il 30 febbraio al macellaio di via cazzimma, a Caserta.

Don
E il prossimo album. Quando dovrebbe uscire? Che differenza ci sarà con “Sberle” ?
M.Z.: top secret
F.: il prossimo album sarà un ep in cui raccoglieremo delle cose che suoniamo in questo periodo è che ci piacciono in modo particolare. Ma prima ci sarà un DVD con il documentario sulle nostre origini e sulla nostra fine.
P.: forse qualche anticipazione potremmo farla..dai parlate. Ieri abbiamo finito le riprese..hehehe, manca il montaggio robba grossa.
F.: firmato dal nostro videomaker preferito Startakko.

Don
Ditemi quello che avrei dovuto chiedervi e non vi ho chiesto? Poi, se volete, rispondetemi.
F.: oggi hai fatto la cacca? – si, ma sono stato così tanto a leggere sulla tazza che mi si sono paralizzate le gambe e, quando mi sono alzato per aprire la porta di casa da dove qualcuno suonava insistentemente, sono caduto. Ho strisciato fino alla porta, erano dei testimoni di Geova, vi lascio immaginare il seguito.
M.S.: ci sto pensando ma mi vengono in mente domande assurde del tipo “perchè dovreste essere dei ventenni e invece ne avete più di 35?”
M.Z.: Maurì tu ne hai più di 40

Don
Ahahahah
P.: tipo jimmy dovè?
M.S.: più di 35, infatti. vado per i 43 e sto in giro con una fender a fare casino anziché stare in pantofole a subirmi le scoregge dei bambini e le ascelle di mia moglie.
P.: jimmy scopa … noi stiamo qui a sparare le cazzate
M.S.: onesto
P.: hahhahaha un frame del DVD!

Don
Non vi chiedo chi è Jimmy. Ciao a tutti, allora. A presto.
F.: a presto, cazzo!
M.Z.: buonanotte
M.S.: a presto , e grazie

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Oslo Tapes – intervista a pesci con testa di cane

Written by Interviste

Oslo Tapes (un cuore in pasto a pesci con teste di cane) è il progetto di Marco Campitelli dei Marigold prodotto e suonato (anche) da Amaury Cambuzat. Il 12 Marzo l’uscita ufficiale del disco. Cerchiamo di capirne qualcosa in anteprima, tra il cinema di Tarkovsky e le prestigiose collaborazioni della musica italiana presenti nel disco.

La musica di Oslo Tapes sembra essere perfetta per una colonna sonora, una musica che vuole essere vissuta, sbaglio?
Penso di sì, un pò in tutto quello che compongo si possono ritrovare delle “visioni”,  alcune personali, altre volte influenzate dal cinema (il cinema di Tarkovsky per quanto riguarda il disco degli Oslo Tapes)

Cosa spinge Marco Campitelli a creare questo progetto?
E’ da molto tempo che nel mio” studio” orbitano delle idee, pensieri e brani che non sempre trovavano collocazione adatta nei Marigold. Da qualche anno ho deciso di  dedicarmi in modo più sistematico alla cosa iniziando a “scomporre ” brani e organizzare le parole intorno ad essi.

Amaury Cambuzat suona e produce il disco, cerca di spiegare l’importanza di questo personaggio all’interno del disco?
Amaury da molti anni a questa parte ha sempre sostenuto le mie idee producendo i dischi dei Marigold…e mai come questa volta si è rivelata la persona più indicata per dirigere il lavoro nel suo complesso. La maggior parte del disco è stato registrato e composto da me e da lui in circa 4 giorni, solo con lui sarei riuscito a far tutto in modo così diretto. Amaury oltre ad essere un grande musicista è un bravissimo arrangiatore…e sa aiutarti a farti diventare un “vettore”, un mezzo per cui far passare la musica.

Musicisti eccellenti nelle collaborazioni, ne vogliamo parlare?
Volevo realizzare/arrangiare dei brani con persone che stimo stilisticamente e con il quale sto bene sul piano umano. Sono davvero molti quelli hanno contribuito alla riuscita del disco e tutti sono degni di nota. A partire dagli amici ed ottimi musicisti Valerio Anichini, Mauro Spada e Luca Di Bucchianico, Wassilij Kropotkin (La duma e King of the Opera) e Andrea Angelucci (Zenerswoon) con la loro versatilità e capacità compositiva, la precisione e la cura di Stefano Venturini e Alessia Castellano (Werner), Irene Antonelli  e Ferruccio Persichini (TV Lumieré) con i quali condivido un certo immaginario e scelte musicali, Gioele Valenti (Herself) fraterno amico e grande musicista che mi offre spesso utili consigli e intuizioni e infine Nicola Manzan (Bologna Violenta) musicista e arrangiatore di altissimo livello. Il tutto amalgamato e supervisionato dall’immancabile Amaury Cambuzat. Come sempre poi l’artwork del disco è sempre curato da Kain Malcovich, disegnatore e scrittore che ruota intorno al mondo della DeAmbula Rec.

Oslo Tapes ( un cuore in pasto a pesci con teste di cane )  titolo molto teatrale ad effetto, perché?
Il titolo dell’album è uscito fuori all’ultimo momento, doveva essere un omonimo, ma come ci insegna il buon Gioele Valenti, è l’ album a “reclamare” il suo titolo, OT ha reclamato il suo sottotitolo poco prima di andare in stampa. Si stratta degli ultimi versi cantati nel disco “un cuore in pasto a pesci con teste di cane” (in Crecefissione Privée) più che teatrale è un riferimento alle “visioni” che ho citato prima.

Un disco molto compatto ed emotivo, la gente apprezzerà? O pubblico di nicchia?
Mi suggerisci la risposta: per un pubblico emotivo, ma sicuramente appassionato di sonorità sperimentali.

Dopo l’uscita si parte per il tour promozionale del disco, novità nell’esecuzione live, tappe del tour, insomma, anticipaci qualcosa?
Il tour verrà realizzato in solo, ma non in veste “soft-cantautorale” i brani verranno suonati con un carattere molto sperimentale, mi alternerò fra chitarre, synth, loop a bassa definizione e qualche tamburo. In alcune tappe mi accompagneranno Ferruccio e Irene dei TV Lumiére, o Francesco e Andrea. Non mancheranno qualche incursione di Cambuzat e Manzan.

Il disco sarà distribuito soltanto in Italia? Sotto quali etichette/distribuzioni?
Il disco è stato prodotto da diverse label tra cui la mia DeAmbula Records, la Acid Cobra Records di Amaury Cambuzat che curerà la distribuzione francese, la Dischi Bervisti di Nicola (Manzan) e Nunzia, Atelier Sonique del caro amico Bonfo, gli instancabili ragazzi di Dreaming Gorilla Records e Overdrive Records. La distribuzione in Italia sarà curata da Audioglobe che si è interessata al progetto con entusiasmo.

Ho avuto la fortuna di ascoltare il disco in anteprima e i miei giudizi non possono che essere molto positivi, vuoi parlarci del disco menzionando qualcosa a cui tieni?
Sono felice che ti piaccia

Grazie Marco, in bocca al lupo!
Grazie a te Riccardo per la cortesia e l’attenzione che rivolgi alle nostre produzioni.

 

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Intervista Mombu

Written by Interviste

I Mombu tornano a farsi sentire, ormai sono una realtà concreta e vogliono dimostrare quanto fanno sul serio, tanto da rivedere il loro debut album e riproporlo con dei miglioramenti. I segreti e l’ andazzo della band sono svelati in questa ghiotta e gustosissima intervista. Ai microfoni abbiamo Luca T. Mai  che tra una chiacchiera e l’ altra ci toglie diversi dubbi.

Ciao ragazzi e bentornati su Rockambula. Direi di cominciar subito a parlare di “Zombi”, il vostro nuovo disco, che effettivamente è un miglioramento, una modifica del vostro debut album. Perché non ci illustrate le differenze tra i due lavori?
LUCA: Ciao e grazie per ospitarci di nuovo . Mombu , il disco omonimo, è nato in corsa, parlo delle registrazioni e quindi non siamo riusciti a ricreare il suono che volevamo e poi mettici pure che lo abbiamo prima pubblicato e poi suonato live, di solito, con i rispettivi gruppi ( Zu e Neo ) abbiamo sempre fatto il contrario. ‘Zombi’ è nato dopo praticamente quasi un anno di continui live dove il suono generale della band si è rafforzato e di conseguenza abbiamo capito come doveva suonare il disco. Solo che un remix non bastava secondo noi, e cosi abbiamo chiesto ad alcuni amici di partecipare sui brani e con questa occasione di una nuova uscita, abbiamo deciso di mettere una bonus track, nello specifico ‘Zombie’ di FelaKuti, che è diventata ‘Zombi’ dei Mombu con ospiti Giulio The Bastard dei CrippleBastards, Marco “Cinghio “ Mastrobuono, chitarra dei Buffalo Grillz, basso dei Hour of Penance e dei The Orange Man Theory, MbarNdiayeGriot senegalese alle percussioni . Il disco suona decisamente più duro ed è quello che volevamo .

