Silvio Don Pizzica Author

Era così tanto un bravo ragazzo. Poi ha conosciuto la trap.

Non Violentate Jennifer – Non Violentate Jennifer Ep

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Non so se vi è capitato di dare una scorsa a quell’articolo di tale Mr. Tambourine (Claudio Delicato, credo sia il suo vero nome) pubblicato sul blog ciclofrenia.it. L’intento era quello di punzecchiare l’indie italiano sviluppando e cercando di dimostrare la tesi che, per costruire un disco di sicuro successo, è sufficiente seguire alcune semplicissime consuetudini. Tralasciare completamente l’aspetto musicale, parlare solo di cose inutili, essere completamente incapaci a suonare, non cantare ma parlare, scrivere canzoni tutte uguali e ideare un particolare curioso completamente a caso. Lasciamo stare il fatto che il testo finisce per essere grossolano e inconsistente, almeno ai miei occhi, tanto quanto tanta della musica che proprio l’articolo aggredisce (mettere nel pentolone i Massimo Volume è oltretutto intollerabile). In realtà, qualche pretesto stimolante lo fornisce. Soprattutto offre a me lo spunto per ciarlare dell’Ep dei Non Violentate Jennifer, trio composto da Zà (voce, piano, organo), Max (basso) e Al Bin (batteria). Partiamo da un punto che manca nell’articolo. Inserite nel nome della vostra band quello di una donna. Piacerà, anche se qualcuno, come il sottoscritto, comincerà una bestemmia lunga fino al 2025 perché non se ne può più di sentire nomi del genere. Marta Sui Tubi, Christine Plays Viola, Non Voglio Che Clara, Valentina Dorme, ecc… (la lista è veramente lunga). Mai che si legga un Bruno Caga Nei Prati, Fausto Scoreggia In Chiesa, Ubaldo Fa Sesso Anale Passivo. Non Violentate Jennifer è, come posso dire, già un modo per partire con il piede sbagliato. Ora, può anche essere vero che il loro sia solo un omaggio al revenge movie I Spit on Your Grave, diretto da Meir Zarchi nel 1978, ma che ne sanno i poveri mortali di queste cose? Lasciamo andare il nome e passiamo alla musica. Quanto questa musica può portare al successo?

Una band che si offre con un Ep cosi disadorno, con poche notizie che circolano intorno, che sembra una bestia difficile da scovare, forse vuole proprio puntare tanto sull’aspetto musicale a dispetto del problema iniziale di cui sopra (più sopra, verso l’inizio). E il punto uno va a farsi fottere. I testi non sono certo banali e semplici e di sicuro non parlano di cose inutili; non puntano su ironia o leggerezza e anzi hanno bisogno di una certa dose di attenzione per essere elaborati oltre il semplice legame musicale con le note. Anche il punto due va a puttane. Sulle loro capacità di suonare è difficile esprimersi. Non sembrano fenomeni ma nemmeno incapaci. Il punto è che la musica si sviluppa per linee estremamente semplici (come ascolterete, questa è la sua forza) e dunque è arduo capire quanto siano validi. Quello che conta è che fanno bene quello che devono fare. Cazzo, se ne va anche il punto tre. Non cantare, ma parlare. Qui, forse ci siamo, perché il modo di cantare di Zà molto capovillano è uno strumento che si piazza in una terra di mezzo che ha anche più probabilità di successo dello spoken word tipico ad esempio di Emidio Clementi (Massimo Volume) o Max Collini (Offlaga Disco Pax) che nel loro modo di vocalizzare hanno trovato il principale ostacolo all’apertura verso un pubblico più copioso. Il successo per Non Violentate Jennifer si avvicina? Basta questo? Purtroppo le canzoni, per quanto mantengano una linea guida abbastanza precisa, non suonano tutte uguali e qui non ci siamo proprio. Infine, per il particolare completamente a caso, non mi sembra di trovare nulla. Forse….anzi…no. Niente.

Volete un bilancio, prendendo per buone le regole sopra indicate? Questa band è molto lontana dal successo. Non hanno niente a che vedere con i compatrioti I Cani, Lo Stato Sociale, Dente, Brunori e compagnia delle indie.

I quattro pezzi sono invece un’interessantissima miscela di sonorità psichedeliche sixties, pesantezza tipica stile di Nick Cave/Nick Drake, energia alla Jesus Lizard nelle loro virate meno estreme, slowcore folk blues come i Black Heart Procession (la band alla quale più somigliano), intermezzi pseudo sintetici, affascinanti note di piano e ritmiche ossessive caratteristiche di un certo post punk vecchia scuola. “Terza Persona”, “Nel Paese Degli Umani”, “Tutto Finisce All’Alba” e “Naufragheremo” sono il perfetto punto di partenza per una band che voglia fare un grande disco, oltre il successo. Quei gioielli che conoscono in pochi e ti fanno sentire figo perché delimitano la differenza tra te e il resto della gente che hai intorno. Forse troppe sono le influenze e poche le idee innovative ma per tutti i quasi diciassette minuti dell’Ep si respira una cupa aria trascinante che ti mette voglia di ascoltare e stare male, ma di quel male di cui abbiamo bisogno per stare bene. È  una nebbia misteriosa, Non Violentate Jennifer. “È un grido rivolto al mondo, è una preghiera, è la richiesta che il mondo si fermi ma già consapevole che questo non accadrà, è una minaccia, un ultimatum alla natura distruttiva dell’uomo, è una condanna ai pochi uomini che si contendono il potere piegando le masse ad una colpevole forma di schiavitù involontariamente volontaria. Non Violentare Jennifer è un urlo disperato che non può fare niente da solo. È un canto di guerra che insieme agli altri può fare tutto”.

Non avranno successo, sono sicuro, perché il pubblico che ti porta al trionfo è un pubblico di merda. Tante delle puttanate dette sopra (più sopra, quasi all’inizio), se ci pensate, sono vere. Fare buona musica non porta alla fama. Ma credo che la cosa non interessi i Non Violentate Jennifer più di tanto. Del resto, ascoltate l’Ep e ditemi se ci vedreste bene un tipico ascoltatore de I Cani, a un concerto dei NVJ?

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Pino Scotto – Codici Kappaò

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Avviso importante!!! Questa recensione non parla di musica, Pino Scotto non parla di musica, nessuno parla di musica perché della musica non frega un cazzo a nessuno!
Pino Scotto è un enorme generatore di luoghi comuni, questa è la prova. Provate a tirare fuori il suo nome e tre saranno le attente valutazioni che verranno fuori. Non una di più. “È un pagliaccio buono a nulla”, oppure “è un mostro televisivo” o ancora “in passato è stato un grande rocker”.

Quale sia la realtà dei fatti lo sa, forse, solo lui stesso. Io posso unicamente dirvi come la penso.  Non lo trovo un clown bravo in nonnulla. In fondo, per suonare, strimpella meglio di tanti sbarbatelli che mi è capitato di sentire, di quelli che si prendono troppo sul serio, non sanno accettare le critiche e sono convinti che la loro sia la migliore robaccia partorita dal culo dell’Italia negli ultimi ottomila anni. Forse è piuttosto un burlone che è stato molto bravo a vendere in tivù una macchietta che con la musica ha meno a che fare di quello che vuol farci credere. Pino Scotto se la prende con tutto un universo mediatico che in realtà è il suo cosmo (almeno in piccola parte, visto che quando ha provato a fare passaggi più complessi, come da Chiambretti, la sua figura di “big crazy” è risultata non solo ridimensionata ma addirittura compassionevole. Totalmente a disagio, senza capacità di esprimere concetti pregevoli e sagaci e senza l’attitudine ad essere spassoso come invece accade a casa sua). Da un punto di vista sociologico (sottolineo la parola sociologico) non vedo molta discrepanza tra lui, Sgarbi, Er Mutanda, Richard Benson, Tiziano Crudeli, Pappalardo, Paola e Chiara e via dicendo. Tutti non fanno altro che dare alla gente quello che la folla sembra volere. Il problema della tv è che quando parla alla moltitudine di zombie non parla a individui, che magari la Tv la vedrebbero anche, se come critici (d’arte o musica), esperti del cazzocheglipare o musicisti, ci fossero propriamente le migliori menti di un paese che non voglio credere cosi stupido. Ma la tv, che ormai si è arrogata il diritto supremo di demolire la nostra bella patria dall’interno delle sue cervella, parla alla moltitudine come mero dato auditel e sa bene che una rissa tra Sgarbi, Er Mutanda, Richard Benson, Tiziano Crudeli, Pappalardo, Paola e Chiara e magari anche Pino Scotto, raggiungerebbe un picco di pubblico che mai si sarebbe potuto avere, non so, con Gottardo Ortelli che ci parla di Concetto Pozzati, con Carmelo Bene, con Lester Bangs, con Gli Area, Con Carlo Emilio Gadda, con una qualunque delle menti più brillanti che abbiano calpestato la nostra terra.
Plausibilmente Pino Scotto sa quanto la moltitudine sia stupida e sa quanto poco lui possa dare ancora alla musica, sia in ambito compositivo che in ambito critico. È per questo che decide di non fare assolutamente il minimo sforzo per dire o almeno pensare qualcosa di perspicace. Si limita a offendere tutti, si limita a vomitare luoghi comuni, si limita ad apparire (male oltretutto) invece che essere.
Il suo disco, Codici Kappao più il Live…Rock For Belize, non fa nient’altro che mettere in musica il personaggio che, costruito o meno, non è niente di più di ogni altra merdata vi caghi quel cubo del cazzo chiamato Tv.
Ora ti starai mangiando le mani perché so che vuoi dirmi. “Ma Pino ha fatto la storia del Rock italiano”.
Ma cerca di essere serio. Ha cantato con i Vanadium e poi ha intrapreso una carriera solista i cui apici sono al livello di un Vasco Rossi da ”come porti bene quei Jeans” (non ricordo il titolo di quella stronzata). Questa è la nostra storia?  E Pfm, CCCP, Banco Del Mutuo Soccorso, Battiato, Picchio Dal Pozzo, Area, Csi, Massimo Volume, Faust’o, erano solo dei poveri coglioni, giusto?
Adesso prova a chiedermi che cazzo di recensione è questa, visto che non parla di musica. Ti rispondo velocemente. Primo, ti avevo avvisato. Secondo, il tuo caro Pino parla veramente di musica nei suoi inutili monologhi? Ho semplicemente dato a lui quello che lui dà agli altri. Il nulla. Per una volta faccio io lo stronzo. Scrivo il suo nome e la prima cosa che vedo è il link “Pino Scotto Sbrocca di brutto!! da nn perdere!”. Se scrivo Demetrio Stratos mi compare “cantare la voce”  (vi consiglio di dargli uno sguardo). Capite dove è la differenza?

