Back to 2013: i migliori album dieci anni dopo

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Una classifica retrospettiva di quei 50 dischi che ci piacciono ancora o più di prima.

Guardarsi indietro è un’esperienza complessa ma sempre interessante. Vale in generale, e in particolar modo vale quando si parla di forme d’arte: un’operazione come quella di mettersi a riascoltare gli album che ci hanno emozionato dieci anni fa e tornare a ragionarci quando la fase dell’hype è abbondantemente terminata può rivelarci che non sempre gli stessi sono riusciti ad attraversare illesi un arco di tempo significativo. D’altra parte, ci sono dischi che abbiamo scoperto molti anni dopo l’uscita ufficiale, o rivalutato inaspettatamente, e che magari oggi sono proprio quelli che nomineremmo per primi se ci chiedessimo quali sono le migliori uscite del 2013.

Noi ce lo siamo chiesto, anche perché le classifiche ci piacciono un sacco e non ce la facevamo proprio ad aspettare la fine del 2023 per tirarne fuori una: così ci siamo imbarcati in questa impresa collettiva che ci ha divertito parecchio – che in fin dei conti è il motivo per cui continuiamo a tenere in piedi la baracca, a scrivere di musica in maniera mai superficiale, a pubblicare articoli di una lunghezza decisamente inadeguata all’epoca in cui viviamo. Lo facciamo perché ci piace e anche perché crediamo che al mondo esistano ancora altri come noi, che non si accontentano di guardare solo le figure.

Di seguito trovate quelli che a nostro parere sono i 50 album che meglio hanno superato la prova del tempo, per i motivi più disparati. E mentre vi spulciate la classifica potete anche riascoltarli in sequenza nella playlist qui sotto. Buon ascolto e buona lettura.

50. Laura Marling – Once I Was an Eagle

L’enfant prodige del nu-folk britannico ha solo 23 anni quando pubblica il suo quarto lavoro in studio: è ormai pronta a fare a meno degli orpelli, lasciandosi guidare dalla lezione schietta e minimale delle poche artiste donne – Joni Mitchell, Vashti Bunyan – che all’epoca si presero il proprio spazio in uno scenario dominato dall’immagine del folk man con la chitarra a tracolla. Sono già trascorsi alcuni decenni da allora al 2013, ma ci vorrà ancora un po’ prima di veder arrivare una nuova generazione di cantautrici, grintose e notturne al tempo stesso, quella oggi numerosissima a cui appartengono Phoebe Bridges e Weyes Blood, tanto per citarne un paio. Riascoltandolo oggi, c’è da riconoscere a Once I Was an Eagle il merito di aver spianato loro un pezzetto di strada.
(Maria Pia Diodati)

49. Alex G – Trick

È il 2013 e Alex G, Car Seat Headest e Teen Suicide sono i nuovi eroi dell’indie in bassa fedeltà. Grazie a Bandcamp chiunque può emergere, non servono etichette, non serve gavetta. Tra questi Alex G è probabilmente il più conosciuto, colui che ha già costruito la sua identità sonora grazie a lavori come Race o Rules. Questo è probabilmente il lavoro apicale della fase pre-major (Alex firmerà per Domino nel 2015): il disco scivola dolcemente tra momenti lisergici e fraseggi emozionali, Elliott Smith è ancora la presenza più assordante seguita dai sempre presenti Built to Spill e Modest Mouse. Qui la sperimentazione non è ancora evidente e le situazioni più folk non emergono ancora prepotentemente: ci vorrà ancora un po’ prima che Alex G diventi il Neil Young dei millenials.
(Gianluca Marian)

48. 65daysofstatic – Wild Light

Uno degli aspetti più interessanti di retrospettive come questa sono le riflessioni sui generi che ‘andavano’ in quel periodo. Non l’avrei mai detto prima di vedere questa lista, ma il 2013 fu un bell’anno per il post rock e, sebbene non siano tra le band più ricordate dieci anni dopo, il post rock dei 65daysofstatic è un flusso continuo di energia, massiccio e fortificante.
(Claudia Viggiano)

47. The Haxan Cloak – Excavation

Ritmi serrati, bassi cavernosi, scorie industriali, minimi accenni melodici. Il secondo lavoro di Bobby Krlic (seguito del percorso verso la morte che caratterizzava l’omonimo esordio) é un viaggio oscuro e catartico dalla terra verso un altrove sconosciuto, che grazie ad una grandissima forza espressiva avvince l’ascoltatore senza tregua e, a mio avviso, per qualche imperscrutabile ragione, può essere ascoltato con coinvolgimento anche dai non avvezzi a determinate sonorità.
(Tony Mistretta)