Invece delle registrazioni e del mixaggio cosa ci dite ?
LUCA: Come ti dicevo la fretta ha un po inficiato il risultato generale del primo disco, diciamo che ‘Zombi’ è anche il risultato di un anno e mezzo di lavoro in cui ci si sono chiarite un sacco di idee a livello sonoro cosi che le abbiamo integrate .

Nella prima intervista mi accennaste di una vostra ammirazione per FelaKuti, finalmente in questo disco siete riusciti a rendergli omaggio. Cosa vi trasmette questo personaggio, come mai FelaKuti?
LUCA: FelaKuti non è stato solo un musicista , è stato anche un attivista per i diritti di tutti gli africani sotto il giogo del colonialismo , sia quando era esercitato in maniera diretta sia in maniera  indiretta , cioè sotto quella forma più subdola che è la forma mentis , ragionare , vivere e credere come vuole il colonialismo . Ha riscoperto le sue radici religiose , ritualizzandole nella musica che componeva . Ammiro profondamente quest’uomo , che ha unito nella musica tutto ciò in cui credeva e ne ha pagato le conseguenze a tutti i livelli . Viveva tra i poveri a Lagos , ha rifiutato contratti milionari perché seguiva una sua coerenza , picchiato selvaggiamente ha passato svariati anni in prigione per le sue idee. Credo che ‘Zombi’ non sarà l’unico pezzo che faremo di FelaKuti.

A questo punto, dato che siete impegnati anche con altre band, vi chiedo: i Mombu sono un progetto momentaneo o hanno un seguito saldo e programmato? Insomma continueranno ad esserci i Mombu?
LUCA: Attualmente come Zu siamo fermi. Antonio continua con i Neo, ma diciamo che Mombu è la priorità del momento. A febbraio 2013 uscirà il nostro nuovo disco, sempre su ‘Subsound’ che si chiama ‘Niger’, questo a dimostrazione che siamo una realtà stabile del panorama musicale italiano e che sta sondando il terreno europeo. Il nostro discorso musicale è appena agli inizi e necessita di un bel po’ di tempo per dispiegarsi completamente.

In “Zombi” troviamo anche ospiti di un certo rilievo: in primis Mike Watt degli storici Stooges, poi Giulio “The Bastard” ed infine Marco Mastrobuono. Come sono nate queste collaborazioni e soprattutto come avete pescato Mike Watt?
LUCA: Le collaborazioni nascono principalmente dal rispetto come musicisti che abbiamo ognuno nei confronti dell’altro. C’è anche l’amicizia che non fa altro che consolidare la prima cosa . Con Mike ci conosciamo perché  nell’occasione di un tour Zu e un tour Neo negli Stati Uniti ci ha dato una mano e supportato. Mike è un’altra persona di cui proviamo rispetto per la sua storia musicale e la coerenza dimostrata negli anni.

Con tutti i vostri progetti ed i vostri impegni artistici riuscite a campare di sola musica o anche voi avete lavoro?
LUCA: Si, hai detto bene, campare, campiamo con la musica, dignitosamente. Se si annullasse la forbice che vede da una parte un ruba canzoni come Zucchero (e come lui tanti altri) che prende uno sproposito immorale di soldi per quelle farse dei suoi concerti e dall’altra gruppi che si fanno 500 km per una pizza fredda e rimborso spese, allora ci sarebbe posto per tutti e vivremmo meglio, ma purtroppo non stando così le cose, a qualcuno tocca fare il lavoro sporco …

Dove potremmo venire a sentirvi nei prossimi giorni, dove suonerete? E’ prevista una data a Napoli?
LUCA: Suoneremo in Campania alla fine di aprile tra Caserta e Salerno, ma Napoli ancora niente. Vedremo per l’estate se ci saranno delle buone proposte.

Della scena Underground della vostra zona cosa ci dite? C’è affluenza oppure anche li si sopravvive?
LUCA: È difficile da un po tutte le parti , ma credo che andrebbero ricercate le cause di questo momento di “stanca” dei live. Sono vari i fattori, dal proliferare di tanti gruppi senza qualità, l’essere omologati alle mode che vengono da oltre oceano e non cercare una via propria . questo riguarda sia i gruppi che i magazine e le agenzie di booking. Poi mettici pure che un certo tipo di musica campa sulle proprie spalle senza che si sia mai pensato di farci se non cultura almeno un business da parte di chi può investire. E questo alla fine incide sulle varie scene musicali, specie in questo periodo storico dove tutti sono costretti a risparmiare su tutto. Molti posti fanno i live programmando sia subito dopo il concerto, sia nella settimana successiva la discoteca sapendo che con i live non ci rientreranno delle spese, e questo va a minare i cachet, già risicati di piccole band.

Bene ragazzi, l’ intervista si chiude qui, concludete come vi pare…
LUCA: Mombu si rinnoverà nel 2013 con l’uscita di ‘Niger’, il nuovo devastante disco edito da SubsoundRecords. Se pensate che la musica non siano solo i Pooh, Amici, X Factor, se credete che la musica non sia fatta solo da posers come i Modà, Marrakesh e i Negroamaro, questo disco fa per le vostre orecchie, per il vostro corpo e il vostro spirito. Consigliato da ascoltare prima di andare a messa. Grazie Rockambula.

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NADAR SOLO

Written by Interviste

E’ una delle poche volte in cui avverto un’attesa, tensione positiva. Una fionda tirata quasi a strappare l’elastico. Pronta a lanciare un sassolino intento a crepare la dura corazza di indifferenza verso la musica che nasce dalle cantine piemontesi. E che troppo spesso nelle cantine ci rimane.
I Nadar Solo sono attivi dal 2005 nel nome del rock italiano dritto e vero. E ora sono ben pronti a presentarci il loro nuovo album: “Diversamente come?” (Massive Arts, nei negozi dal 29 Gennaio). Da qualche giorno gira in rete il video de “Il vento”, brano che anticipa il disco e (giusto per aprire un po’ di più la crepa) si avvale della partecipazione de Il Teatro degli Orrori al completo.
Ma quali crepe allora! Tocchiamo ferro, ma qui ci sono tutti i presupposti per spaccare a colpo sicuro la corazza. Rockambula incontra Matteo De Simone, voce e basso della band.

Intitolate il disco con una domanda spiazzante. Ma che cos’è secondo voi “il diverso” al giorno d’oggi?
Matteo: Il diverso è sempre stato ed è ancora tutto quello che ci fa paura. Assume un colore negativo quando lo viviamo come una minaccia ai capisaldi della nostra sicurezza, perché contiene in sé la possibilità del cambiamento. Ma la possibilità di un cambiamento può significare anche speranza nel momento in cui il nostro presente sia tutt’altro che sicuro e confortevole, come in questi anni difficili. Il grande Monicelli disse “La speranza è una trappola” e questo è vero su un piano politico, ma sul piano individuale la speranza è il motore dell’evoluzione personale, il presupposto per un’esistenza progettuale e soddisfacente. Il problema oggi è ritrovare la fiducia nella possibilità di un cambiamento, perché la trappola in cui siamo invischiati non è la speranza, ma la sua morte: l’apatia, la rassegnazione. La domanda del titolo è la domanda di chi non sa che pesci pigliare.

Nel disco precedente “Un piano per fuggire” (Massive Arts, 2010) dominava il desiderio frenetico di scappare, di voltare pagina, di rifugiarsi nell’isola che non c’è. Ora invece sembra che vi siate fermati ad affrontare la cruda realtà. La guardate in faccia e non è per nulla divertente. Fuggire rimane un’alternativa valida o è pura illusione? Come sono cambiati i Nadar Solo in questi tre anni?
M: Quel sentimento sopravvive. In “Le case senza le porte” diciamo: “Perciò tu che non hai gradito quando ti ho detto ‘ora devo partire’, sappi che io ti ho molto capito, mentre tu devi ancora guarire.” La fuga che avevamo e abbiamo in mente è del tutto simbolica e significa che bisogna cercare di vivere mettendo a fuoco quel che davvero conta per un essere umano e per la sua realizzazione interiore. In fondo decidere di fare i musicisti e ancor di più in questo Paese e in questo momento storico è il nostro piano per fuggire e quello di molti altri. Probabilmente tre anni fa eravamo un po’ meno maturi e così ci siamo concentrati sulla fuga. Questa volta ci siamo messi a studiare per prima cosa il carcere che ci rinchiude, che forse è il punto di partenza migliore perché un’evasione vada a buon fine.