Per la cronaca, non mi si dica che non ho ascoltato gli album. L’ho fatto quattro volte, e, anche se il live riporta sulla retta via il niente del lavoro in studio, siamo ad un livello di banalità sconcertante. Classico Hard Rock con una spruzzata di southern comfort e qualche collaborazione inutile (con Bennato e i Modena City Ramblers) che quantomeno non è fastidiosa come quella con J-Ax.
Se mai Pino Scotto dovesse leggere queste mie parole, so già cosa direbbe. “Chi cazzo è questo”,” Sei una merda”, “Ti devi vergognare, coglione”, “vai a fare in culo, stronzo” e altre eleganze simili. E la cosa confermerebbe solo tutto quello che ho detto. Lui deve essere cosi perché voi lo volete cosi.
Io però me lo voglio immaginare sorridente, mentre a labbra socchiuse biascica un “cazzo, mi ha sgamato” e intanto ascolta Moving Pictures dei Rush e si gratta le palle. E forse allora potrei anche essere felice di aver sbagliato, almeno un po’, perché di cervello e coglioni ne ha più di quello che vuole farci credere.

 

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Tablo – Il Circolo Vizioso

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Ormai, da qualche settimana, è ufficialmente partita la nuova caccia alle streghe collezione autunno/inverno duemiladodici. Questa volte le fattucchiere designate allo scomodo trono in fiamme, hanno i volti di giovani e meno giovani che hanno fatto l’errore di suonare qualcosa che qualcuno ha deciso, un maledetto venerdì di tanti anni fa, di chiamare “Indie”. Tutto ha avuto inizio con la proclamazione dei vincitori del premio Tenco (per la cronaca sono Afterhours, Zibba, Enzo Avitabile, Francesco Baccini e Colapesce. Se volete i dettagli, andate su www.da un’altra parte.it) e di ulteriori premi come Le Targhe Mei (nuovamente Afterhours, Luca Sapio e Teatro Degli Orrori) e altri ancora, meno noti, venuti alla luce come Gremlins sotto la pioggia di polemiche.

È cosi che Umberto Palazzo comincia a prendersela con l’Indie su Facebook, Federico Gugliemi (Il Mucchio) se la prende con Lo Stato Sociale su Facebook, mezza Italia odia gli Afterhours su Facebook, l’altra mezza li incorona come il più grande gruppo italiano vivente su Facebook, chiunque, tranne qualche sfigato, si chiede “chi cazz è Colapesce?” su Facebook, tutti bestemmiano, urlano e si strappano i link su Facebook, Thegiornalisti se la prendono con tutti, da tempo, non solo su Facebook (qualche estratto: “I Verdena a scuola sono andati allo zoo di bergamo e il loro insegnante scimpanzè li ha cacciati via” o anche “Nessuno può ricordarsi una canzone dei tre allegri ragazzi morti. Ti puoi immaginare uno che mentre fa la doccia fischietta una canzone dei tre allegri?? E’ impossibile” altrimenti “Le luci della centrale elettrica ha creato una generazione di mostri analfabeti, ha spinto gruppi di tredicenni a scrivere musica senza che sappiano prima parlare, le luci sono il male”), nessuno, tranne me e qualche altro coglione, se la prende con pubblico e critica del cazzo che scambiano merda per nutella e, ancor più spesso, una scopata in culo per l’amore eterno su Facebook.

Insomma, il mondo è definitivamente alla fine. E Vasco è ancora vivo. Ormai anche le polemiche creano hype e ci si dimentica di una cosa tanto semplice, quando parliamo di musica. I dischi. E già!, verrebbe da dire, citando una delle massime espressioni filosofico esistenziali vascorossiane. Spengo Facebook e faccio la cosa più bella che ci sia. Tolgo la pellicola, apro un pezzo di cartoncino e metto su un album di un nuovo artista semisconosciuto.

Si fa chiamare Tablo (ma non è un furgone da lavoro FIAT) e qualcuno lo avrà forse già provato tre anni fa quando, sempre per Mizar Records, pubblicò Non Mi Senti, album che decantava il tragicomico amore in declino. Il passo successivo alla fine dell’affezione è il nuovo innamoramento, che diventa il fulcro di questo Il Circolo Vizioso, raccontato come un dialogo con la propria esistenza. Citando lo stesso autore “Il titolo nasce dal concetto di disco come punto cardine di un circolo vizioso a cui le canzoni disilluse e serene si abbandonano. Perché è bello poter vedere un disco principalmente come investimento emotivo”. Tutto molto bello. L’album, inoltre, è stato registrato in una piccola casa di legno, sulle rive del lago d’Idro chiamata “La Miopismo Studio” solo con strumenti pre anni ottanta. E ancora Tablo, mi fa sapere che “durante le pause tra una take e l’altra si guardava il lago. Molto spesso ci accompagnava un calice di vino rosso. Non si ascoltava quasi mai musica ma quando succedeva era Nick Drake a farci compagnia”. Lo so che starete pensando “figa niente, è?” oppure un più maicbongiorniano “Allegria!!!” ma cerchiamo di essere seri.

L’album è particolarmente incentrato sugli aspetti emotivi della musicalità e carca di unire la nostalgia di un sound retrò che scava nella vita precedente del Pop italiano, con un approccio moderno, semplice e non troppo ridondante. Il brano d’apertura “Prologo”, tutto strumentale, richiama le atmosfere Slow/Sadcore dei Red House Painters con l’aggiunta di un violino tanto U.S.A. Post Rock stile Clogs. Solo con “Sei Stata Gentile” entra in campo la voce di Nicola Tabellini, che di primo impatto può ricordare quella del più famoso Max Gazzé. Un brano delicatissimo, con un testo infantile come l’amore, che si arricchisce con un eccelso arrangiamento Jazz. In “Tentazioni” la musica prende tutta un’altra strada. L’atmosfera si fa più languida e le parole di Tablo, si avvicinano per profondità e metodo a quelle di un altro grande del nuovo cantautorato italiano e cioè Fabio De Min dei Non Voglio Che Clara, di certo la band che meglio s’accosta alla proposta di questo Il Circolo Vizioso. In “Tu”, voce e chitarra sembrano intonare una ninnananna ma presto il brano si risolve in un classico pezzo Pop, molto diretto, senza eccessi dove niente urla ma tutto è soffice come una carezza. “Un Viaggio”, “Il Matrimonio Di Aurora” e “Stella” rafforzano lo stile di Tablo, ne rendono l’impronta indelebile, marchiano a fuoco, insieme ai brani precedenti e grazie all’aiuto del pianoforte a muro di Claudio Gurra, il contrabbasso di Osman Meyredi, il violoncello di Anna Ziliani e le percussioni di Simone Gelmini, uno stile forse non unico ma di certo intrigante. Pop cantautorale con arrangiamenti mai intemperanti, che a tratti si confonde con lo Slowcore più profondo ed empatico. Gli ultimi tre brani, “La Scala Morale”, “Parlami” e “L’Arrivista”, utilizzando la stessa formula, raccontano il contrasto quotidiano tra la determinazione dell’uomo e del suo volere e le irruzioni del caso che l’esistenza ci serba. Tablo ci ha confezionato un bel disco. Niente di nuovo, niente di alternativo. Sono solo canzoni Pop che parlano d’amore. È quello che fanno tutti, no? Parlare d’amore, per non parlare di sesso. La cosa bella è che Tablo lo fa meglio di tanta gente più nota, che per dire niente è pagata tanto.

 

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The Three Blind Mice – Early Morning Scum

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Che cosa vi aspettereste da una band che si presenta con una copertina cosi elegante (una donna che bacia, nutre o è imboccata da un corvo) patinata di rosso quasi nello stile The Smiths con un certo senso d’inquietudine in più, ma nello stesso tempo si manifesta con una foto all’interno tutto sommato abbastanza coatta, con i membri vestiti come Piero Pelù e compagni appena usciti da una quadriglia western? E cosa vi aspettereste da una band che pone tra le proprie influenze gente del tipo Elvis Presley, The Birthday Party, Lee Hazlewood, Nancy Sinatra, Nick Cave & The Bad Seeds, Einsturzende Neubauten, Tom Waits, Leonard Cohen, Johnny Cash, The Velvet Underground, The Sex Pistols, The Clash, Joy Division, The Jesus & Mary Chain, The Cramps e Gun Club? Forse qualcosa di brillantemente strampalato. Magari un mix di Rock’n Roll, Punk, Industrial, Country, New Wave, Post Punk, Voodoobilly e Dark. Vi piacerebbe vero?
Cosa vi aspettereste da tre topolini cecati?