46. The KVB – Immaterial Visions

Il sophomore del duo londinese è un’onda oscura e ossessa che pulsa distorta grazie ad una maniacale combinazione di chitarre lisergiche e vecchi sintetizzatori analogici. Tra crepitanti luci al neon e ombre, Immaterial Visions è una cupa, intensa e allucinata evasione da una realtà post apocalittica, che però non lascia scampo. A distanza di dieci anni, questo disco riesce ancora a restituire l’urgenza di quelle atmosfere drammatiche ed evanescenti che l’alchimia dei KVB è stata in grado di concepire, combinando i capisaldi dei generi di riferimento – post-punk, shoegaze, darkwave, synthwave, lo-fi – alla propria visione.
(Dino Nangelo)

45. Joanna Gruesome – Weird Sister

Siamo ormai usciti dal periodo del “tutto è shoegaze” e certe band possiamo slegarle da quell’etichetta e definirle meglio. La formazione gallese riesce a miscelare il noise pop dei Jesus and Mary Chain con il twee pop sia degli Shop Assistants che delle più veraci Tiger Trap, ingloblando alla perfezione gli insegnamenti rumoristici e alternativi dei Sonic Youth e delle Bikini Kill. Per loro la citazione dei My Bloody Valentine cade sempre a sproposito se non si puntualizza che le somiglianze arrivano prevalentemente dagli EP precedenti Isn’t Anything. Quest’album è un lavoro coeso e compatto che dura meno di 30 minuti senza mai calare un attimo.
(Gianluca Marian)

44. Bill Callahan – Dream River

Questo è uno di quegli album che potreste ascoltare in un viaggio on the road nel sud degli US, dal Texas alla Louisiana. Durante una sosta, in una calda e polverosa provincia americana, in qualche bar dalle parti di Austin, proprio dove (guarda caso!) vive il nostro Bill Callahan. È una perla di folk lo-fi in un cassetto di sogni americani in cui potremmo trovare anche Bonnie Prince Billy, Micah P. Hinson o AA Bondy. Se avvertite una leggera malinconia come in Summer Painter, state tranquilli, è solo la vita che scorre come un fiume. Come canta Callahan stesso in apertura su The Sing, nulla che non possa passare con una “birra” e un “grazie”.
(Paola Simeone)

43. Foxing – The Albatross

La prima volta che ascoltai The Medic fu una specie di epifania: era l’inizio di quello che poi abbiamo chiamato emo revival, e trovare una band emo di nuova generazione che ridesse vita al math rock sembrava un po’ un miracolo. In realtà i Foxing non erano e non sarebbero stati gli unici ad esplorare questi generi, ma rimangono tra i migliori a catturare le emozioni tipiche del cantato emo con sonorità dinamiche, piene di climax e di esplosioni liberatorie.
(Claudia Viggiano)

42. Primal Scream – More Light

2013: non solo l’anno di pubblicazione dell’album che segna il ritorno sulla scena della band scozzese capitanata da Bobby Gillespie, ma anche il titolo del brano che apre le danze, guidato da un irresistibile riff di sax. Un disco altisonante e imprevedibile, in cui tutto trova il suo spazio perfetto: dal precipitoso punk di Hit Void alla nostalgica Walking With The Beast, in un viaggio che costeggia funk, blues, alt-rock e psichedelia.
(Francesca Prevettoni)

41. Devendra Banhart – Mala

Il titolo dell’album numero otto nella discografia dell’artista venezuelano-statunitense non è altro che un vezzagiativo amoroso slavo con cui lo chiamava la sua compagna serba dell’epoca, la designer e fotografa Ana Kras. Più sofisticato ed essenziale degli esordi con Cripple Crow e Smokey Rolls Down Thunder Canyon, più eclettico e colorato del precedente What Will We Be, a cercare un ossimoro diremmo che si tratta di una psichedelia minimalista. Un album tenero che cela un’aria pop-mariachi (Mi Negrita) e a tratti cupo e malinconico (Für Hildegard Von Bingen, dedicata alla mistica tedesca Ildegarda di Bingen, prima donna musicista del Medioevo europeo). Tante le referenze, le ispirazioni, le sonorità e le lingue. Un album che ha il retrogusto del risveglio al mattino seguente, quando la festa è finita ed inizia un nuovo giorno.
(Paola Simeone)

40. God is An Astronaut – Origins

Post rock, ma non solo. Il sesto album della formazione irlandese stupisce e destabilizza con un’incredibile varietà di sfumature diverse ed una ricercatezza di suoni e armonie mai banale o artefatta. Un disco che suona come un sogno così intenso da apparire reale, dal quale fatichiamo a riprenderci al risveglio.
(Francesca Prevettoni)

39. Russian Circles – Memorial

Un album che lascia immergerti nella nostalgia dei ricordi, con uno sguardo severo al presente e sensazioni contrastanti verso il futuro. Classificato come post-rock, post-metal, strumentale: non ha importanza la razza a cui appartenga, è fondamentale invece capire come qui il trio di Chicago abbia trovato il perfetto equilibrio tra emozioni e distorsioni, in attimi più duri e frenetici ed attimi in cui avviene una catarsi pura e fedele. Fino all’ultima meraviglia, insieme a Chelsea Wolfe… c’è altro da aggiungere?
(Federica Finocchi)