Nonostante i testi riflettano spesso frustrazione e rabbia, la vostra musica rimane calda, rossa, propositiva. Quanta speranza c’è nelle vostre canzoni?
M: Tanta. Ed è tutta nella musica.

Il vostro nome è preso da un film argentino semisconosciuto che racconta la storia di un adolescente che cerca suo fratello. Cosa vi ha portato ad usare questo nome? E qual’è il filo logico che connette la pellicola alla vostra musica?
M: Ci piacque il film, che parla della solitudine dell’adolescenza con grande autenticità, e il suono del nome. E poi proprio in quel periodo ci apprestavamo a registrare il nostro primissimo album/demo completamente autoprodotto. Facevamo tutto da soli, così come abbiamo continuato a fare per un bel po’ e l’idea di chiamarci “Nuotare da solo” ci sembrava azzeccata.

Il vostro sound a mio avviso è un ricco e personalissimo mix tra: il pop dei Coldplay, l’hard rock dei Led Zeppelin, lo zoccolo duro degli Afterhours, filastrocche punk e le migliori melodie della canzone italiana. Cosa vi appartiene di più? Quando da ragazzini avete iniziato a suonare cosa vi immaginavate di diventare?
M: Penso che non ci immaginassimo granché. Eravamo influenzabilissimi, le mode del momento ci passavano accanto e ci seducevano e da tutte quante prendevamo quasi senza rendercene conto. Ci è voluto un bel po’ di tempo per sviluppare una poetica personale che è naturalmente un mix di tutti i nostri ascolti passato nel filtro delle persone che siamo diventate. Tutte le band che hai citato fanno parte dei nostri ascolti e tutte ci appartengono più o meno allo stesso modo (i Coldpay forse un po’ meno…).

Impossibile evitare questa domanda. Io non sono assolutamente un estimatore de Il Teatro Degli Orrori, ma la presenza di Capovilla e della sua band nel vostro brano “Il vento” aggiunge colore (molto scuro) al pezzo. Raccontaci un po’ come vi siete conosciuti e come è nata la collaborazione.
M: Ho scritto per la prima volta a Capovilla nella primavera del 2011. Stava per uscire il mio secondo romanzo, “Denti guasti” e gli dissi che mi sarebbe piaciuto avere una sua prefazione. Lo lesse molto in fretta durante il tour coi One Dimensional Man e nel giro di una settimana mi mandò lo scritto. Poi abbiamo organizzato un reading improvvisato durante Il Traffic Festival di quell’anno, poche ore prima della sua esibizione con Il Teatro degli Orrori. Ci siamo divertiti e all’inizio del 2012 si è presentata l’occasione di mettere in piedi un vero e proprio tour di letture. Abbiamo passato una settimana insieme giorno e notte, tra prove e viaggi da una città all’altra e a quel punto, quando di lì a poco con i Nadàr Solo abbiamo cominciato la preproduzione dell’album, è venuto naturale chiedergli di cantare con noi una parte di un brano. Quello che non ci aspettavamo è che lui ci chiedesse di poter partecipare anche come autore e soprattutto di poter coinvolgere anche Giulio, Gionata e Franz. Ha reagito con un entusiasmo sorprendente.

Rimanendo in tema, il tuo romanzo “Denti Guasti” (Hacca, 2011) narra le vicende di due giovani immigrati e pare essere stato fonte di ispirazione per la stesura dei testi dell’ultimo album de Il Teatro degli Orrori “Il mondo nuovo”. Quanto questo romanzo ha invece influenzato le tematiche del vostro nuovo album?
M: Capovilla ha letto “Denti guasti” proprio mentre – io non potevo saperlo – stava concependo con Giulio e gli altri un concept album sull’immigrazione. E’ naturale quindi che il libro gli abbia raccontato qualcosa, perché trattava proprio degli argomenti che gli stavano a cuore in quel momento. Per quanto riguarda il nostro disco, non c’è invece pressoché nessuna relazione con il romanzo. Anche se per quanto riguarda i testi scritti da me, l’approccio è simile: raccontare storie piccole, concrete, intime, perché l’emozione che ne scaturisce dipinga il sentimento, anche storico, di un’epoca. Questo è quel che cerco di fare. Una band che ascolto molto in questo periodo, il Management del dolore post Operatorio, dice che “La storia è la sommatoria di tutte le emozioni.” Lo credo anch’io.

Rimaniamo in tema collaborazioni e passiamo alla vostra esperienza con il concittadino Daniele Celona. Come ci si sente ad essere la band di un cantautore? Quanto vi sentite “Nadar Solo” in questa situazione?
M: Con Daniele facciamo tutto insieme da anni. Ci ha aiutato a preprodurre “Un piano per fuggire”, mi ha accompagnato nei reading di “Denti Guasti”, abbiamo visto nascere le sue canzoni e suonare con lui è assolutamente naturale. Per noi poi, a parte il fatto che a cantare non sono io, non cambia praticamente nulla: suoniamo esattamente nella stessa maniera.

Siete sotto Massive Arts, etichetta indipendente milanese. Quanto è importante al giorno d’oggi per una band come la vostra avere un’etichetta discografica?
M: Importante, ma non essenziale. Noi siamo fortunati perché la nostra etichetta produce alla vecchia maniera, finanziando il progetto dall’inizio alla fine. Ma la maggior parte delle etichette indipendenti oggi co-produce, il che significa che l’artista si paga il master di tasca propria. Ma se l’etichetta non si trova e dopo lo studio avanza qualche risparmio, il consiglio è di investirli in un buon ufficio stampa.

Torino è vivissima negli ultimi anni e sta sfornando realtà musicali sempre più concrete e personali. Quali sono le band della vostra città che supportate maggiormente?
M: A parte Daniele Celona, ci piacciono molto Bianco e Orlando Manfredi aka Duemanosinistra, che con il nuovo album farà sicuramente parlare di sé. Personalmente mi affascina anche il progetto Niagara di Davide Tomat e Gabriele Ottino.

E ora spara qualche anticipazione del tour. Dove vi porterà questo nuovo album?
M: Per cominciare faremo tre date di presentazione a Torino (Astoria, 27 febbraio) Milano (Cox18, 2 marzo) e Roma (Circolo degli Artisti, 6 marzo) e sarà con noi anche Pierpaolo Capovilla. Subito dopo partirà il tour vero e proprio.

Matteo un bel saluto ai lettori di Rockambula e buon rock’n’roll a te e ai ragazzi!
M: Buon rock ‘n roll a tutti, specialmente ai lettori di Rockambula!

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Grenouille – L’indie rock non esiste! –

Written by Interviste

I Grenouille sono una delle band più attuali del momento, tra fighetterie rock e cose del genere abbiamo scambiato qualche punto di vista con il frontman Marco Bugatti. Musica assaporata come del buon vino e il sistema indie italiano che non esiste. Ecco di cosa abbiamo parlato…

Ciao e ben trovati sulle pagine web di Rockambula, come stanno artisticamente (ma anche fisicamente) parlando i Grenouille?

Molto bene, grazie. La scelta di autogestire la realizzazione e la promozione del nostro progetto musicale si è dimostrata vincente. Abbiamo ricompattato la formazione attorno a Fabio, il nostro batterista storico e questa cosa ci ha dato una spinta dal punto di vista artistico. Fisicamente tutto ok.

Da poco tempo è uscito il vostro secondo disco Il Mondo Libero, è tempo di iniziare a tirare qualche somma oppure lasciamo passare altro tempo? Prime impressioni?

Possiamo già tirare qualche somma. Abbiamo voluto scrivere un disco vintage, vecchio stile, come i dischi degli anni 60 e penso che ce l’abbiamo fatta. Siamo soddisfatti del risultato e il disco sta piacendo moltissimo alla critica e al pubblico. Certo, non è un disco immediato, è un disco che va assaporato piano, e si impara ad apprezzare di piu’ dopo un po’ di tempo… Come il buon vino

Dalle critiche al disco emerge subito un suono molto più morbido rispetto al precedente disco, cambiamenti in corso nel sound dei Grenouille?