Mi spiace deludervi ma quello che vi aspetta è molto più ordinario delle premesse ma attenti, la cosa non sminuisce certo il valore dei milanesi.
The Three Blind Mice nascono a Milano appunto, solo tre anni fa e cominciano il loro viaggio producendo un Ep in solo vinile distribuito in Europa dalla berlinese Pale Music. Nel 2010 muore Rowland S. Howard, storico chitarrista membro degli Young Charlatans, Boys Next Door, Tuff Monks, Crime & the City Solution, These Immortal Souls e soprattutto The Birthday Party, leggendaria band postpunkrockblues australiana che fu il trampolino di lancio del grande Nick Cave, e loro, da bravi e dinamici appassionati di musica, organizzano il primo concerto tributo proprio a Rowland S. Howard. Nello stesso anno, su invito di Phil Shoenfelt (Fatal Shore, Nikki Sudden (tra l’altro quest’ultimo ha anche lavorato nel Punk Blues di Kiss You Kidnapped Charabanc proprio con Rowland S. Howard) si esibiscono nell’esotica e affascinante capitale ceca e proprio nella repubblica di Praga, insieme ai Kill The Dandies! Inizieranno un tour che li porterà fino a Berlino. Le loro scorazzate per l’Europa insieme a Big Sexy Noise di Lydia Lunch e Gallon Drunk, passeranno per Lubecca prima di portarli nella nostra Italia. La sosta è breve e presto inizia un nuovo tour, stavolta con Dim Locator, proprio di Schoenfelt, sempre nell’amata Germania. In Italia riusciranno ad aprire i live di Hugo Race And The Fatalist e dei Woman, ma la loro dimensione europea si fortificherà l’anno successivo, con un nuovo tour in Repubblica Ceca, stavolta come supporto agli Slim Cessna’s Auto Club.

È ancora lo stesso quello che vi aspettate? Non vi saranno diventati odiosi? Non vi sembreranno mica dei tipi da “Io suono in giro per l’Europa, che cazzo ne sai tu”?
Lasciate stare tutte queste cazzate. Lasciate stare quel cuore cafonal chic trafitto da una spada, prendete il disco e ficcatevelo in dentro lo stereo. Lo Schaltraum Studio di Berlino e Pale Music presentano, Early Morning Scum. Ve lo presento io.
“Asphalt Jungle” parte carico a mille, in un Alt Rock stile Marlene Kuntz, senza però digressioni noise e soprattutto senza quel cantato alla Godano del tipo “oddio non ce la faccio, mi sono appena sparato una pera” ma anzi con una vocalità profonda, intensa e calda (quasi Dark Post Punk), che accresce l’atmosfera desertica (come nel caso dei primi Litfiba) della musica. Atmosfera che diventa ancor più accentuata nella successiva “Bug Under Glass” dove, anche grazie all’organo di Manuele Scalia (autore praticamente di tutti i testi e le musiche), si evidenzia l’influenza di Nick Cave, che nella testa dei quattro (per la cronaca Manuele Scalia voce e chitarra, Daniele De Santis chitarra, Matteo Gullotta basso e Matteo Quaranta batteria) deve aver piantato dei semi più cattivi che mai. Con “Devastation Town” fa il suo ingresso Chris Huges con i suoi piatti e le sue percussioni. Ancora un Alt Rock eccezionale dal sapore vagamente Tex-Mex ma soprattutto una somiglianza evidente, anche se i milanesi sembrano più veloci e meno tetri e gotici, con la creatura di Peter Murphy chiamata Bauhaus. Una sorta d’incontro tra il Southern Blues Rock statunitense e la Darkwave britannica. La ballata “Dust Devil” invece, tra i cactus e il deserto ci si fionda senza voltarsi indietro, in perfetto stile Calexico. In “Three Story Girl” cambia ancora il batterista. Stavolta tocca a Enrico Berton. Con “Knuckles”, altro brano a metà tra la follia australiana e il Post Punk della regina con un risultato tanto 16 Horsepower (vedi Clogger) il ritmo è cadenzato, ossessivo, senza vie di fuga, con quel cazzo di giro di basso (che so che vi ricorderà qualcosa che già conoscete) da brividi e le coltellate delle corde di Daniele De Santis a lacerarci pelle e ossa, Skin and Bones. Eccezionale “Golden Spiral Kill” (con l’ingresso di Tom Schwoll alle percussioni insieme a Hughes) che lascia trasparire le influenze Punk seventies. Tornano le atmosfere fagioli e coyote in “Little Animals” mentre “Slow Motion” parte con una sezione ritmica da Joy Division per poi regalarci un pezzo di puro, sano, splendido Pop stile Pulp che quasi diventa Shoegaze nelle sfuriate di chitarra che stravolgono la mente e le orecchie dell’ascoltatore per risolversi in una No Wave di nuova generazione come i migliori e più vivi Interpol, Editors o The National. Un pezzo che non ti aspetti piazzato proprio dove serve, per non annoiare, per mantenere vivo il pulsare del cuore, per aiutare a innamorarti. È proprio alla nuova onda Interpol – The National è dedicata anche “Half Seas Over” sempre con quel tocco particolare al sapore di Tequila, che caratterizza tutto l’album e soprattutto sotto la guida di un angelo vivo chiamato Nick. “Jesus” chiude l’album come un amen una preghiera, come una preghiera la vostra vita. Anche nel suo essere religious rivela la passione della band per un posto e un uomo forse troppo lontani ma le parole toccano l’anima come poche e più di tanti altri pseudo grandi nuovi cantautori italiani.
Forse non era quello che mi aspettavo, quello che vi aspettavate ma l’esordio dei The Three Blind Mice è qualcosa che ha superato le aspettative sorte dopo il primo veloce ascolto. Non mi frega un cazzo di come si vestono, non mi frega con chi o dove hanno suonato. Visto come suonano, mi frega solo quello e ditemi quel cazzo che vi pare, l’idea di accostare il Post Punk al Tex-Mex è una figata ben fatta, originale o no sticazzi. Le canzoni sono splendide, le melodie anche, la voce è come deve essere e tutto va come deve andare. Se ve lo dice un rompicoglioni come me, fidatevi. E poi…l’avete vista la copertina?

Ah, non vi ho detto che c’è una sorpresa…mi viene da piangere, non mi succedeva da tempo con un disco che non conoscessi.

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Gli Ultimi – Storie Da Un Posto Qualunque

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Avete presente quando, da bambini, aspettavate un anno intero che arrivasse Natale perché sapevate bene che vostra nonna vi avrebbe regalato il Voltron gigante? Poi succedeva che arrivava il giorno del compleanno di vostro signore Gesù Cristo e vedere la scatola avvolta nella carta del negozio di giocattoli più figo del paese vi riempiva gli occhi di lacrime sorridenti e i muscoli d’una frenesia epilettica. Poi strappavi quella carta a morsi e il tuo volto diventava un misto tra verde melma, grigio catarro e arancio vomito. La carta era solo un riciclo, ormai era chiaro e ti ritrovavi a fare i conti con la verità dei pizzicotti della vecchia rincoglionita, col suo Alzheimer e con l’ennesimo pigiama con gli orsetti.

Oggi, la stessa situazione di merda sopraggiunge ogni volta che ricevo un nuovo disco di (, spero sempre buon) Punk tricolore e lo infilo nello stereo. Non è tanto la qualità della registrazione, le melodie o la bellezza pura della musica. È solo che non ne posso più di ascoltare band che fanno la stessa identica roba di decenni fa, quella del Flower Punk da musicassetta, dei Derozer o degli Impossibili. Che cazzo: hanno ibernato tutti i punk di questa fottuta penisola? La cosa mi mette in seria difficoltà, giacché ho sempre più l’impressione, a questo punto, che potrei scrivere un bel pezzo standard da copincollare di volta in volta.
Ora, è vero che il fratello cattivo Hardcore ha margini di variazione sul tema abbastanza ampi e che invece, il Punk, per essere considerato tale, deve rispecchiare schemi precisi ma è impossibile che nessuno abbia la voglia e la capacità di plasmare la materia per forgiare qualcosa che abbia anche solo un minimo d’inventiva al suo interno; non ci credo.
Detto questo, vediamo di darci una calmata e facciamo un passo indietro. Perché Gli Ultimi, in realtà, non sono niente male ad ascoltarli bene. Quattro ragazzi di Roma o giù di lì, Roberto “Berna alla batteria, Simone “Pat” al basso e voce, Maurizio “Bardo” alla voce e Alessandro “Palmiro” a chitarra e voce, che cercano di incarnare, già dal nome, lo spirito della nuova generazione del “No Future” cacio e pepe, quella dei ragazzi senza un lavoro, senza il paparino con i soldi che mette sempre pezza a ogni stronzata, quella senza prospettive e senza aspettative e soprattutto senza l’I-Phone. Simbolizzano la rabbia di tutti quei ragazzi che ogni giorno incontri al bar a giocare a carte o a biliardo per far scivolare via il tempo sulla pelle, quelli che bevono birra e non Spritz, che ti scroccano una sigaretta e si fanno qualche canna. Forse parlo proprio di te, di quello che sei o di quello che eri. Proprio tu che hai smesso di sognare, ma è solo quello che vorrebbe, quello che crede, la “nuova società dei magnaccioni S.P.A.” chiamata Italia. Gli Ultimi, nati nel 2008 da qualche costola di Automatica Aggregazione, Charlie e Desperate Living, ricordano che ci sono posti qualunque, pieni di storie dove gli ultimi sono i primi. Un concerto, gli amici, la curva di uno stadio, i sogni e le fantasie. Tutti questi luoghi e momenti e quelli raccontati dentro Storie Di Un Posto Qualunque.