38. Cult of Luna – Vertikal

Se i Cult of Luna fossero un regista sarebbero Denis Villeneuve. Andate a vedere la sua filmografia: sarebbe lo specchio della discografia degli svedesi che, da Umeå, hanno ridefinito le coordinate e la geografia dello sludge e del post-metal insegnato dai Neurosis. Perché questo paragone? Perché nella carriera di entrambi non vi è alcun filler, nessun passo falso. Cl suo gelido tappeto di synth e di elettronica, quest’album apre agli anni ’10 della band ergendosi come un monolite distopico e quantomai attuale. Ispirato da “Metropolis” di Fritz Lang, ci accoglie nel suo magnetismo con la meccanizzazione dell’uomo e le fredde architetture sullo sfondo, corrose dalle suite che solcano crateri orwelliani. Picco compositivo e rifinito chirurgicamente, Vertikal è un viaggio da compiere.
(Daniel Molinari)

37. Waxahatchee – Cerulean Salt

Molti dei dischi presenti in questa classifica hanno portato qualcosa di innovativo o lasciato un segno particolare nel panorama musicale del 2013. Questo lavoro di Waxahatchee è invece un affare più intimo, che si insinua silenzioso in elenco allo stesso modo in cui Katie Crutchfield si conferma una grande cantautrice. Il cantautorato lo-fi di Cerulean Salt trafigge proprio nel suo mostrarsi spoglio, a dire solo l’essenziale. In fondo, se si ha la penna di Crutchfield, basta quella; non c’è bisogno di nascondersi dietro a nulla.
(Claudia Viggiano)

36. Vampire Weekend – Modern Vampires Of The City

È questo il disco che ha consacrato i newyorkesi nell’Olimpo dell’alt-pop: il terzo album si allontana dalla world music di impronta afro-pop degli inizi prediligendo sonorità più americane, suoni più stratificati e una produzione più ragionata. A cinque anni dall’esordio, i quattro preppy da Ivy League (Rostam Batmanglij ha lasciato la band nel 2016) sono diventati adulti, e insieme ai colori in copertina è venuta meno pure un po’ di spensieratezza. Anche se le fondamenta del progetto non vengono sradicate, l’ampliarsi della dimensione cantautorale – e quindi del songwriting e della portata nostalgica di Ezra Koenig – è lampante, come i riferimenti agli anni 80. È l’epilogo della trilogia dei vampiri moderni: giovani adulti fagocitati dalle città in cui provano a vivere e dalle dinamiche insostenibili che ne scandiscono le vite.
(Dino Nangelo)

35. Ty Segall – Sleeper

In linea con le abitudini tipiche degli artisti più prolifici, anche l’inarrestabile Ty Segall nel 2013 dava alla luce il disco intimista. Sleeper di nome e di fatto, per quanto nella chiave lo-fi di sempre, ci ha raccontato le influenze sixties e seventies cui c’era bisogno di tornare per fare i conti con quel presente, servendosi della magia recondita che solo l’acustico poteva concedere.
(Claudia Vecchioli)

34. Sigur Rós – Kveikur

L’ambient arioso della band islandese tocca corde inaspettate con Kveikur: il suono sembra aver indossato un lungo manto nero da rituali nei boschi e lascia che al sussurro di Jónsi si alternino istanti doom da apocalisse. Proprio come in Brennisten, opening track che l’anno successivo sarebbe diventata la perfetta soundtrack di “The Walking Dead” nel trailer di lancio della quinta stagione della serie.
(Claudia Vecchioli)

33. Iceage – You’re Nothing

Figli della singolare scena chiamata “New Way Of Danish Fuck You” e reduci dal clamore dell’album d’esordio, pubblicano il secondo disco su etichetta Matador senza deludere le aspettative. Ripropongono la sperimentata mistura di atmosfere post-punk e furia hardcore, in una forma più violenta, marcia e matura. Il passaggio alla label americana compromette autenticità e verve della band, che cura la produzione del sophomore insieme a Nis Bysted, sfruttando le nuove risorse per affinare il sound e affilare i coltelli (la band ha letteralmente aggiunto al proprio merch dei coltelli brandizzati). Solo 28 minuti per tanti brani degni di nota, ispirati anche dal pensiero di Bataille e Genet, tra cui c’è senza dubbio Morals, singolare reinterpretazione de L’ultima occasione di Mina. Come salmodia Elias Bender Rønnenfelt in In Haze, “this is for speed and youth”.
(Dino Nangelo)