Sicurame in questo disco emerge anche un lato del nostro sound più morbido, più classic rock, a tratti cauntautorale. E’ una cosa stavamo cercando di fare da tempo, e siamo contenti di aver scritto pezzi come La Droga Più pesante, o come Solo per te Stesso. Tuttavia non abbiamo abbandonato il nostro lato hardcore e nel disco ci sono anche pezzi come D.S.M. o Reality Show o Sulla Linea di Confine che sono quelli che suoniamo più volentieri nei live elettrici. Questo continuo passare da un’atmosfera ad un’altra ti permette di vivere il disco come un viaggio, come la trama di un film, che si chiude con l’ultima traccia,  La Fine del Mondo, i titoli di coda.  Un film sulla nostra attuale realtà e sulle storie che stiamo vivendo. Quel sound rende il film interessante.

Il Mondo Libero possiamo considerarlo un disco della maturità? Dopo due dischi sarebbe strano sentirsi già maturi…

No, a mio parere, no. E’ stato un bellissimo esperimento, molto ben riuscito, realizzato in una situazione molto particolare. Penso che non abbiamo raggiunto ancora la sintesi del nostro suono e del nostro modo di scrivere. Ma non è importante soltanto la meta da raggiungere, ma anche la strada…

Lasciamo stare le recensioni, cosa vuole esprimere questo lavoro? Almeno cosa avete cercato di trasmettere?

Abbiamo cercato di dare uno spaccato di questi ultimi anni, dal nostro punto di vista. In questo disco ritorna molto il tema del controllo, ma anche della liberazione… Ci sono ritratti di persone con emotività al limite del patologico..c’è ironia, rabbia, emozionalità e speranza. Le cose che ci siamo visti succedere attorno ma anche dentro di noi.

Siete una delle band con maggiore potenziale attualmente, almeno secondo noi di Rockambula ma non solo, cosa dobbiamo aspettarci dai Grenouille?

Beh… attualmente stiamo lavorando a un decreto legge per cambiare il nome ai rimborsi elettorali e farli risultare come “Meritati Extra per gli Alcolici e la Marjuana”, tutto questo in previsione della nostra imminente salita in politica.

Nell’ attuale società dov’è rivolto il disgusto dei Grenouille? Musica, politica, attualità. Insomma cosa vi fa schifo?

Ci fa schifo chi, con malcelata arroganza e comportamento da setta, cerca di controllare le cose e di uccidere qualsiasi opportunità in questo paese. Dalle associazioni proto  religiose come Comunione e Liberazione, ai partiti truffa come il PDL ma anche ai nostalgici della Rivoluzione che rifiutano di accettare che il mondo è andato avanti e bisogna aggiornarsi. Vediamo tante persone addormentate e anestetizzate dalla televisione e dalla rappresentazione che i media fanno,di un mondo irreale, allo scopo di distrarre l’opinione pubblica. Vediamo a volte un calo di interesse verso le genuine forme di espressione e di rappresentazione artistiche territoriali, e questo ci dispiace molto. Noi pensiamo che “gli artisti usano le bugie per dire la verità mentre i politici per coprire la verità.”

Sistema cosiddetto indie italiano, voi come vedete questo fenomeno e da che parte state?

Stiamo fuori. Il sistema indie italiano non esiste. Non è un movimento artistico o musicale.

Il disco perfetto del passato a vostro gusto? Naturalmente roba italiana.

Questa domanda è sempre difficile… Se tu me la facesi una volta a settimana ti risponderei sempre diversamente a seconda del mio umore…

Oggi ti risponderei “Quello che non c’è” degli Afterhours.

Progetti futuri? Sorprese, novità?

In questi giorni stiamo arrangiando un pezzo nuovo che si intitola “Che lavoro fa Dyana?” e stiamo ricominciando a scrivere roba nuova…. Presto uscirà il video del La Droga Più Pesante, e naturalmente siamo in giro a suonare il nuovo disco. Cercateci su Facebook, oppure trovate i concerti su www.grenouille.it

Un saluto, questo è lo spazio per liberare quello che avete dentro.. Fatevi pubblicità…

Saremo a Monza, a Torino, Acqui Terme, Novara  Legnano e in Sardegna, e in primavera in giro per l’Italia.

Alzate il culo.

 

 

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Johnny Freak

Written by Interviste

Un gruppo che riesce ad emozionarti con musica e testi lo troviamo ancora una volta su Rockambula. Questa volta a stupirci sono i Johnny Freak, uno straordinario quintetto influenzato dal grunge dei Pearl Jam e degli A Perfect Circle, dal Rock dei nostri Negrita e Timoria, ed inspirati da un commovente personaggio della collana di Dylan Dog. Ai nostri microfoni ci sono Luca e Pietro che ci parleranno della loro ultima fatica “Tra Il Silenzio e il Sole” e di alcune curiosità che riguardano la band. Non resta altro da fare che gustarsi quest’ intervista.

Allora ragazzi, per cominciare che ne direste di presentare i Johnny Freak ai nostri lettori?

LUCA: Ciao a voi ed a tutti i lettori di Rockambula. Siamo cinque ragazzi cresciuti in provincia con questa passione comune per la musica, che ci ha  permesso di trovarci e continua a farci “ritrovare” ogni volta. Poi in secondo luogo, i Johnny Freak sono una band che cerca di farsi strada tra le insidie discografiche del nostro bel paese. Facciamo un rock cantautorale mettendo molta attenzione ai testi, oltre che agli arrangiamenti e nella scelta dei suoni. L’intento è cercare di dire qualcosa e lasciare un segno nelle persone che ci ascoltano, buono o cattivo che sia, cercando di non essere banali. Ce la mettiamo tutta per fare qualcosa di nuovo, anche se tanto è stato già detto dai nostri innumerevoli predecessori. L’Italia non offre molti spazi, la situazione è difficile, ma pian piano ci stiamo facendo sentire, sperando di poterlo fare ancor più quando partiremo con le date live, il nostro vero punto di forza.

Nella recensione ho ammesso che ad una grande ispirazione  c’è un grande gruppo. Io questa volta l’ ho inteso con il Johnny Freak di Dylan Dog e voi. Cosa vi ha trasmesso questo personaggio, perché lui?

LUCA: Lui è considerato un mostro per le persone meno sensibili e, chissà, in musica forse siamo proprio noi e quelli come noi i diversi, i “mostri”, qualcosa che non viene propinato tutti i giorni perché non di facile consumo e quindi spaventa.
Leggere quella storia fu un momento intenso della nostra vita. Ricordiamo ancora quel giorno con estrema passione, fu un vortice, un pugno allo stomaco che ci lasciò spiazzati. E’ una storia veramente eccezionale, ci colpì a tal punto che decidemmo di rendere omaggio a quell’ “Essere” mostruoso, un piccolo modo per schierarci dalla parte della “cultura del diverso”.
Johnny era anche un grande artista, dipingeva e suonava, era completamente predisposto all’arte ed alle sue mille sfaccettature, così sensibile, cosa che ci mostra come dietro all’apparenza c’è sempre qualcosa in più. Sempre! E va scavato a fondo a volte per scoprirlo, costa tempo e fatica, e pochi accettano di fare questi sacrifici. Quella in cui viviamo è una società che  vuole sempre tutto e subito. Il nostro è un modo per non dimenticare mai questo punto di vista, tenerlo sempre presente e metterlo anche davanti gli occhi di chi non lo condivide, o di chi si ferma alla apparenze; è un modo per ricordare che ci saranno sempre persone vittime di ingiustizie e pregiudizi.

Musicalmente invece da chi siete influenzati?

PIETRO: Tutti e cinque gli elementi della band hanno pochi gruppi come denominatore comune , i primi che mi vengono in mente sono Pearl Jam e A Perfect Circle su tutti ed il bellissimo Rock Italiano dei ruggenti anni ‘90 (Timoria, Estra, Negrita ecc), mentre personalmente ognuno  di noi conserva i suoi ascolti personali: dal rock più estremo ai cantautori famosi,  fino alla musica indie italiana di questi anni. Come puoi capire non c’è stata una specifica influenza, ma una disomogeneità di ascolti di ognuno che ha portato a dare una impronta unica ma molto varia nel sound della band.

Parliamo adesso del vostro nuovo disco “Tra il Silenzio e il Sole”. Dove e come si sono svolte le fasi di mixaggio e di registrazione?