Si parte con l’inno Street punk (questa è una cosa che solo i punkers oggi sanno fare bene, creare inni) “Gli Ultimi”, sorta di manifesto del proprio essere, della propria vita ed esistenza, fatta di campi da calcio, sala prove, emarginazione e vita di provincia. Tutto quello che segue, suggerisce in maniera dettagliata i temi accennati nel pezzo iniziale e di cui vi ho parlato sopra e si manifesta in quel tipico Punk Rock che ha fatto la fortuna, per modo di dire, dei già citati Derozer, Gli Impossibili o Le Pornoriviste, tanto per fare qualche nome, senza disdegnare incursioni nel mondo U.S.A. West Coast e nelle distorsioni sociali blues.  Di certo non possiamo che essere felici per la qualità audio assolutamente degna, nonostante le probabili difficoltà affrontate. Ottima anche l’esecuzione dei quattro ed ho trovato estremamente imbroccata la voce di Alessandro e Simone, sia nelle parti cantate sia negli immancabili coretti. Melodie quasi inappuntabili e sempre ben ricercate. Curioso l’inserto della tastiera al pezzo cinque, “Laida, Bastarda e Sporca” che forse poteva anche essere più incisivo e lo stesso si può dire della successiva, bellissima, “Canto Del Carcerato” che vede la presenza del mandolino di Andrea Rossi. Non mancano le ballatone alla Mike Ness tipo “Longness” e non mancano le compartecipazioni, con Massimo Il Sardo in “Morfina” e con Damiano, Falla e Teschio in “Ancora Qui”. Molto piacevole inoltre la copertina, ben rappresentativa di quello che è il punk oggi, nel suo sentirsi sempre più in gabbia con la sola compagnia di quello che è il punk di tanti anni fa, coi capelli bianchi ma sempre più vigoroso di quello che il mondo fuori dalle mura non immagini. Infine, non mancano i pezzi carichi, impetuosi, come “Terra Bruciata” nello stile Crummy Stuff di “Con Noi Non Duri Molto”.  L’album si chiude con “Ancora Qui”, il pezzo più “yankee”, più Hardcore e più sparato a mille, ma l’impressione è che Gli Ultimi riescano con migliori risultati utilizzando la formula melodica proposta nei brani antecedenti.
Un disco che trova proprio nelle melodie e nell’anima i sui punti di energia. Un bel disco e presumibilmente una bella band da vedere dal vivo. Resta quel dilemma del cazzo. Mi aspetto sempre la band che faccia virare il Punk verso una nuova meta vergine ma mi ritrovo incessantemente con la faccia nella pura convenzionalità musicale fatta da chi predica l’anticonvenzionalità per eccellenza. Per ora mi accontento e mi tengo stretto almeno questa band che sa essere sincera, sa suonare e scrivere bei testi.  Intanto aspetto con ansia il prossimo Natale. Non si sa mai che a mia nonna passi l’Alzheimer.

P.s. Grazie dell’adesivo Street – punk in natura Peroni. Salute! Vado a berne un paio.

 

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Alex Secone alias IlSognoIlVeleno

Written by Interviste

La nuova promessa del cantautorato italiano viene dal nostro Abruzzo. Lui è IlSognoIlVeleno e nell’intervista che segue ci racconterà i sogni e le paure di chi vorrebbe poter vivere facendo quello che la natura sembra avergli suggerito. Ci parlerà dell’Italia e dei suoi difetti, delle sue canzoni e di Parigi, della musica e della vita. Belle parole di un uomo che con i suoi pochi anni ha più da dire di tanti vecchi santoni del Rock e ci chiede solo un pezzettino della nostra esistenza da dedicare alle sue canzoni. Chi scommette su di lui?

Ciao Alex. Per prima cosa, come stai?

Bene, grazie. Mediamente abbronzato e con tanta voglia di suonare.

Raccontaci brevemente chi sei come sei diventato quello che sei, musicalmente parlando.

Sono uno che studia pianoforte da quando aveva sei anni e che un giorno ha deciso di scrivere la sua prima canzone. Da lì è cominciato tutto. Col tempo poi, affini l’orecchio, gli ascolti, trovi dei musicisti che fanno al caso tuo e dai fuoco alle polveri.

Cosa ti manca per essere come Dente, Brunori, Vasco Brondi, Mannarino, Di Martino ecc..

Potrei darti due risposte: quella maliziosa e quella più istituzionale. Se volessi essere malizioso ti direi che non conosco un numero sufficiente di persone che contano nel fantomatico ambiente ‘indie’. La risposta istituzionale invece è che loro sono più bravi, che io sono più giovane di loro e che quindi ho tutto il tempo di crescere. Scegli tu quella che preferisci.

Qual è il futuro della musica italiana? Come te lo immagini?

Non molto diverso da ora per la verità. In Italia c’è sempre stata un’élite intoccabile e inavvicinabile e poi tutto il resto che si dà molto da fare ma che raccoglie un centesimo di quello che meriterebbe. Questo naturalmente non vale solo per la musica. Internet ha solo aumentato il numero di proposte, di gruppi, di dischi in circolazione. Poi però alla fine son sempre molto pochi quelli che riescono ad ottenere soddisfazione e sicurezza economica da un mondo come quello musicale. Il punto fondamentale, e anche molto semplice, è che le persone ascoltano quello che ascoltano gli altri.

Che diavolo di nome hai scelto? Inusuale direi. Perché?

Non lo so neanch’io. Mi piaceva l’idea di accostare due nomi che non avessero nulla in comune ma che insieme dessero l’idea di qualcosa di vagamente poetico. Alla fine è una sorta di sunto della mia musica, credo: da una parte l’aspetto positivo, sognante e dall’altro la disillusione, la totale mancanza di speranza.

L’Abruzzo non è certo terra per musicisti emergenti. Nascere a Teramo invece che Roma o Milano non ti spiana la strada. Diverse le infrastrutture, diverse le opportunità, i locali, la scena, le distanze dalla vita. È davvero un problema cosi grande o sono io che esagero?

Non esageri. E’ così. Purtroppo le possibilità di emergere non sono così tante neanche nelle grandi città che hai citato. Non so se sia un mio cattivo vizio ma io riconduco sempre tutto a un problema culturale prima che burocratico o di infrastrutture. La verità è che a noi italiani piace sempre ascoltare il già sentito, leggere il già letto, fare il già fatto. Dà un senso di sicurezza probabilmente ma così è. Lo spazio per le cose nuove è ridotto a poco più di zero e non parlo certamente per me. Ho la sensazione che sia un discorso che investe tutti a tutti i livelli.

Di recente hai suonato al Soundlabs di Castelbasso e Civitella (vicino Teramo), dove c’erano anche, Amelie Tritesse, John Wolfington, Nigel Wright, Delawater, Let’sBuyHappiness, A Classic Education, Veronica Falls, Orlando Ef, Di Martino, Jens LekmaneThurston Moore. Come è andata? Hai conosciuto qualcuno di loro?

E’ andata bene, ci siamo divertiti molto. Ho conosciuto Antonio Di Martino insieme ai suoi musicisti Giusto Correnti e Angelo Trabace. Sono persone splendide con le quali puoi parlare di qualsiasi cosa senza orari e non è una cosa così comune anche nel fantomatico ambiente indipendente. Antonio è una persona umile e perfettamente consapevole di quello che fa. Mi ha colpito molto e ricorderò sempre con molto piacere la lunga chiacchierata sul lungomare di Roseto.

Perché il Soundlabs non decolla?

Le ragioni sono diverse. Il Soundlabs ha sicuramente il merito di voler essere un festival diverso dagli altri, con grandi artisti magari poco conosciuti in Italia, ma questo naturalmente non basta. E’ ancora più difficile organizzare tutto questo in provincia. Se aggiungi che il costo dei biglietti non è proprio popolarissimo le cose si complicano.

Cosa non funziona nel sistema musicale italiano? Colpa dei media, del pubblico, delle etichette. Perché a vincere sono sempre i peggiori?

Premettendo che non credo che a vincere siano sempre i peggiori posso dire che anche qui i motivi sono tantissimi. E’ difficile rispondere a questa domanda in maniera completa e con cognizione di causa. Io dico questo: penso che l’Italia stia vivendo una delle peggiori crisi culturali della sua storia recente, perfino peggio di quella degli anni ottanta. Naturalmente i media si adeguano dando al pubblico ciò che il pubblico vuole. I media però non si limitano ad assecondare questo gioco al ribasso ma loro stessi ne sono i corresponsabili dando vita a un terribile cortocircuito dal quale è difficilissimo venir fuori. Odio le generalizzazioni e quindi so perfettamente che ci sono tante persone che rifiutano questo status quo ma evidentemente non sono ancora abbastanza per poter cambiare le cose in maniera radicale.