32. Suuns – Images du Futur

Il krautrock non è mai morto anche se ormai i tedeschi non ne detengono più l’esclusiva. Il secondo album dei canadesi ci trascina in un climax ascendente che parte dal buio. Powers of Ten apre con un sound cupo e tagliente, chitarre affilate e velocissime e ritmi sincopati. La futuristica 2020 riprende il controllo con un sound più spigoloso e preciso fino ad arrivare alla morbida Elie’s Dream. L’impressione è quella di un viaggio verso l’alto, verso la leggerezza, ci si arriva quasi volando tra note sicure e tocchi di electro. Una leggerezza che non rinuncia però alla tensione, presente in tutto l’album, fino alla chiusura con Music Won’t Save You, un titolo che racchiude il nichilismo dell’intero lavoro. Un cocktail prog/avant-garde dosato alla perfezione che hai voglia di riascoltare!
(Paola Simeone)

31. Fuck Buttons – Slow Focus

Il duo di Bristol batte l’ultimo colpo della propria carriera sviluppando ed arricchendo ulteriormente le trame: l’iniziale Brainfreeze è il ponte di collegamento tra il vecchio ed il nuovo, violenta e opprimente progredisce fino a raggiungere un climax esagerato, un’ascensione agli dei. Si aprono così mondi “lopatiniani” (Year of the Dog), incubi lucidi (Sentients) e nuovi mondi extra solari (Prince’s Prize), per arrivare così all’incredibile doppietta conclusiva: Stalker è un’altra progressione che via via diventa sempre più minacciosa e apocalittica, mentre Hidden XS chiude investendoci di un’effimera serenità falciata da muri striduli e acidi e una ritmica assordante. Slow Focus è un monolite glaciale, un simulacro di pace che viene devastato da un turbine di sintetizzatori e da droni bellicosi, una colonna sonora del mondo, mai così attuale.
(Gianluca Marian)

30. Oneohtrix Point Never – R Plus Seven

Salito alla ribalta della scena ambient ed elettronica internazionale nel 2011 col bellissimo Replica, Daniel Lopatin si conferma due anni dopo con un lavoro altrettanto valido e mirabile. Etereo, ipnotico, misterioso, surrealistico, sperimentale: nei suoi 43 minuti, l’album condensa alla perfezione tutte le caratteristiche principali che hanno reso il progetto del musicista statunitense uno dei più originali, peculiari e influenti dell’ultimo decennio. Immergervisi anima e corpo è una vera esperienza totalizzante.
(Vittoriano Capaldi)

29. James Blake – Overgrown

Acclamato seguito del self-titled di debutto, è questo il lavoro che consacra il producer britannico sull’altare del nu soul. Non è una considerazione a freddo: al sophomore viene riconosciuta sin da subito la peculiarità di aver trovato una strada tutta nuova, confezionando una sorta di dubstep emozionale che nasce dalle due facce di James Blake. Il clubber e l’introverso, all’apparenza speculari e inconciliabili, danno vita a un’elettronica minimale che incornicia alla perfezione la ritmica gospel e il cantato angelico, in brani instant classic come Retrograde.
(Maria Pia Diodati)

28. Arctic Monkeys – AM

È il 27 febbraio 2012 ed io sono ancora tra i banchi di scuola quando esce R U Mine, primo estratto ad anticipare l’attesissimo nuovo album della band capitanata da Alex Turner, che seguivo sin dall’esordio grazie alla magia di internet e di MTV. Un videoclip in bianco e nero, in cui la band esce fuori sotto altre vesti, più mature, più decise, e fa quasi strano assistervi. Questo è l’album della svolta che spacca a metà la schiera di fan ma che, in un modo o nell’altro, è il segno di un’era che cambia e sì, anche le scimmie di Sheffield crescono.
(Federica Finocchi)

27. Ovlov – Am

Melodie irresistibili, chitarroni prorompenti, copertina a metà tra shoegaze ed emo, atmosfere lo-fi: come potrei non amare follemente questo lavoro? Il debutto della band statunitense è commovente e abbacinante nella sua capacità di unire orecchiabilità e rumore, ed è certamente uno degli esempi più fulgidi di quanto il santino di J Mascis sia sempre presente nel portafogli di tanti musicisti indie rock di ieri e di oggi. Scegliere un solo brano da un disco che di fatto non presenta cali è impresa ardua, ma, se proprio dovessi farlo, direi The Great Alligator: quella coda strumentale immersa nelle distorsioni vi farà piangere di gioia.
(Vittoriano Capaldi)