LUCA: Per quest’ album siamo giunti alla corte di David Lenci ed Andrea Venetis , nel prestigioso studio della Red House Recordings di Senigallia.  Il lavoro si è svolto nel modo che ci auguravamo, cioè in armonia tra tutti noi, grazie anche alla professionalità di David ed Andreas. Il suono, poi, è stato curato e trattato con il massimo rispetto considerando che l’album è stato fatto completamente in analogico. E’  stato entusiasmante! Spesso  tante band (anche tra le più blasonate) vanno negli Stati Uniti o all’estero a cercare cose che magari non sapevamo nemmeno di avere in Italia. Per noi è stata  un’occasione per crescere veramente sia dal punto di vista artistico che professionale. David, poi , è un produttore storico  e ha dato sicuramente quel tocco di magia al nostro lavoro. Da varie recensioni e commenti di esperti, l’album riesce a suonare power , intimo e vintage allo stesso momento. Ecco, era proprio questo che cercavamo!

“Tra Il Silenzio e il Sole” è il vostro secondo disco, l’album di debutto s’ intitola “Sognigrafie”. Quali sono le principali differenze tra i due dischi?

PIETRO: La differenza principale  è che “Sognigrafie” è stato autoprodotto, quindi abbiamo fatto tutto noi, dall’inizio alla fine, dalla prima all’ultima cosa, mentre con “Tra il Silenzio e il Sole” c’è stata anche una collaborazione con altre persone, David e Andreas appunto, oltre al fatto che tra un album e l’altro ci sono stati ben cinque anni di prove, live, con la ricerca continua di nuovi spunti. Il primo album è stato registrato quasi di getto: c’eravamo appena conosciuti e le canzoni, scritte da Luca, avevano solo bisogno di essere completate con nuovi arrangiamenti, mentre nel secondo album c’è stato un lavoro di squadra lungo ben cinque anni.

Cosa ci dite del singolo “Regina”, perché avete scelto questa traccia e infine cosa ci dite del video girato per questa canzone?

PIETRO: “Regina” ci sembrava la canzone più immediata dell’album, nonché la più corta. Ci piaceva l’idea di esordire con un singolo molto più rock piuttosto che con un brano meno spinto. Il testo di “Regina” è molto forte, quasi un racconto intimo, un parlare a tu per tu con la propria immagine allo specchio di uno o più  sbagli. Tutti sbagliamo e ognuno prima o poi dovrà avere questo confronto con se stesso. Non ci sono storie vere forse, ma ci sono parole che evocano stati d’animo. Ecco, nei nostri testi ci piace l’idea che arrivi questo messaggio e “Regina” ci sembrava la più degna rappresentante. Il video invece l’abbiamo girato con la regia di Antonio Zannone, promettente regista delle nostre zone, insieme al team della Black Hole Productions, che si sono occupati di tutto il resto. Nella clip siamo chiusi tutti e cinque in un posto imprecisato, vuoto, dove ognuno di noi è solo con se stesso, mentre Luca, il cantante, recita la canzone. Si è cercato un po’ di trasmettere quel senso claustrofobico che ci attanagliava, il luogo oscuro in cui eravamo chiusi e la difficoltà nell’uscirne. Ci siamo cimentati nel ruolo di attori: è stato un azzardo, ma alla fine siamo riusciti ad ottenere il risultato che speravamo.

Adesso una mia curiosità: quali sono i vostri albi di Dylan Dog preferiti? E se dovreste coniare una vostra canzone ad una storia dell’ Indagatore? Mi spiego meglio una traccia che potrebbe far parte di una storia di Dylan Dog, che storia e che traccia?

LUCA: Ce ne sono svariati veramente, ad esempio Zed, Il lungo addio, La dama in nero, Il castello della paura, Goblin, Sonata macabra e Mater morbie, sulla cui ristampa tra l’altro siamo stati segnalati nella rubrica iniziale; poi c’è Partita con la morte a cui abbiamo dedicato per l’appunto l’intro “Quasi notte” e la canzone “La notte”  presenti nella tracklist di “Sognigrafie”. Quella canzone e il suo intro furono scritte dopo la lettura di quel meraviglioso albo. Mentre credo che Bugia su tutte possa entrare a far parte di una storia dell’Indagatore: con i suoi mostri, fate e angeli è alquanto surreale, sono tarli che rosicchiano il cervello pian piano, fino a portarti fuori dalla realtà, dove il confine tra reale e non svanisce. Per questo credo che si sposi bene con l’idea concettuale del Dylan Dog.

Per quanto riguarda il tour come siete messi? Dove suonerete nei prossimi giorni? E’ prevista una data per Napoli?

LUCA: Suoneremo un po’ in tutta Italia. Stiamo definendo proprio in questi mesi il tutto con la nostra manager, Alice Cortella della Red Cat Promotion, e al booking che curerà il tour. Speriamo di concludere tutto presto e che ce ne siano diverse in modo da farci sentire da più persone possibili.

A Napoli è nostra seria intenzione suonarci il prima possibile visto che è una delle poche città in cui non abbiamo ancora avuto il piacere di esibirci.

 

Invece la collaborazione con la Antstreet Records come è nata?

PIETRO: E’ stato strano e inaspettato, è nato tutto in un momento di sconforto: ci eravamo quasi arresi ad optare per una seconda autoproduzione, invece poi, un bel giorno bussa alla nostra porta Alice e ci mette sul giusto cammino, come se improvvisamente si fosse accesa una luce, consigliandoci poi all’etichetta Tedesca e in tutti i restanti passi da fare. E’ nato tutto così. Siamo quindi arrivati ad AntStreet e questa collaborazione a tre, per ora, si sta rivelando molto prolifica.

Cosa ne pensate della scena Underground nostrana? C’è qualche band che consigliereste di ascoltare?

LUCA:Sicuramente ce ne sono molte che valgono ma che non hanno l’attenzione che meritano. Ad esempio qui dalle nostre parti, nel basso Lazio, c’è un bel fermento. Potrei elencarti alcune band che abbiamo sentito e visto dal vivo che meritano davvero. Ad esempio i  Faunalia, i Radiocroma, i Pentothal, il Vicolo del buon consiglio, gli Aiemet , il Malpertugio, i Learn to fly , i Samuel Holkins, solo per nominarne alcuni. E’ un posto circoscritto e  poco previlegiato, ma si fa un gran bel rumore accidenti!

Ultima domanda: a cosa aspirano i Johnny Freak?

PIETRO: Aspirano semplicemente a suonare e suonare, ad esibirsi tanto in tutti i posti d’Italia e anche oltre. Darsi dei sogni e delle mete da raggiungere è doveroso, bisogna puntarci e crederci. Aspiriamo all’onesta intellettuale, a tirar fuori i nostri brani e dar voce al nostro credo in maniera sincera e leale, senza fronzoli o artifizi vari. Solo così si può raggiungere il cuore delle persone, oltre che la testa. La “tecnica” si impara, il resto no.

Bene ragazzi l’ intervista si chiude qui, concludete come meglio credete…

LUCA: Quello in cui crediamo è che, al di là di quello che si sente oggigiorno (ovvero tutte le menzogne che si ascoltano in radio, alla fine ed al declino di certi ideali e di un certo tipo di musica e all’avanzamento spropositato ed ingiusto dei talent show) in realtà non è tutto perso finché ci saranno band oneste che dal sottosuolo grideranno la propria voce, supportate da realtà indipendenti e stupende come Rockambula e tutte le altre webzine e radio che fanno i nostri stessi sforzi in questo strano posto! C’è bisogno di coesione e di un cambiamento concreto e speriamo che insieme a tante altre valide band, e grazie al vostro supporto, ci si riuscirà!

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Alanjemaal. Parte Seconda!

Written by Interviste

In questa seconda parte, Alberto Casiraghi ci parlerà della loro musica e della scena indipendente italiana, della loro vita, di “Dalla Ruggine“, della scena underground di Italia anni ’90, dei suoi sogni e delle sue paure. Buona lettura.

Nel disco, spaziate dalla psichedelia sixties, al Post Rock, dal Funky al Prog ed al Math, passando per il Noise e il più classico Rock italiano. Quello che viene fuori è un suono difficile da inquadrare eppure non proprio originalissimo. Voi come lo definireste?
Non lo definiamo. Non credo che abbia questa importanza, anche perché per esperienza, ognuno trova nella nostra musica quello che vuole. Per esempio, tu citi il funky, che io non porterei mai come esempio. Certo, capisco che il basso di Trappole possa ricordare l’epoca del cross-over o delle cose alla Fugazi, anche perché quel brano fu scritto con il precedente bassista. E anche il prog è una cosa lontana dai nostri interessi, se con prog intendi quel genere preciso. Se invece si intende un modo di scrivere dove la progressione degli accordi e delle armonie è un fattore importante allora siamo anche prog. Se intendi Genesi e Yes, allora ti dico che siamo fuori strada. Ma anche qui, io sono un malato della scuola canterburyana, anche se quello non è comunemente denominato prog. Comunque ritornando alla domanda, se èproprio dobbiamo ci definiamo, un po’ scherzosamente, Indie Psychedelic Post Rock Post Punk, il che vuol dire tutto e niente.