Il tuo primo album si chiama “Piccole Catastrofi”? Semplice ironia?

Potrebbe essere. Le catastrofi del disco sono a volte catastrofi personali, private; altre volte invece riguardano il nostro paese, hanno una dimensione più ampia. Sono un pessimista ma il disco non lo è. Lo definirei più un album dei ricordi e delle disillusioni.

Il primo brano è “Nouvelle Vague”. Hai un legame particolare col cinema francese di Truffaute/Godard? Catturare “lo splendore del vero” diceva Godard. Parole fatte per te. E’ una casualità?

Il cinema francese, e nello specifico il breve periodo della nouvelle vague, mi ha sempre molto affascinato e di conseguenza ricopre un aspetto importante in quello che è stato tutto il processo di ispirazione e scrittura del disco. Fu un periodo molto speciale, contraddistinto dalla voglia spasmodica di andare controcorrente, di cambiare le regole esistenti. E’ una cosa vitale per l’arte in genere e per questo ho voluto omaggiare quell’atmosfera speciale nel mio primo disco.

C’è anche tanta Francia dentro l’album. C’è qualcosa che ti affascina di Parigi e dintorni più che il resto del mondo?

Diciamo che Parigi ha un’atmosfera del tutto particolare e soprattutto riconoscibilissima. La vedi, la vivi e ti rendi conto che quelle sensazioni che ti circondano non le trovi da nessun’altra parte. E’ questo che mi piace di Parigi, la sua unicità, il suo stile, la sua raffinatezza che nessuno potrà mai cancellare.

In “Bistrot” trovo evidente l’assonanza con la “Ballata Dell’amore Cieco” di De Andrè. Omaggio, caso o cosa?

Solo un caso. Confesso di non aver mai pensato alla canzone di De Andrè. Dopo tutto, pur essendo caricata di eccessiva enfasi per evidenti motivi di scrittura, è una storia d’amore travagliata e violenta di cui non è così raro leggere sui giornali. Al di là dell’esagerazione a me interessava il significato sotteso del testo, mettere in luce l’avidità, la violenza e l’opportunismo di cui è capace l’uomo.

La cosa più bella del disco è che, nonostante si capisca che c’è tanto dentro, dagli arrangiamenti splendidi, ai testi, dalle melodie indovinate, alla strumentazione più variegata, si respira un’atmosfera di naturale semplicità che non significa tuttavia, testi immediati e banali. Cosa ti piace del tuo disco? E cosa non ti piace?

Soprattutto le melodie, lo confesso. Alcune le trovo davvero indovinate. Mi piace molto anche il respiro volutamente retrò degli arrangiamenti. Non sono completamente soddisfatto della produzione ma è pur vero che è il primo disco. C’è tutto il tempo di intuire e seguire il proprio suono.

Dal vivo non sei solo. Presentaceli.

La banda che suona con me dal vivo è così formata: Andrea Marcone alla batteria, Emanuele Carulli alle chitarre e Sandro Cubeddu al basso. Andrea è quello che mi segue da più tempo, Sandro ed Emanuele sono entrati a far parte del gruppo qualche mese fa. Ci divertiamo molto in giro, sono molto contento della resa sul palco.

Cosa ascolti di solito. Consigliaci un gruppo o un disco del passato e fammi un nome su cui scommettere (non necessariamente italiano).

Ho i miei punti fermi che torno ad ascoltare ciclicamente (Bowie, Battisti, Cohen e Tenco su tutti) ma per il resto la mia curiosità mi guida automaticamente verso nomi e dischi nuovi da ascoltare.

Per quanto riguarda il disco del passato ti dico Songs of Leonard Cohen, il suo primo disco, che per me ha significato un punto di non ritorno verso certe atmosfere. Il nome su cui scommettere naturalmente sono io.

“Bisognerebbe dare onorificenze alla gente che fa i plagi”.  Che ne pensi?

Credo che la frase sia di Renoir. In ogni caso, con tutto il rispetto, distinguerei tra plagio e citazione. La citazione può essere un modo intelligente di saper riconoscere in modo onesto le proprie influenze. Ha una sua legittimità. Il plagio manca a mio avviso di quell’aspetto ‘critico’ che ogni artista deve necessariamente avere per far sì che la propria arte, e l’arte in generale, faccia un passo in avanti, cambi, muti la sua forma.

Dal vivo, a prima vista sembri un tipo parecchio spavaldo e sicuro di se ma parlando mi sei sembrato invece piuttosto malinconico e disilluso. Chi sei veramente?

Non sono di certo spavaldo. Sicuro di me forse sì ma anche qui ci sarebbe molto da dire. Malinconico e disilluso penso che siano due aggettivi che centrano meglio la questione. Per il resto preferisco che siano gli altri a dare di me le loro versioni. Io non credo di essere capace di descrivermi, sono troppo pigro per farlo.

Quali sono i tuoi prossimi progetti live e studio?

Per quanto riguarda i concerti c’è da pianificare il programma invernale. Spero di riuscire a suonare in posti ancora mai raggiunti finora. Per quanto riguarda invece il lavoro in studio è ancora presto. Sto scrivendo però alcune canzoni nuove, mi piacciono molto ma ripeto, è ancora prematuro per parlare del secondo disco. Vorrei portare in giro Piccole catastrofi ancora per un po’.

Dove vuoi arrivare?

Non lo so. Citando qualcuno, non mi interessano gli arrivi, mi importano solo i viaggi.

Il mio tormentone. L’arte è prostituzione, diceva Baudelaire. Si può (soprav) vivere oggi, solo della propria arte?

E’ difficile in generale, lo è ancora di più in Italia. Vivere della propria arte è quasi impossibile, sopravviverci è una prospettiva più realizzabile. La sopravvivenza non la vedo, però, come una prospettiva così negativa. Io mi accontenterei senza problemi ma anche la sopravvivenza è da sudare. E molto.

Quale è il tuo sogno di musicista e la tua paura più grande?

Un sogno potrebbe essere quello di arrivare al maggior numero di persone possibile senza perdere nulla in libertà artistica, anche se il sogno più grande per me resta riuscire a ricordare i testi sul palco, sarebbe davvero fantastico. La paura più grande invece è rendersi conto di non avere più la minima ispirazione neanche per riuscire a mettere due accordi in fila, non essere capaci più di scrivere mezzo verso. Ecco, questo per me sarebbe uno scenario da fine del mondo.

In relazione al tuo percorso artistico a chi devi dire grazie e chi mandare affanculo?

Beh il grazie più grande va certamente alla mia famiglia che ha sempre appoggiato qualsiasi pazzia mi venisse in mente di fare in relazione alla mia volontà di suonare. Mandare affanculo invece non fa parte del mio carattere, preferisco tacere e godermi in silenzio l’altrui disfatta quando arriverà il momento. Perché arriverà.

Chi odi della scena indie italiana? Chi ti piace? Voglio nomi.

Non farò mai un nome a mezzo stampa. Non riuscirai a tirarmelo fuori neanche con l’ausilio di terribili torture medievali.

Dimmi quello che avrei dovuto chiederti e non ti ho chiesto? Poi, se vuoi, rispondi.

Avresti dovuto chiedermi se dopo tutte queste risposte da finto intellettuale in realtà suono per conquistare cuori femminili.

La risposta è: “Assolutamente sì”.

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De Rapage – Sberle

Written by Recensioni

Avviso i lettori che questa recensione è scritta di merda per rendere il livello accettabile dal classico pubblico dei De Rapage (del quale tu presto, diventerai parte infima).

È mattina presto, saranno le dodici/dodici e trenta, di un inutile venerdì del fantasmagorico mese di settembre. Mentre mi rilasso cercando di capire che cazzo vuole William Burroughs da me, staccandomi tarzanelli seduto sul bidet, continuo a struggermi nel mio dilemma. Vado alla festa del Pd al Porto Turistico, a vedere ancora una volta Appino e tutta la banda Zen fingere entusiasmo per una serata patetica, dove lardoni sudati s’ingozzano e vomitano il loro inferno sulla carcassa decomposta del comunismo italiano, oppure vado a sciacquarmi le palpebre, le cervella e i timpani con i De Rapage, in quella splendida piazzetta in cima a Chieti? Nonostante abbia correttamente valutato l’elevato rischio per la mia patente, l’ultima loffa del mattino mi fornisce la risposta giusta. Mi tuffo in una fossa di Campari e Pecorino e mi ritrovo nel sorprendente mondo del Bon Bon Café, tra pasticcini piccini piccini e birra grande, eleganza da Louis Vuitton nigeriana e rutto libero. Strano posto per una band che segue l’unico e trino Verbo Scureggiare, nelle sue diverse varianti, come un dogma divino.

Aspettiamo che arrivi un po’ di gente e il concerto avrà inizio. Appunto. Cinque strani tipi si presentano sul palco. Francesco El Fiku Fikurilli, il cantante. Vestito come uno studente di Bologna che si è perso in un labirinto di libri e fighette frigide con la Reflex e ritrovatosi in un festino un po’ sadomaso, strafatto di etere e cocaina. Maurizio Sreafea Skill Aces Schillaci, chitarra effetti e tastiere. Un vero idolo. Immaginate Rowan Atkinson appena uscito dal coma che vestito da barbone si mette a suonare la zappa come una Gibson in campagna, muovendo la lingua come un forsennato, al ritmo della sua chitarra con gli occhi al cielo, in una miriade di mistici assoli. Marco Zappagrunge Zappacoast, seconda chitarra. Una specie di Red Skin violento e pure abbastanza amante del bicchiere, sul punto di pestare chiunque rompa troppo i coglioni. Lu Nterteng, il bassista. Un tipo talmente sereno e gentile da sembrare, a occhi poco consumati, uno squilibrato, il classico serial killer della porta accanto. Jimmy, il batterista. Quello che fa sul serio o almeno cosi sembra, visto che piazzato là dietro può fare quel cazzo che vuole, chi cazzo lo sgamerà mai.