26. Daft Punk – Random Access Memories

Si, lo so, è un disco che segue l’andamento di una sinusoide, pieno di alti e bassi, soprattutto nella parte finale, ma è innegabile che alcuni pezzi ci siano ormai entrati nella pelle e abbiano inciso irrimediabilmente le nostre ossa (per citarne alcuni, Get Lucky, Give life back to music, Instant Crush e Giorgio by Moroder. Musica che ci ha fatto ballare, sognare e vagare con la mente. Altri brani hanno acquisito ancora più significato nel corso del tempo. Touch è la colonna sonora scelta dai Daft Punk nel video intitolato “Epilogue”, con il quale a febbraio 2021 gli artisti francesi hanno detto addio al loro progetto. Non potrò mai dimenticare l’immagine di quell’orizzonte sconfinato, di quel deserto torrido e minimalista, e di quella minuscola figura umana che si avvia a passo deciso verso una nuova alba di luce. “Home, hold on, if love is the answer, you’re home”. Ci serve davvero sapere altro, oltre a questo?
(Maria Petracca)

25. The World Is a Beautiful Place & I Am No Longer Afraid to Die – Whenever, If Ever

Album cardine dell’emo revival di inizio anni ’10, che ne rappresenta un po’ l’anima più libera e sperimentale, prendendo spunto tanto da American Football e Mineral quanto da Neutral Milk Hotel e Arcade Fire. Da sempre un collettivo più aperto che mai, i TWIABP di questo disco sono in dieci e si divertono a mischiare chitarre, basso e batteria con synth, trombe, violoncello, qualunque cosa possa dare supporto alle tremolanti voci di Thomas Diaz e David Bello che claudicanti cantano di presenti incerti, ansia e inadeguatezza nel grande schema delle cose. Un tuffo nell’ignoto, che sia la limacciosa acqua verde della cover o un futuro che già nel 2013 sembrava nerissimo.
(Sebastiano Orgnacco)

24. These New Puritans – Field of Reeds

Davanti alle produzioni dei gemelli Barnett anche i più incalliti incasellatori hanno alzato le mani, messi in crisi dalla loro naturale vocazione all’esplorazione in un tracciato nasce dall’art rock di casa propria per dirigersi nel tempo verso i lidi più disparati. Ineffabilità decretata definitivamente da Field of Reeds, terzo album accolto sin da subito con entusiasmo dal pubblico (e con abuso di “post-qualcosa” dagli addetti ai lavori). L’ennesima sterzata li lancia in traiettorie neoclassical: orchestrazioni ascendenti, dai ritmi spesso slegati, irrompono per placarsi poi in parentesi minimali e sussurrate, in composizioni che vivono tanto di strumentazione tradizionale quanto di rumorismi sintetici e destrutturazione. Ma ecco che in due righe ho aggiunto già abbastanza supercazzole a quelle dette dal 2013 ad oggi su di un album ormai di culto. (Ri)ascoltatelo, perché sì.
(Maria Pia Diodati)

23. Tim Hecker – Virgins

Album che, per la prima volta nella sua carriera, vede l’artista canadese registrare dal vivo con un ensemble, per mixare successivamente parti di queste sessioni, dando vita all’ennesima perla della sua discografia. Pianoforte, fiati e synth che si uniscono in modo ora discordante ora fluido, linee melodiche sfocate, suoni impalpabili, magistrali stratificazioni. Virgins miscela sapientemente carattere descrittivo e incursioni sperimentali, è un lavoro incredibilmente denso ma allo stesso tempo arioso dove ogni singolo dettaglio è al servizio di una macrostruttura imponente ma delicata. Disco ineludibile per ogni lounge bar dell’altrove (che sogno) che si rispetti.
(Tony Mistretta)

22. Queens of the Stone Age – …Like Clockwork

Dopo la sbornia dei primi tre indimenticabili album, i QOTSA si erano un po’ adagiati, complici anche dei lavori in cui l’ispirazione non era più al massimo e gli intenti non così a fuoco. Con tali premesse, …Like Clockwork avrebbe potuto essere un altro episodio “minore”, l’ulteriore segnale di un declino evidente, e invece Josh Homme e soci tirano fuori un disco fresco, stratificato, raffinato e sentito. Un vero tocco di classe contraddistingue il riff irresistibile di I Sat By the Ocean e la bellissima I Appear Missing, ma, se volete davvero sorprendervi, aspettate la title track finale: eh già, Homme riesce anche a farvi venire il magone.
(Vittoriano Capaldi)

21. Julia Holter – Loud City Song

Mezzo concept basato su un musical degli anni 50, l’altra metà nata da una riflessione sul nostro rapporto con il rumore nelle grandi città. Sono questi i due perni su cui si basa Loud City Song, l’album della consapevolezza di Julia Holter, il debutto su Domino Records, il primo vero abbraccio con il “grande” pubblico. Le luci al neon flickerano, il fumo esce dai tombini, l’aspetto della città è quello arrugginito e decadente delle metropoli uscite direttamente dalla Nuova Hollywood, e il disco ci accompagna come perfetta colonna sonora fatta di clangore di lamiere, turbinio di persone nelle strade e infinite notti di attesa, languore e mistero. Elegante, avventuroso, divertente: questo album è una corsa notturna in un taxi dal quale non si vuole più scendere.
(Sebastiano Orgnacco)