C’è qualche nome nuovo che vi assomiglia o vi piace molto? Sia italiano che straniero, ovviamente.
Artisti che ci piacciono ce ne sono molti e i nomi li ho fatti prima. Non credo che però ci sia qualche gruppo che ci assomigli. Pur essendo assolutamente convinto che tutta la musica rock contemporanea sia in qualche modo derivata, e quindi musiche assolutamente nuove e inedite è difficile ascoltarne, sono altrettanto sicuro che il nostro sia un calderone musicale molto personale. Non inedito, sicuramente derivato da tutto quello che c’è stato prima e da tutto quello che abbiamo ascoltato e amato, ma altrettanto personale. E’ la somma del tutto quel che conta; la sua sincerità e la sua onesta.

Una domanda personale. Cosa avete fatto dal 2001 al 2012? Oggi pensate di dedicarvi solo alla musica o farete anche altro?
Se con “dedicarci alla musica” intendi che possiamo vivere di essa, ti rispondo di no. E’ assolutamente utopico pensare che in Italia si possa campare con questo mestiere, ed è così anche per gli artisti molto affermati. In Italia in questo momento è già un miracolo se per un concerto si venga pagati. Solo dieci anni fa le cose erano nettamente diverse. Ovviamente abbiamo tutti un lavoro, una famiglia, i nostri affetti e le nostre passioni. Anche per una questione anagrafica le nostre vite private sono molto strutturate. Riuscire a suonare costantemente è già di per sé un mezzo miracolo. E in parte con questo ti ho risposto alla domanda riguardante cosa abbiamo fatto in questi dieci anni. Abbiamo vissuto: alcuni di noi si sono sposati, alcuni di noi hanno avuto figli, alcuni di noi hanno dovuto cambiare lavoro, alcuni di noi hanno cambiato compagna. Siamo in cinque: metti solo in fila due di queste vicende – di solito ricorrenti nella vita di ognuno – e capisci in fretta come sia stato possibile entrare in un buco di così tanti anni. E’ molto banale, ma altrettanto vero. Quello che facciamo è un misto di passione, sacrificio, determinazione, visionarietà e amicizia. Però, perché tutto funzioni nelle nostre vite private deve esserci un minimo di serenità, altrimenti viene a mancare automaticamente la concentrazione e la volontà di mettersi totalmente in gioco. Non è che queste cose si decidono a tavolino. Molto spesso succedono e quando te ne sei accorto sono già passate. Ecco, quando ci siamo accorti che avevamo deragliato erano passati un bel po’ di anni. Ma quando ce ne siamo accorti e abbiamo capito cosa era successo, e cosa volevamo fare da lì in avanti, siamo ripartiti.

Come già detto, il vostro disco è nato nel 2001. I pezzi che possiamo ascoltare oggi sono esattamente gli stessi di allora? E l’idea della vecchia lavatrice in copertina e del nome “Dalla Ruggine” è cosa nuova, immagino.
Dalla ruggine è stato pubblicato nella stessa forma del master che abbiamo prodotto del 2002. Non abbiamo fatto aggiunte e variazioni nel frattempo, e oggi si può ascoltare quello che si sarebbe potuto ascoltare dieci anni fa, ne più ne meno. Oggi non suoniamo quasi più quei brani dal vivo, tranne Allucinazione ipnagogica. E’ un’evoluzione naturale, cercare nuove strade, nuovi stimoli. Nella scaletta degli ultimi concerti ci sono quasi tutti i brani del nuovo disco che stiamo ultimando e addirittura brani nuovissimi. Però, pur essendo passato molto tempo e avendo oggi un suono diverso credo ci sia una continuità tra quello che suonavamo allora e quello che proponiamo oggi. Almeno, noi pensiamo che ci sia. Non so se questo viene avvertito da chi ci viene a sentire dal vivo.

Per quanto riguardo la copertina con la lavatrice e il titolo “Dalla ruggine” entrambe sono state decise a ridosso della pubblicazione dell’album. Cercavamo un concetto che potesse esplicitare queste canzoni riesumate da un cassetto, ma anche il fatto che in qualche modo gli Alanjemaal tornassero a suonare seriamente. Per caso, navigando in internet, un po’ di tempo fa, nel portfolio fotografico di una mia amica – una giovanissima e bravissima fotografa, Marta Rossetti http://www.flickr.com/photos/marta_vs_elan/ –  ho visto questa foto di una lavatrice arrugginita. Mi è subito sembrata un’immagine molto semplice, ma con una forte valenza poetica, tanto che il titolo è stata una conseguenza spontanea e immediata.

Che differenze avvertite tra la scena rock italiana di inizio millennio e quella attuale, non solo in ambito compositivo e artistico?
Non so se ci sia differenza. O meglio, non vorrei che le differenze che io noto siano dettate dal fatto che per me gli anni dell’entusiasmo quotidiano per quello che sento e della scoperta continua sono passati da un pezzo. E’ una pura questione anagrafica. Non so se sia questo il motivo, ma mi sembra che sia più accentuata l’intenzione di emulare i modelli, confronto a dieci/venti anni fa. Certo, prima c’era sicuramente più ingenuità e magari meno perizia tecnica. Ora qualsiasi gruppo alle prime armi ha un bagaglio tecnico che io negli anni 80 mi sognavo. C’è più consapevolezza dei propri mezzi ma anche meno genuinità, meno spontaneità. Ma ripeto, magari è solo come la vedo io. Ma la cosa che più mi preme è la differenza che trovo tra il pubblico, e questo lo dico da ascoltatore che va a vedere un sacco di concerti ogni anno. Ecco, trovo che ci sia meno attenzione per l’esibizione live, meno voglia di sentire musica dal vivo, ma soprattutto meno voglia di lasciarsi stupire e magari andare a sentire qualcosa che non si conosce minimamente. Vedo molta pigrizia e molto disinteresse verso la cultura in generale. E per me questo è un grosso problema.

Il mio tormentone. L’arte è prostituzione, diceva Baudelaire. Si può (soprav) vivere oggi, solo della propria arte?
No, almeno in Italia è escluso se non per una cerchia ristretta di nomi. E non penso che cambierà.

Quale è il vostro sogno di musicisti e la vostra paura più grande?
Il nostro sogno è semplicemente quello di comporre la miglior musica possibile, quella che a noi per primi piacerebbe ascoltare. La paura più grande è che nonostante averla scritta a nessuno importi.

Una brutta domanda, alla quale vi sfido a dare una bella risposta. Chi è la grande truffa dell’Indie italiano?
Sinceramente non so cosa rispondere. Ci sono tante band che non mi piacciono, ma non so se si possono definire “truffatori dell’indie italiano”. Anche perché a malapena potrei definire “indie italiano”.

Dove potremo ascoltarvi nei prossimi mesi, dal vivo?
Fosse per noi in tutta l’Italia. Più probabilmente in Lombardia.

Che differenze ci saranno tra “Dalla Ruggine” e il prossimo album?
Il prossimo album è composto solo da brani cantati, mediamente più corti, mediamente più semplici. Più rock che post rock. Magistrali dice che suoniamo come una band degli anni 70. Non sono molto d’accordo, ma è anche vero che faccio fatica a definire il nostro suono.

Sceglierete ancora la strada del download gratuito?
Dipende se troviamo un’etichetta o meno che ci pubblichi il cd. Il download gratuito può comunque essere una opzione, da affiancare alla vendita del cd, per la promozione del gruppo.

Vi siete mai chiesti dove sarebbero potuti arrivare gli Alanjemaal se il disco fosse uscito undici anni fa? Cosa vi siete risposti?
Obiettivamente, non molto lontano. E questo al di là del valore intrinseco del disco. Eravamo convinti già da allora che il cd avrebbe trovato poco pubblico, e questo soprattutto per la non facile catalogazione in uno stile. Se ci pensi, per un gruppo delle nostre dimensioni questo può essere un problema. Al di là di ciò, c’è sempre da rapportarsi con le dimensioni del mercato discografico italiano, che proprio in questo decennio si sono ridotte ai minimi termini. Certo, probabilmente avremmo suonato molto di più in giro e oggi non saremmo qui a promuoverci come se il gruppo si fosse appena formato. Cosa che ci mette in concorrenza – che brutto concetto – con band i cui componenti hanno mediamente dieci o venti anni in meno di noi. Questa è una vera difficoltà.