Inizia lo spettacolo. Uno spettacolo.

Derivativi come diarrea al primo appuntamento, come una sfuriata di Sgarbi a Domenica In, dimostrano tuttavia di non essere cinque cazzoni che, tanto per rovinarvi la serata, si sono messi a far casino sotto il balcone di vostra nonna morente che sorvegliate mentre la vostra stronza vi succhia le palle. Suonano alla grande invece, fluendo dal Crossover al Rock più leggero, dall’Hard Rock a passaggi di sperimentazione quasi Prog. Ma c’è qualcosa in più a rendere la serata pazzesca. Il loro live non è solo esecuzione ma puro teatro partecipato col pubblico. El Fiku regge il palco come una rockstar, manda tutti a cagare, offende e incita a offendere e il pubblico si sfoga, tra un “Fikurilli sei una merda” e un “tua sorella è una troia” e, sempre in tono estremamente sarcastico e boccaccesco, tra un pezzo e l’altro, si apre una sfida all’offesa più originale. I brani divertono e si fanno ascoltare anche da chi non ha voglia di scherzare. Sono eseguiti in maniera egregia e la voglia di fare buona musica si nota quando Schillaci s’incazza come una bestia e smette di suonare. Come a dire che si fa i coglioni, ma la musica è pur sempre musica. Gli altri lo prendono un po’ per il culo, anche perché indossa una t-shirt con su scritto con un pennarello “Odio Schillaci” e quindi, prenderlo sul serio, non è agevole, ma il risultato del concerto diventa qualcosa assolutamente da non perdere, compreso il poco pogo loco finale. Tutti si dimostrano ottimi musicisti, pur con qualche ovvia sbavatura, e anche Fikurilli, nonostante non abbia proprio la voce di Tim Buckley, riesce a sopperire con una presenza scenica sbalorditiva. La serata è finita ed io sono morto dal ridere, cosi come chi, con qualche titubanza, mi ha seguito fino a Chieti. I De Rapage, alla faccia del lucro, ci regalano i loro dischi. Dietro c’è scritto: “Il disco che avrete tra le mani è totalmente autoprodotto, auto registrato, auto distribuito, automatico, ed è totalmente vostro, masterizzatelo e regalatelo agli amici o condividetelo come più preferite. Il disco è completamente gratuito. Se qualcuno sta cercando di vendervelo è un figlio di puttana, uccidetelo.” Altro che Indie.

Me ne torno a casa, senza non prima qualche altra birretta, e mi ritrovo in mano questo Sberle! La copertina è una figata Hardcore. In bianco e nero con sfumature e scritte tra il viola e il fucsia. La faccia del disco segue la stessa cromatura, con una mano che sorregge un teschio e da non perdere è l’avviso in fondo, Strong Language, Sexuality e l’invito “for violent reasons”, ad andare sul sito www.fanguloperfavore.com. Vi prego, non fatelo. La grafica all’interno del libretto, curata dallo stesso frontman, è da non perdere, cosi come il mini poster collage che nasconde un misto di psichedelia e follia. Faccio partire il disco. “Noi siamo i De Rapage e diciamo quello che cazzo ci pare”. Inizia cosi. “Il Disgusto” parte a mille in stile “Sheets Of Easter” degli Oneida, per poi trasformarsi in un pezzo Hard Rock carico e potente, che ci parla di merda e carta igienica finita, sangue, ciclo, vomito e sborra in un tripudio pulp. Il brano che dà il titolo al disco è una dissacrante rivisitazione del Rap e del Cross Over di Rage Against The Machine e Beastie Boys, che ci racconta dell’umiliazione di un idiota giustamente incompreso, che va in giro con le “mutande sui pantaloni”. Quindi “Il Grande Rock In Edicola”, il primo brano che presenti una melodia davvero interessante, (oltre al testo da lacrime) anche se l’evidente contaminazione del background musicale dei componenti (palesemente notevole) è ancora forte. “Cannone Assoluto” parte come un Garage Grunge Rock alla Nirvana che si trasforma dopo pochi secondi acquistando una veste tutta nuova che somiglia, soprattutto nella melodia vocale, ai primi lavori di Pelù/ Renzulli. Ok, anch’io sparo cazzate a profusione. Andiamo “Nel Bidet”, nel suo trascinante ritmo Funky, sexy quanto basta, se non fosse per il testo assurdo (…e per sicurezza ci puliamo con la carta vetrata…). Arriviamo al mio momento prediletto. “Ngul Freket Auà” tipica espressione pescarese che non voglio tradurvi. Musicalmente il pezzo ficca la testa in “Creep” dei Radiohead fino al culo ma il testo, anche se difficile per chi non vive la zona del pescarese, è tra i migliori in assoluto della loro proposta.  Si continua con “Cosplayer” dedicato a tutti gli amanti dei fumetti, sfigati e segaioli, “Condoglianze, Allegria!, come avrete intuito, dedicata alla salma di Mike Bongiorno, “Reverendo Terrore” e la sua martellante batteria un po’ Post Punk un po’ Exploited. Quindi “Inquilino Sexy”, un’altra delle perle del disco, e “Gabizze Prog”, il momento più punkettone a dispetto del nome, che ricorda tantissimo lo stile dei grandissimi Skiantos. La chiusura è composta dal duo “Abraham Kadabram” che riprende palesemente il Funky già sentito all’inizio e “Stornello Tarzanello” geniale filastrocca folk, gemella sfigata de “L’Inno Del Corpo Sciolto” di Roberto Benigni.

Insomma testi a volte intelligentissimi, a volte un po’ troppo dispersivi o limitativi, ottima musica ed esecuzioni. Forse eccessivi i rimandi a pezzi, famosi o meno, di altri grandi del Rock e poca originalità musicale ma del resto rientra tutto nello spirito dell’irriverente band chietina. Tanta qualità e soprattutto poca similitudine con tutte le altre proposte definite dalla critica Rock Demenziale. Un album squisito come trovare un pelo di cazzo nel letto della vostra ex tipa (considerando che tanto voi ci ridete su, non vi frega una minchia. Volevate solo scroccare un tetto e un materasso, visto che fuori piove e in giro ci sono solo un paio di puttane rumene generose d’herpes genitale). Mi raccomando, non comprate il disco, tanto una copia ve la regalerà qualcuno come la regala una vecchia zoccola in crisi d’astinenza di batocchio. Ma se capitate loro vicino, non potete assolutamente evitare di andare a sentirli e mandarli a cagare.

Se volete di più, questa è la loro biografia, per il resto, girate per il web, cercateli e divertitevi.

“I De Rapage vengono assemblati in diversi momenti degli anni ’70 da carrozzieri psicopatici e muratori stupidi. Già negli anni ’80 si fanno notare con il loro primo lavoro, quello del barbiere, ma siccome con le forbici proprio non ci sanno fare vengono espulsi con disonore dall’ordine mondiale degli acconciatori ed usati per alimentare autobus elettrici grazie ad una serie elettrodi agganciati alle palle. Licenziati in tronco per insufficienza celebrale, si ricoverano in massa in un centro di riparazione caldaie e ne riescono solo due anni dopo, completamente strafatti di metano. È proprio in quel periodo che i De Rapage compongono quello che diverrà solo dopo qualche mese il loro primo capolavoro, quel Mannaggia al Pudore che diventa campione d’incassi in Giappone, India e Mongolia. Rivalutati all’uscita dell’euro ai quattro viene chiesto di rappresentare l’Italia al G8 di Genova ma rimangono senza benzina all’altezza di Ancona perché se l’erano sniffata tutta. Dopo una breve apparizione al Cantagiro dove tirano sacchi di merda sulle prime file di un atterrito Teatro Elettrolux, i quattro fuggono in Norvegia dove affinano le loro tecniche nelle arti marziali. Tornati alla carica con “Uno Qualunque”, viaggio psichedelico nella tundra dei loro cervelli, i quattro inaugurano una serie di concerti che culminano con il famigerato Live @ Macellaio di Filippone, quartiere rock di Chieti, dove ottengono la consacrazione per mano di un drogatissimo Iggy Pop che li definisce “la feccia assoluta”. Scomparsi per anni dalle scene in seguito ad una forte diarrea, i De Rapage si dichiarano vinti e si ritirano in Grecia dove perfezionano il loro francese fino al 2009, anno in cui incontrano il ramingo Malou Reexio Squincaci, un fachiro girovago che aveva appena perduto la sua dolce scimmietta e che viene accolto dal gruppo a braccia aperte. Assieme a Squincaci i De Rapage tornano sulla scena ed incidono Vergine Da poco, loro terzo Lp, sacrificando il loro testosterone e inventando quella che gli appassionati di tutto il mondo ricorderanno come “musica emozionante suonata male”.”.

 

 

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Io e i Gomma Gommas – Quanto Ti Voglio Bene

Written by Recensioni

Cari miei punkettoni di Rockambula, ricordate i tempi in cui Fat Mike (Nofx), Joey Cape (Lagwagon) e qualche altro pazzo (in tutto avranno suonato almeno una volta nella band una ventina di musicisti) misero in piedi quello strano progetto chiamato Me First and the Gimme Gimmes?