20. Teho Teardo & Blixa Bargeld – Still Smiling

Da comuni origini industrial, Blixa e Theo si incontrano in un progetto che mette insieme la vocalità espressionista del primo e le aperture musicali visionarie del secondo. Un lungometraggio immaginario in cui coesistono lingue diverse (Mi scusi è un piccolo capolavoro di ironia e riflessione sul linguaggio, tra italiano e tedesco) e suoni mitteleuropei. Affinità elettive che danno vita a un disco affascinante, lontano dalle logiche di mercato e per questo non condizionato dalla prova del tempo.
(Antonio Azzarone)

19. Thee Oh Sees – Floating Coffin

Nel mare magnum delle uscite della band di John Dwyer, questo lavoro spicca per melodie accattivanti, sonorità robuste ed estetica sbarazzina. Il travolgente garage psichedelico del gruppo californiano trova la propria sublimazione in pezzi irresistibili come I Come From the Mountain e Strawberries 1+2, ma la palma di vero capolavoro dell’album non può che spettare a Toe Cutter – Thumb Buster, forte del riff più clamoroso e badass del 2013 – ma che dico del 2013, degli ultimi dieci anni! Chi voglia approcciare la sterminata discografia della band dai mille nomi (ma anche la scena garage/psych contemporanea presa nel suo insieme) non può davvero prescindere da questo album.
(Vittoriano Capaldi)

18. The Flaming Lips – The Terror

Dopo la trilogia (The Soft Bulletin, Yoshimi Battles the Pink Robots e At War With the Mystics) con cui Wayne Coyne e soci si insediarono stabilmente nel panorama musicale internazionale – prodotti major, reparto eccentrici – a un tratto le vicende personali di Coyne (la fine di una lunga relazione sentimentale) determinano un inaspettato cambio di rotta, che deve rendere conto a un’urgenza espressiva prima che alle logiche commerciali. The Terror è un unico lungo trip di psichedeliche cacofonie stranianti che si dissolvono in nebulose sintetiche, diametralmente opposto al mood da crowd-surfing nel gonfiabile. È una forma tutta nuova quella che assumono qui i Flaming Lips, una delle tante che hanno caratterizzato la carriera di una band che da sempre trae linfa vitale proprio dal mutamento.
(Maria Pia Diodati)

17. King Krule – 6 Feet Beneath the Moon

Quando Archy Marshall pubblicò il suo disco d’esordio era un semisconosciuto diciannovenne dalle sembianze innocue, che stupì tutti con il suo fare da navigato soulman. I 14 brani contenevano, in una forma primordiale ma già efficace, tutti gli elementi che King Krule avrebbe rimaneggiato e perfezionato nei lavori successivi. Piglio punk, ammansito da sonorità jazz in formato dubstep, a loro volta rese tenebrose da atmosfere post-punk e da un songwriting d’autore, impreziosito da un tono di voce ruvido e baritonale. Mentre parte dei suoi/nostri coetanei era tre metri sopra al cielo, il disilluso e precoce Andy sprofondava 6 Feet Beneath The Moon portandoci tutti con sé.
(Dino Nangelo)

16. Atoms For Peace – AMOK

Astratto e psichedelico, l’unico (per ora) album del supergruppo in cui militano Thom Yorke, Flea dei Red Hot Chili Peppers e Nigel Godrich che è anche produttore del disco. Brani elettronici, spaziali, suoni avvolgenti e marziani, voci angeliche che sembrano arrivare da un altro universo. Angolare e suadente, strati su strati di sperimentazioni sonore. Si libra leggero oltre l’atmosfera terreste, poi ripiomba giù in un caleidoscopio di melodie e ritmi destabilizzanti. Album spettacolare che conferma Yorke come il genio del rock contemporaneo.
(Federico Longoni)

15. Touché Amoré – Is Survived By

Sopravvissuti al breakthrough di Parting the Sea Between Brightness and Me, sopravvissuti all’ansia di dover dare un degno successore all’album che catapultò i losangelini tra i nomi più in evidenza nel mix di hardcore melodico e screamo che si era rinvigorito sull’inizio dei primi anni ’10. Al terzo album lo spettro sonoro si amplia, le raffiche che prima duravano un minuto scarso, ora si concedono al dualismo tra le chitarre di Nick Steinhardt e Clayton Stevens con un respiro sempre malinconico, ma più riflessivo. Jeremy Bolm urla le sue fragilità tempestato dalle onde emotive guidate spesso e volentieri dalla creatività di Elliot Babin. Un disco fragile, umano. Vero.
(Daniel Molinari)

14. Deerhunter – Monomania

Quest’album arriva in un momento cruciale per i Deerhunter: è quello che segue l’acclamatissimo Halcyon Digest di tre anni prima, che per molti rappresenta l’apice dell’indie rock di quegli anni. Con Monomania invece la band di Bradford Cox sorprende tutti con un lavoro più immediato, sporco ed estemporaneo, con tanto noise e tanti spigoli. Una delusione per molti all’epoca, Monomania è stato (e va) capito meglio col tempo, visto come opera singola piuttosto che come il seguito di qualcosa.
(Claudia Viggiano)