 

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Alanjemaal. Parte prima…

Written by Interviste

In occasione dell’uscita del loro primo lavoro, abbiamo intervistato Alberto Casiraghi, leader della band brianzola nata nel 1993 col nome di Rude Pravda ,oggi più enigmaticamente Alanjemaal. In questa prima parte sarà lui a raccontarci chi sono gli Alanjemaal, chi erano i Rude Pravda, cosa impedì alla sua band di pubblicare le dieci canzoni contenute in “ Dalla Ruggine” dieci anni fa, visto che allora furono registrate. Ci spiegherà cosa li ha spinti a pubblicare solo ora la loro opera. Ci rivelerà i loro rapporti con la grande scena alternativa italiana degli anni novanta e duemila e finiremo per chiacchierare del presente e del futuro della nostra musica. Tanta maturità, amore per la musica, disillusione e realismo.
Nella nostra home, trovate in ascolto un estratto dall’album. Allucinazione Ipnagogica.

Ciao a tutti. Per prima cosa, come state?
Ciao. A parte l’influenza, bene. Se poi intendi come stanno gli Alanjemaal artisticamente parlando, allora posso dire che si sentono giovani, nonostante gli “anta” conclamati. Ma appunto, la musica ha il potere di far dimenticare lo scorrere del tempo.

Chi sono gli Alanjemaal? Perché questo nome? Inizialmente la scelta era caduta su Rude Pravda. Poi cosa vi ha spinto a modificarlo?
Gli Alanjemaal sono principalmente una band rock (le varie declinazioni del genere sono secondarie).  Parallelamente, gli Alanjemaal sono una una specie di famiglia, con tutte le dinamiche complesse che essa comporta. Non potremmo definirci diversamente visto che il nucleo fondante si è riunito per la prima volta vent’anni fa con il nome di Rude Pravda. Perché abbiamo poi cambiato nome? Due ragioni: la prima è che venivamo accostati un po’ troppo spesso ai CSI e compagnia (colpa anche di una fanzine che parlava di loro, che però è nata tempo dopo di noi) e la cosa non ci piaceva,  visto che eravamo  molto distanti da quella scena musicale: soprattutto ciò creava equivoci. In secondo luogo, nel 1999 entrò nel gruppo Alessandro al posto del precedente bassista e la conseguenza fu una virata sul versante sonoro. E questa evoluzione doveva essere battezzata con un nuovo nome. Non è stato facile decidere quale. Non possiamo dire cosa Alanjemaal voglia dire. In realtà non vuol dire nulla, almeno non ha un significato comune, ma è intrinsecamente generato dal fatto che siamo assieme, noi cinque.

L’album uscito nel 2012 “Dalla Ruggine”, in realtà, è opera nata molti anni fa, nel 2001. Cosa vi impedì, allora, la sua pubblicazione e cosa vi ha spinto a proporlo al pubblico di oggi?
E’ difficile ancora oggi per noi capire cosa è successo e perché abbiamo perso tanti anni. Non che non ci siamo accorti che molte cose nelle nostre vite nel frattempo deragliassero o si complicassero, anche piacevolmente. Noi su questo disco puntavamo tantissimo. Ci ritenevamo una band matura che con il cambio di bassista era riuscita in poco tempo a fare un salto di qualità notevole, con idee nuove e con un suono, se non originale almeno molto personale. Eravamo convinti della via intrapresa e che attorno a noi ci sarebbe stato interesse. Non a caso Fabio Magistrali, che conoscevamo da una decina di anni, si era mostrato così interessato da riuscire a farci concretizzare quello che avevamo in mente. E quello per noi era un segnale, anche perché lui stesso, ai tempi dei Rude Pravda, aveva rifiutato di lavorare con noi perché non convinto della nostra proposta. Insomma, c’erano tutti i presupposti perché quel disco fosse un punto di partenza importante. Forse aspettative troppo alte – ma in realtà mica puntavamo alla fama e a i soldi…- che si sono infrante contro una marea di rifiuti da parte delle piccole case discografiche dell’epoca. Insomma, un sacco di feedback negativi che piano piano ci hanno smontato e ci hanno fatto perdere tempo, ma sopratutto perdere fiducia, tanto che per un po’ di anni quel disco non sono più riuscito ad ascoltarlo. Certo, si poteva puntare sull’autoproduzione, ma erano tempi un po’ diversi da quelli odierni. Non esistevano i social network, non era così facile distribuire un prodotto da soli se non lo supportavi con una buona presenza live. E in quel momento eravamo praticamente sconosciuti e trovare concerti era per noi difficilissimo. Insomma, abbiamo perso il momento giusto. Poi dal 2004 in avanti tutto si è complicato nel nostro privato e il disco è rimasto lì, sullo scaffale del mio studio.
Abbiamo poi deciso di pubblicare Dalla ruggine lo scorso anno per suggellare la nostra effettiva ripartenza: non dico rinascita, perché in realtà non abbiamo mai smesso di suonare. Ripartenza dall’ultimo momento in cui si siamo sentiti una vera band, con un progetto preciso, con un’identità precisa. Tutto quello che c’è stato nel frattempo, anche se non è da cancellare, è stata una lunga pausa creativa dettata soprattutto da elementi e avvenimenti esterni al gruppo. E’ la vita, una cosa di solito molto complicata.

Non avete paura che, ad orecchie poco attente, il vostro sound possa apparire vecchio, anacronistico, finendo per influenzare negativamente il giudizio relativo alla vostra futura produzione live e studio?
In parte sì, ma sinceramente non ci importa. Pensiamo che ci sia posto per tutti, e che ogni musica, se è suonata con sincerità e competenza, sia degna di essere ascoltata. E poi, siamo abbastanza vaccinati in confronto ai giudizi negativi o supposti tali, che sarebbe stato stupido esitare ancora. Del resto le poche recensioni pubblicate su Dalla Ruggine (mi rendo conto che non è così automatico dare spazio a un disco di dieci anni fa) dicono il contrario.

A proposito, ci sarà un nuovo disco, vero?
Certo. Il nuovo disco è già stato registrato e mixato sempre con il prezioso apporto di Fabio Magistrali. Tra qualche giorno andremo in studio per il master poi penseremo alla copertina e a trovare un’etichetta che sia interessata. Ma se non la troviamo questa volta lo pubblichiamo comunque, e in breve tempo.

I dieci brani che compongono la vostra suddetta opera prima sono stati registrati e prodotti da Fabio Magistrali (Afterhours, Marta Sui Tubi, Perturbazione). Come è nata questa collaborazione?
Conosco Fabio dal 1989 e ci avevo già lavorato assieme con gli I meet I per due session di registrazione al Window Studio, il posto dove lui lavorava all’inizio dei ’90. Siamo sempre stati in contatto, fino a collaborare con noi nel 2001, come ho raccontato sopra. Ora, dopo esserci persi di vista per quasi dieci anni, ci siamo incontrati di nuovo per finire questo nuovo disco che avevamo iniziato a registrare da soli un po’ di tempo fa. Lavorare con Fabio è sempre un’esperienza, soprattutto di vita. La stima reciproca e l’amicizia che ci lega è l’elemento fondamentale per il quale abbiamo deciso di lavorare ancora con lui. Questo al di là della sua competenza, della sua professionalità, ma soprattutto del suo gusto e della sua capacità di capire e di accettare quello che siamo e quello che suoniamo.

Il mercato della musica è cambiato radicalmente nel corso degli anni, con l’affermarsi del web, del P2P, degli Mp3. Se la musica sembra averci perso di qualità, di certo ci guadagna la voglia di conquistarsi il proprio spazio attraverso le esibizioni dal vivo. È questo che vi ha spinto a scegliere il download gratuito (ecco il link http://alanjemaal.bandcamp.com/) o ci sono motivazione diverse?
La motivazione principale è che per un gruppo della nostra dimensione (infinitamente piccola) è impossibile vendere dischi. In realtà i dischi non li vende quesi più nessuno, se non ai concerti. Oggi è fondamentale usare i primi per promuovere l’attività live. A questo punto della nostra carriera e della nostra vita per noi l’importante è che qualcuno ci senta e ci apprezzi. Se poi vuole comprare il disco a un nostro concerto perché quello che ha scaricato gli è piaciuto, tanto meglio. Detto questo, siamo consapevoli che economicamente saremo sempre in perdita. E questo, paradossalmente, potrebbe non essere il nostro problema principale.