L’idea era semplice. Prendere pezzi più o meno famosi dei favolosi anni sessanta, settanta e ottanta a stelle e strisce e non solo e ripresentarli con la carica del Punk Rock. Buona idea. Perché non fare lo stesso con la musica tricolore? Questo devono aver pensato i nostri Io e i Gomma Gommas (come mai questo nome strano? Se non siete idioti, l’avrete capito) in un ormai lontano 2002, quando la loro vita artistica si trovò al bivio dovuto allo scioglimento delle loro band di provenienza.
Certo che scegliere i pezzi da proporre non doveva essere facile. L’Italia non è L’America di Johnny Cash, di Neil Diamond o di Jerry Reed. Non era semplice andare a scavare nelle montagne di musicassette dei genitori, nelle pile di vinili e nei ricordi per scovare perle tanto belle, quanto conosciute e adatte a un progetto del genere.
Senza farsi troppe pippe mentali, decidono allora di buttarla sul drastico. Scelgono pezzi come “Guarda Come Dondolo”, “Stasera Mi Butto”, “Sono Bugiardo”, “I Watussi”, “Marina” (tutti contenuti nell’album del 2005 Honkey-Donkey!) oppure “Ma che freddo fa”, “Una bambolina che fa no, no, no” o “24 mila baci” (presenti in 50s morti, 60s feriti di tre anni dopo). Brani famosissimi, spesso snobbati dal pubblico più fighetto ma che fanno parte inevitabilmente del bagaglio culturale musicale di ogni artista nato tra le Alpi e il Mediterraneo. Una scelta che oggi suona ingenua (essere veri paga meno che mai) ma che dimostra la voglia della band di suonare, divertirsi e divertire senza la paura del giudizio dei “colti” e soprattutto senza alcuna puzza sotto il naso. Quando nel 2010 esce …Canto quel motivetto che mi piace tanto!!! I ragazzi sembrano ancora più spavaldi. Una formazione nuova, nuove idee (cantato a tre voci ad esempio) e pezzi sempre più sfrontati. “Pippo non lo sa”, “Il pinguino innamorato”, “Voglio vivere così”, “O mamma mi ci vuol la fidanzata”. Ci vuole coraggio a fare una cosa del genere.

Capite che per un punk mettersi a pogare su un pezzo di Cash coverizzato dal grasso Mike, non è poi cosi improbabile. Farlo su un pezzo di Nada o Celentano non deve essere proprio la stessa cosa. Cosi; a intuito. Forse è per questo che le frange estreme del movimento con la cresta sembrano non aver mai preso troppo sul serio questo gruppo che in realtà, con un po’ d’intelletto, potete capire non molto diverso dai gemelli U.S.A. Me First and the Gimme Gimmes. La lingua italiana purtroppo è bomba con la miccia troppo corta, che volete farci. A me non frega un cazzo di fare il punk duro e questo nuovo Ep intitolato molto sdolcinatamente “Quanto Ti Voglio Bene”, lo ascolto più che volentieri, senza pregiudizi e senza nostalgia.
Uscito in occasione della festa della mamma, i tre pezzi sono proprio dedicati a loro, che ci mettono la pezzolina sulla fronte quando abbiamo la febbre, ci dicono di fare piano, ci fanno la lasagna quando torniamo a casa, ci aspettano in piedi e ci cazziano se siamo ubriachi. Lele, Ricca, Gio e Fila ci sparano addosso tre perle del calibro di “Mamma son tanto felice”, “Tu che mi hai preso il cuor” e “Con te partirò”. Tre brani divenuti strafamosi nel loro modello operistico, qui riproposti a mille all’ora, come non ti aspetteresti mai, a meno che tu non conosca già i nostri quattro ragazzoni marchigiani. Chitarre feroci ma non aggressive, distorsioni, ritmi sostenuti e voci bonariamente cattive e cariche (in un caso breve, appare addirittura la lingua teutonica). Tutto è cosi come lo avevano lasciato. Nulla di trascendentale. Solo tanta voglia di svagarsi e cantare, ballare e fare quello che ci pare.

Per i loro dieci anni questi piccoli grandi della scena Punk italiana fanno un regalo a noi. In cambio ci chiedono solo di andare alla festa. Converse, jeans stretti, cresta, tanta batteria nelle spalle ma mi raccomando, venite accompagnati dalla mamma.

 

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Soundscape – Star Things Up

Written by Recensioni

Ci voleva proprio un disco cosi. Grottesco. Parlare bene di tutti è parlare bene di nessuno, parlare male di tutti è farsi una sega sorridenti davanti allo specchio. Io, ultimamente di seghe me ne stavo facendo ben poche e con le mie palle gonfie che rischiavano di esplodere non facevo altro che sputare miele a destra e a manca, in un tripudio di tre e mezzo e quattro. Cominciavo ad aver paura di essermi un po’ inchecchito. Che cazzo. Dov’ero finito io che non ci pensavo due volte a dirvi se un disco mi faceva cagare? Mi stavo forse facendo fregare dal sistema? Vi dico una cosa, se non vi è mai capitato di fare i “recensori” per qualche webzine o rivista o altro. Esagerate con gli elogi e avrete amici, conoscenze, contatti, visite moltiplicate sul vostro blog, il sito web, la vostra pagina Facebook. Provate a dirne male e avrete la casella di posta piena d’insulti e offese alle vostre conoscenze musicali e alla vostra scrittura, se non alle vostre donne, mamme, nonne, sorelle e via dicendo. Che cazzo. Possibile che si riesca a scrivere bene solo quando la recensione è positiva? Possibile che il nostro cervello sia capace di lavorare meglio quando deve esprimersi positivamente? Forse sì o forse è tutta una cazzata. Ora, se qualcuno mi conosce un po’, dovrebbe sapere che non ritengo mai di avere la verità assoluta tra le mani (o forse sono io che credo di essere cosi? Devo appuntarmi di ricordarmi di chiedere in giro). Io parlo a voi semplicemente come farei a un mio amico meno esperto, consigliando o no l’ascolto di un disco, anzi dicendo la mia nella speranza che lui (lui, lei o il mio amico immaginario, fate voi) s’incuriosisca, ascolti e poi corregga i miei possibili errori di giudizio o viceversa rafforzi le mie critiche. Questo disco mi ha fatto di certo capire che non mi sono rinfrocito ma anzi riesco ancora a dire quando qualcosa mi fa repulsione, senza credermi troppo saputello. Capita, no? Non devo spiegarvi sempre perché non mi è gradito qualcosa. Se vi dico che mi da disgusto il cibo cinese, lo capite il perché anche se c’è chi lo mangia. Diversi palati, probabilmente. Non è un giudizio assoluto il mio ma a volte si ha troppa paura di esprimersi perché chi legge ritiene sempre che il nostro parere sia posto come una realtà suprema. Nessuna offesa verso chi ha sudato per fare un disco ma se non mi conquista che diavolo volete? Pagatemi e vi farò tutta la pubblicità che desiderate. E poi è cosi importante? Potrei dirvi che mi fa schifo la voce di Billy Corgan, la musica di Elton John, i balletti Michal Jackson. Chiedete a loro quanto gliene frega? Non chiedete a Michael. Dovreste suicidarvi per farlo. Quindi state tutti molto calmi. Sto per dirvi una cosa che non vi sembrerà opportuna, forse.

Il promo dei Soundscape ci propone un mix di Alternative Rock, Pop/Rock e Symphonic Rock che solo vagamente può ricordare la musica dei noti Muse ma che in realtà manca della stessa grandezza non solo esecutiva ma anche espositiva. Tutto sembra appena abbozzato, quando la voce cerca acuti che non trova, quando ti aspetti la melodia che non c’è, quando le chitarre dovrebbero spazzarti via e invece, sono risucchiate dalle tue bestemmie a mezza bocca e neanche basso e batteria che provano a pompare un po’, ci riescono mai pienamente. Il disco si apre col brano che dà il titolo all’album. L’inizio ricorda il sound dei Guns N’ Roses ma solo per una ventina di secondi. Appena voce e chitarre cominciano ad andare a braccetto, tutto è già chiaro. Il brevissimo attacco del piano sembra piazzato in quel punto cosi, a caso, mentre la voce propone una melodia assolutamente fastidiosa. Anche il timbro non è proprio memorabile e la voce, nel suo incedere un po’ acidula, sfiancata, senza mai azzardare nulla si limita a seguire lo stesso percorso all’infinito.

Il secondo brano “Under Attack” ha il pregio di promuovere quantomeno una variazione sul tema. Parte con un ritmo Martial Folk interessante, addolcito dalle note del piano. Prima che scadano sessanta secondi però, tutto torna esattamente dove ci aspettiamo e non bramavamo. La musica è sempre la stessa, priva di energia e nello stesso tempo, di melodia, incapace di emozionare cosi come di stupire.

Il terzo brano, “Die For One Day”, è invece una ballatona di quelle che non possono mancare in un disco del genere. Sinfonici arrangiamenti accompagnano le parole, intervallati da momenti più energici.

“Gave Ya All” si ricollega alla precedente per l’atmosfera particolarmente intima che prova a suscitare e forse, anche perché si discosta parecchio da quanto ascoltato fino ad’ora, è il momento migliore dell’album.