13. Savages – Silence Yourself

Abrasive, post punk, dark. Patti Smith e Ian Curtis dialogano nella vocalità della leader Jehnny Beth. Il disco d’esordio per questa band al femminile è un lavoro tiratissimo che si ascolta d’un fiato, con lampi oscuri e sensuali, Waiting for a Sign e la conclusiva Marshal Dear su tutte.
(Antonio Azzarone)

12. Low – The Invisible Way

Ogni volta che ascolto questo disco mi viene il magone. In quello che è l’album più folk del trio di Duluth, Mimi Parker è l’assoluta protagonista, e pensare che mai più sentiremo la sua voce cristallina e magnifica mette tanta tristezza. The Invisible Way è un album stupendo, densissimo anche se semplice negli arrangiamenti e nella produzione affidata a Jeff Tweedy dei Wilco: a mio parere, il primo passo nell’ultima era della band, quella più sperimentale e più minimale. Un album dal cuore grandissimo, un disco di magnifica bellezza.
(Federico Longoni)

11. Daughter – If You Leave

Disco d’esordio di una band che il proprio indie-folk raffinato e di classe ha saputo cesellare brani morbidi e delicati, ma anche pregni di una densissima malinconia pop. La voce in punta di piedi, le chitarre sfiorate con i polpastrelli, la batteria mai invadente, i suoni elettronici che donano colore a dei brani dipinti con mille sfumature di grigio. Un album che lascia il segno, che commuove e riscalda, che sa essere confortevole ma che sa anche tirar fuori tanto dolore. Ormai If You Leave è un classico del suo genere, e dopo dieci anni siamo qui ancora a ribadire quanto quest’album abbia solcato le nostre anime dolenti.
(Federico Longoni)

10. Chelsea Wolfe – Pain is Beauty

Dolore, sofferenza, malinconia, angoscia: tutti sinonimi di bellezza. Stati d’animo che ritroviamo in tutti i lavori della prima parte della carriera della cantautrice statunitense, che in questo suo terzo album mischia le carte in tavola alternando atmosfere goth e folk a fasi new wave e synth pop da far saltare su per la sedia, con echi psichedelici che prepotentemente tornano ad affacciarsi. Il tutto condito dal suo particolare timbro vocale che prima inganna, poi rapisce e infine uccide lentamente. Nell’oscurità della luce… e nel chiaro delle tenebre.
(Federica Finocchi)

9. David Bowie – The Next Day

Dopo dieci anni di silenzio, Bowie esce a sorpresa con questo lavoro che fin dalla copertina gioca tra i richiami al passato – ai settanta berlinesi – e lo sguardo a un giorno nuovo. Prima di Blackstar, ultimo capitolo della storia, David Bowie è ancora un passo avanti a tutti e noi siamo rapiti da Tilda Swinton nel videoclip di The stars (are out tonight).
(Antonio Azzarone)

8. Jon Hopkins – Immunity

Torno ciclicamente ad ascoltarlo, perché dopo dieci anni rimane uno degli album più rappresentativi del nostro tempo. Suoni rarefatti e sintetici, suoni dallo scheletro minimal-techno ma con un’anima ambient eterea e aliena. Jon Hopkins ha composto l’album perfetto, magico e notturno, vellutato e misterioso. Ritmo e melodia si fondono, avanguardia e classicità si avvinghiano. Un capolavoro senza tempo.
(Federico Longoni)

7. The National – Trouble will find me

Più lungo e stratificato degli incensati Boxer e High Violet, questo è l’album che consacra definitivamente Matt Berninger e soci allo status di grande band, quella che diventa headliner dei festival e riesce ad entrare negli ascolti davvero di tutti. Merito di una scrittura sopraffina e di una tracklist più lunga, perfetta nel bilanciare i momenti stratificati (I Should Live In Salt, Don’t Swallow The Cap), quelli più aggressivi (Graceless, Sea Of Love) e le tante, tantissime ballad memorabili (Pink Rabbits, This Is The Last Time, I Need My Girl).
(Sebastiano Orgnacco)

6. Arcade Fire – Reflektor

Ispirato dai ritmi tradizionali haitiani, dal mito di Orfeo e Euridice, dai Talking Heads, dalla DFA e James Murphy (che qui produce pure), Reflektor è il definitivo balzo in avanti del collettivo canadese. Fuori dagli schemi e dalle impalcature della gabbia indie folk dei primi tre dischi, le sue 13 tracce spaziano dalla dance all’AOR fino al reggae, trovando apici assoluti nella splendida title-track (che ospita pure David Bowie), nella commovente Afterlife e nella doppietta Awful Sound / It’s Never Over, che bene riflette le due anime della band e la chiave di lettura di un disco tanto ambizioso quanto bellissimo.
(Sebastiano Orgnacco)