Che cosa ascoltavate dieci anni fa e cosa ascoltate oggi? Quali artisti vi hanno maggiormente influenzato?  In una mia recensione ho accostato il vostro lavoro, nei suoi diversi passaggi, a nomi come Umberto Palazzo e Il Santo Niente, P.F.M., Massimo Volume, Slint, Tortoise, Scisma, Ustmamò, Perturbazione, Virginiana Miller, Marlene Kuntz. C’è qualche intruso o qualcuno che non doveva mancare?
Domanda non difficile, ma che richiederebbe tutto lo spazio di questa intervista, anche perché siamo in cinque e mica ascoltiamo le stesse cose. Chiariamo un punto necessario per capire il perché è difficile dare un riferimento preciso: non abbiamo mai scritto, almeno consapevolmente, una canzone partendo da un preciso modello musicale. Ovviamente, quello che si ascolta quotidianamente influenza quello che poi le tue dita tirano fuori dalla tastiera, ma non abbiamo mai voluto suonare come il gruppo x o il musicista y. Abbiamo sempre cercato di buttare dentro le nostre passioni musicali infischiandocene degli steccati, una cosa per noi molto stupida. E quindi cosa ascoltavamo? All’epoca di Dalla ruggine ci mettevano d’accordo i Motorspycho, molta psychedelia sixties californiana, Husker Du, Fugazi, June of 44, Blonde Redhead, Don Caballero, Sonic Youth e migliaia di altre cose. Solo io ascoltavo l’ormai morente post-rock, ma sono sempre stato l’onnivoro del gruppo. Dei nomi italiani che hai citato mi sono sempre piaciuti i Massimo Volume, mentre i Perturbazione erano amici miei già da diversi anni. I Marlene Kuntz, per dire, io non li ho mai digeriti, mentre qualcun altro nel gruppo li ascoltava.
Oggi più o meno i gusti sono rimasti quelli, anche se ci mi piacciono anche altre cose, come gli Oneida più psychedelici, Akron/Family, Field Music, Low, per dire qualche nome tra i più noti. Tra gli italiani nell’ultimo anno mi sono piaciuti Gazebo Penguins, Verbal, Fine before you came. Ti posso dire che in questi giorni sul mio Itunes girano (in stetto ordine alfabetico): Bill Fay, Django Django, Extra Life, Father Murphy, Fucked Up, Godspeed You! black emperor, Hanne Hukkelberg, Japandroids, Moon Duo, Pontiak, Putiferio, Swans, Six Organ Admittance, Tu Fawning.

Fine prima parte.

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Luca Loizzi

Written by Interviste

Luca Loizzi al suo esordio discografico ci parla dell’amore per la Puglia e l’importanza di Milano sognando De Andrè…

Molti i generi toccati da questo disco di debutto… come riesci a farli convivere e a chi ti sei ispirato maggiormente?

Se dovessi stabilire una gerarchia di preferenze mi risulterebbe davvero difficile. Credo si possa cogliere in quello che amo definire il “meltin pot” musicale che caratterizza l’album, l’influenza o almeno l’eco dei cantautori con cui sono cresciuto, una sorta di famiglia immaginaria cui ho fatto sempre riferimento: De Gregori, De Andrè, Ciampi, Gaber, Dalla, Brel, Brassens. Può sembrare banale ripetere sempre gli stessi nomi, ma in realtà ogni volta che li si ascolta, vi si scopre una prospettiva nuova  anche solo per la diversa predisposizione psicologica personale che si ha in un determinato momento della propria vita. Poi lo splendido lavoro del produttore Beppe Massara e del maestro arrangiatore Nico Acquaviva ha permesso che mondi e influenze musicali tanto differenti nei miei brani, convivessero armonicamente in una grande “sinfonia” di suoni.

Chi erano i tuoi idoli di gioventù invece?

L’adolescenza è età particolare: si costruisce il proprio io principalmente edificando un catalogo di negazioni e cioè  marcando le “distanze dall’altro”, rendendo così più facile l’identificazione esterna di sé stessi. Ecco quindi che “si preferiva” la musica straniera a priori, determinandone comunque la superiorità su quella italiana la cui conoscenza risultava comunque obiettivamente scarsa. Parlo al plurale perché mi piace ricordare quel fanatico gruppo di 17enni di cui facevo parte, che collezionava solo dischi e bootleg costosissimi dei propri idoli: Beatles, Doors, Pink Floyd, Led Zeppelin, Nirvana, etc. Poi si cresce e si comprende con piacere che “non è solo rock quello che luccica”, ma che esistono forme del narrare musicale diverse e ugualmente fascinose come quelle del jazz, della classica o del cantautorato italiano e francese.

Qual è e quanto è forte il tuo legame con la regione Puglia? E quanto quello con Milano?

La Puglia è per me terra di riscoperta seppure mi abbia dato i natali paradossalmente ho dovuto allontanarmici per risentirne il richiamo e riscoprirne lo splendore. Ci sono paesaggi spettacolari come quelli murgiani che cambiano continuamente nel corso della giornata a seconda della luce, e c’è il calore della gente che risulta davvero unico! Milano ugualmente fa parte della mia storia, con i suoi ritmi assurdi e i suoi grigi cieli quotidiani: ma è una città che mi ha regalato un impareggiabile bagaglio di ricordi e anche solo per questo le sarò eternamente grato!

Il tuo disco presenta degli arrangiamenti molto curati… è difficile riproporli dal vivo?

Gli arrangiamenti sono il frutto del lungo e appassionato lavoro di Beppe Massara e Nico Acquaviva: l’idea era quella di adottare vesti diverse ed appropriate ai vari brani dell’album senza porsi limiti o dogmi musicali. Ecco quindi spuntare il banjo di Adriano Sofo su “Quando meno te lo aspetti” o la fisarmonica di Carmine Calia  su “Pillole” o la tromba di Giuliano di Cesare su “Tutti Quelli”. È ovvio che dal vivo sarebbe necessario avere una band di 20 elementi per riprodurre il disco nei suoi particolari e nelle sue sfumature: allora abbiamo scelto una formazione essenziale di cinque musicisti che possa comunque rendere al meglio la vitalità e l’energia dell’album.

Di cosa trattano i tuoi testi? Ci sono anche riferimenti letterari?

Di solito quando scrivo parto da un’idea, una parola o una coppia di frasi che sembrano suonare bene ed avere un senso. La maggior parte delle volte lo spunto è autobiografico: il grande scrittore Joseph Conrad si chiedeva:«Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando? ». In effetti quella che comunemente e arbitrariamente definiamo per comodità “ispirazione” è solo il frutto della lunga sedimentazione che il nostro cervello costruisce in base agli stimoli che riceve ed accumula. Chi scrive, poeta, scrittore o musicista che sia, non fa altro che raccogliere ciò che consciamente o inconsciamente ha già fatto suo. Allora lo spunto autobiografico si accompagna a riflessioni più ampie che riguardano la società o il microcosmo di cui fa parte e di lì nasce qualcosa che altri chiamano “canzoni”. Nel disco ho inserito un brano cui sono molto legato, “Il pazzo”, ed è dedicato al grande poeta Antonin Artaud costretto alla rieducazione con l’elettro schok solo perché intellettuale scomodo ai più e voce dissidente in una società capitalistico – borghese che andava ponendo le basi per il “pensiero unico” con cui oggi purtroppo dobbiamo fare i conti tutti i giorni.

Cosa ne pensi della scena indie italiana?

Sicuramente meriterebbe molta più attenzione da parte dei mass media che sprecano tempo promuovendo la mediocrità dei divi “usa e getta” figli dei talent show: carne da macello esposta su banconi sempre più grandi! Invece il panorama italiano non ha nulla da invidiare a quello europeo: penso ai giovani come Dente o Brunori Sas, Camillo Pace o Patrizia Laquidara. Credo che ormai il pubblico televisivo e radiofonico abbia il diritto di conoscere cos’altro propone la musica italiana e non solo quel poco che viene prodotto “in scatola” dalle major e poi propinato come primo e unico piatto del giorno!

Cosa prevedi per il tuo 2013 musicale?

Il 2012 è stato un anno ricco di sorprese e “soddisfazioni”: le bellissime recensioni della critica, un pubblico sempre più numeroso e affettuoso e ultima in ordine cronologico l’essere stati selezionati dal Premio Tenco per la data del “Tenco ascolta” svoltasi il 2 dicembre a Bari. Il 2013? Bè che dire: “Ad maiora”!

 

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