5. Kurt Vile – Wakin on a Pretty Daze

Ci sono album che sembrano fatti apposta per accompagnarti in un lungo viaggio: qui le chitarre di Kurt hanno il potere di regalarti la sensazione di star percorrendo una highway polverosa e cinematografica col vento tra i capelli anche quando in realtà sei alla guida di una Panda fermo in coda sulla tangenziale. Se a distanza di dieci anni l’alt country di Wakin on a Pretty Daze continua a suonare così bene è proprio perché è nato immune ai trend. È il lavoro di un musicista che serafico prosegue nel fare ciò che gli riesce meglio: dilatare tempo e spazio coi suoi riff avvolgenti e la sua autenticità.
(Maria Pia Diodati)

4. Deafheaven – Sunbather

Pink is the new black: era il 2011 quando George Clarke e Kerry McCoy si erano fermati al capolinea del tram della linea N Judah, eppure solo due anni più tardi troviamo il duo acceccato dal bagliore di un sole dalle tinte rosacee che frastorna, travalica i confini e proietta la band californiana – insieme alla Deathwish di Jacob Bannon e Tre McCarthy – nell’empireo della musica estrema. Non è black metal. O meglio, non è solo black metal: Sunbather è il catalizzatore di riverberi vertiginosi dal sapore shoegaze e di urla che si dilatano dentro spazi enormi, ricordando melodie screamo e robuste escalation post-rock. Un turbine che dura quasi un’ora, tra una citazione di Kundera, i testi criptici di Clarke e cambi ritmici martellanti, consegnandoci un disco che segnerà l’anno zero della band: “I’m dying. Is is blissful? It’s like a dream”.
(Daniel Molinari)

3. My Bloody Valentine – M B V

Per titolo, un acronimo che basta alla leggenda di uno dei gruppi fondatori dello shoegaze. A 22 anni di distanza da Loveless, Kevin Shields & Co. ci regalano un terzo album e con esso il ritorno più atteso dell’anno, anzi – è il caso di dirlo – da anni. Il predecessore era stato non solo l’album della loro consacrazione: incensato da critica e pubblico, Loveless era asceso al ruolo di pietra miliare del genere. Quando un album raggiunge un tale livello di culto, ci si chiede una cosa soltanto: arriverà l’artista a superarsi o almeno ad eguagliarsi? M B V non disattende le aspettative e conferma il marchio di fabbrica, un suono etereo e ossessivo al quale la band ci ha abituati, con delle melodiche eteree fatte di stratificazioni di chitarre liquide e ritmi ripetitivi, quasi ossessivi. Un album che è una deflagrazione lisergica, la dichiarazione d’intenti di un gruppo che resta straordinariamente fedele a sé stesso e che ci piace proprio per questo.
(Paola Simeone)

2. Boards of Canada – Tomorrow’s Harvest

Come potevo non rendere omaggio ad uno dei dischi che ha accompagnato i miei primi tragitti casa-lavoro, guidando in solitudine, immersa in quell’atmosfera surreale che mi faceva dimenticare – anche se solo per un’ora – la quieta ripetitività della mia routine? I freddi colori del cielo raffigurato in copertina lo descrivono meglio di mille parole: un album etereo, ipnotico e gelido in cui tuffarsi di testa e sperare di non riemergere.
(Francesca Prevettoni)

1. Nick Cave & the Bad Seeds – Push the Sky Away

Il primo album firmato Bad Seeds senza Mick Harvey, la prima versione del Nick Cave in totale simbiosi con Warren Ellis. Un disco che rilascia tensione appena sotto l’apparente patina di calma, che turba senza far rumore, volutamente sottovoce. Eppure è proprio quel briciolo di inquietudine che lo rende un capolavoro di semplicità complessa. E poi lì, incastonata come un diamante, c’è quella canzone meravigliosa che si intitola Jubilee Street, la storia di una prostituta in disgrazia e probabilmente ingravidata dallo stesso io narrante: una riflessione sui doppi standard e sulle differenze tra l’immagine costruita agli occhi dei molti e le reali azioni, il tutto con una tensione misurata che viene poi rilasciata nella coda del brano, come alla fine di un vero e proprio orgasmo controllato. Alcuni non hanno apprezzato Push the Sky Away, noi ne amiamo la spontaneità e la coerenza con i turbamenti di un uomo, allora 56enne, che avrebbe affrontato in seguito dolori più grandi. Un’interiorità messa a nudo, come nuda è sua moglie Susie Bick in copertina, avvolta solo da un fascio di luce. C’è un cielo da spingere via per creare spazio vitale; superficie per l’essere, campo libero per forme pure di libertà.
(Dario Damico)

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Last modified: 22 Novembre 2023