L’inizio Neofolk di ”Try Again” fa ben sperare e cosi l’attacco pieno di metallo, ma, come ormai ho imparato, tutto dura davvero troppo poco. Parole cantate e sussurrate si alternano alla ricerca di un’enfasi che neanche il pigiare di tasti riesce a creare.

Con “Girl” arriviamo a metà del promo. Bell’intro pazzoide e vagamente esotico e poi il nulla. Una cosa è chiara. Su di un elemento hanno fatto un discreto lavoro. Sanno come iniziare i pezzi. Poi, ovviamente, non basta ripresentare quegli intro dentro le canzoni per creare belle canzoni, ma questa è un’altra storia. Nelle tracce restanti, in concreto, nulla è aggiunto. Momenti lenti alternati a episodi più energici. Poche idee, poca voce, poche melodie.

Che posso dirvi ancora. Non ho neanche troppa voglia di continuare a parlare in questi termini. Non è una musica che mi piace questa, Pop Rock che finge di travestirsi da Alternative Metal. Puah. Eppure solitamente qualche cosa riesco anche ad apprezzarla, nel genere. Mi dispiace dirlo ma non è questo il caso. Non c’è in sostanza niente che mi piace escluso qualche passaggio nei testi. Non m’interessa la musica, le melodie, l’esecuzione, la voce, ecc.. Io ci ho provato ma…

Sorry, Try Again.

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Bugo

Written by Interviste

In occasione del festival “Note su ali di farfalla” (https://www.rockambula.com/note-su-ali-di-farfalla-notte-per-federica-e-serena/), serata di beneficenza dedicata a Federica e Serena, le due studentesse teramane scomparse sotto le macerie del terremoto aquilano, abbiamo avuto il piacere di regalarci e regalarvi un intervista con uno dei protagonisti della serata che si è tenuta a Teramo venerdi 07 settembre. Insieme a lui, hanno partecipato ad uno dei più attesi eventi live del centro Abruzzo, Calibro 35, Offlaga Disco Pax, I Cani, Amelie Tritesse e Gesamtkunstwerk. Ma ora godiamoci la solita ironia, sagacia e candida follia del menestrello che viene dal nord. Signore e signore, ecco a voi Cristian Bugatti, in arte Bugo.

Ciao Bugo. Per prima cosa, come stai?

CIAO, ORA STO SDRAIATO.

Difficile che il nostro pubblico non ti conosca. Impossibile direi. Ma oltre il personaggio chi è Cristian Bugatti e chi Bugo?

GUARDA, A DIRE IL VERO IO NON MI CONOSCO. E’ TUTTA LA VITA CHE CERCO DI CONOSCERMI!

Raccontaci come e perché è iniziata la tua carriera.

NON PARLO MAI IN TERMINI DI CARRIERA. E’ LA PAROLA “CARRIERA” CHE NON MI PIACE, NON MI CI RITROVO. E’ UNA DI QUELLE PAROLE COME “CURRICULUM” CHE SERVE SOLO PER RUFFIANARSI LE PERSONE. HO INIZIATO AD AVVICINARMI ALLA MUSICA GRAZIE AD ALCUNI AMICI DEL MIO PAESE CHE AVEVANO UNA BAND. UN GIORNO ALLE PROVE MI CHIESERO DI PROVARE A SUONARE LA BATTERIA, MI VENNE NATURALE E COSI INIZIAI. DOPO DUE ANNETTI HO COMINCIATO A SCRIVERE CANZONI E HO ABBANDONATO LA BATTERIA. HO FORMATO UN GRUPPO NEL 1994, I QUAXO, CHE HO SCIOLTO DUE ANNI DOPO PERCHE’ MI SONO RESO CONTO DI ESSERE ALLERGICO ALLE DINAMICHE DI GRUPPO E VOLEVO CONTINUARE DA SOLO.

È ancora l’amore per quello che fai che ti spinge a continuare? Considerando che hai all’attivo otto album, oltre a diverse collaborazioni e altro, non pensi che, a un certo punto, le idee possano esaurirsi?

LE IDEE SI ESAURISCO SEMPRE, E PER FORTUNA, ALTRIMENTI AVREI IL MAL DI TESTA! E’ PER QUESTO CHE CERCO SEMPRE NUOVE SOLUZIONI, PERCHE’ SE SCOPRO UN’ IDEA CHE FUNZIONA E PROVO A REPLICARLA, MI VIENE SEMPRE FUORI UN PASTICCIO. LE IDEE VANNO E VENGONO, ALCUNE FUNZIONANO, ALTRE NON VANNO PROPRIO.

Nel corso degli anni, ho notato una sorta di evoluzione melodica a discapito delle sperimentazioni lo-fi degli esordi. Come mai questo mutamento pop?

IO HO SEMPRE FATTO POP. NON HO MAI CONSIDERATO LA MIA MUSICA COME MUSICA SPERIMENTALE. ANCHE UNA CANZONE COME “SPERMATOZOI” E’ POP. SOLO CHE ALL’ INIZIO AVEVO POCHI MEZZI E LA QUALITà SONORA ERA QUELLO CHE ERA. IO CERCO DI NON RIPETERMI, CERCO DI LAVORARE IN TERRENI IN CUI NON MI SENTO SICURO.

Quest’anno hai duettato con Enrico Ruggeri nel brano “Il lavaggio del cervello” contenuto nell’album “Le canzoni ai testimoni” nel quale Ruggeri canta con diversi esponenti della nuova musica italiana (Dente, Linea77, Marta sui Tubi, ecc…). Come nasce questa collaborazione? Può essere la base per qualche progetto futuro o un episodio isolato.

CREDO CHE SARà UN EPISODIO ISOLATO, A MENO CHE RUGGERI NON VOGLIA FARE UNA COVER DI BUGO!

Come è nato il tuo ultimo album “Nuovi Rimedi Per La Miopia”?

E’ NATO DURANTE IL TOUR DI CONTATTI, NEL 2009. CI HO LAVORATO PER OLTRE UN ANNO E L’ HO COMPLETATO E CONSEGNATO AD UNIVERSAL NELL’ ESTATE DEL 2010. VOLEVO UN DISCO DIVERSO DA CONTATTI.

Torniamo a qualche anno fa. Parlami della splendida “Amore Mio Infinito”, ispirata al romanzo di Aldo Nove e presente nell’album del 2006 “Sguardo Contemporaneo”.. Scrivi spesso le canzoni ispirandoti a opere letterarie?

NO, IN GENERE NO. PERò ALL’ EPOCA AVEVO LETTO QUEL LIBRO DI ALDO E MI AVEVA COLPITO L’ AMORE DEL BAMBINO PER LA BAMBINA. E IO NON AVEVO ANCORA SCRITTO UNA CANZONE CON UN TESTO COSI “INFANTILE”.

Quando, con quale disco o canzone, in quale circostanza hai capito che avresti vissuto di musica?

CON “CASALINGO”. L’ HO SCRITTA NEL 1998 MA HO ASPETTATO IL MOMENTO GIUSTO PER PROPORLA.

Il vecchio tormentone/paragone con Beck (che oggi non ha più senso) ti ha più lusingato o infastidito, nel corso degli anni?

ENTRAMBE LE COSE.

Una delle cose che ho sempre trovato affascinante nel tuo modo di scrivere è l’attenzione per le piccole cose apparentemente insignificanti e la capacità di cantare la generazione della disillusione. Nel tuo ultimo album, “Nuovi Rimedi Per La Miopia”, ho notato invece una sorta di aria di speranza e tematiche più sentimentali e adolescenziali. Sembra che il giovane Bugo di qualche anno fa puntasse paradossalmente a un pubblico più maturo rispetto all’artista di oggi. Non è più il Bugo di “Spermatozoi” (che adoro) e mi è difficile immaginare un pezzo come “Comunque Io Voglio Te”, come un pezzo di quel Bugo? Chi o cosa ti ha cambiato? Stai ringiovanendo?

IO NON VOGLIO RIPETERMI, NON HA SENSO PER ME RISCRIVERE UNA CANZONE COME “SPERMATOZOI”. RIMANE UN BRANO UNICO PERCHè NON NE HO MAI RIFATTO UNO SIMILE. IO CERCO DI IMMAGINARMI NUOVE IDEE. NON AVEVO MAI SCRITTO UNA CANZONE IN CUI MI IMMAGINAVO UNA SORTA DI PERSONAGGIO CHE FA IL DURO E DICE CHE L’ AMORE è UNA SCELTA COME IN “COMUNQUE IO VOGLIO TE”. IO VOGLIO ESSERE SEMPRE DIVERSO, PERCHè DENTRO DI NOI ABBIAMO TANTI LATI, SIAMO DEI MULTIPLI. IO NON HO NULLA A CHE FARE CON LE TEMATICHE ADOLESCENZIALI, NON MI SONO MAI INTERESSATE. E NEL NUOVO DISCO NON C’è TUTTA QUESTA SPERANZA CHE TU CI VEDI. LA VITA è VANITà , E SEMPRE SARà COSI PER ME.

Che rapporto hai con il tuo pubblico? Oltre ai tuoi fan, ci sono ancora gli oppositori violenti (non necessariamente in senso fisico) che mi è capitato di vedere a qualche tuo live? Da dove viene quest’astio da parte di alcune persone? Perché chi non ti apprezza si arroga il diritto di offenderti e non fa la stessa cosa con altri artisti? Perché succede a te e non a Dente o Brunori?

SE DECIDI CHE VUOI ESSERE UN ARTISTA ALLORA PREPARATI ALLA CROCIFISSIONE. OGNUNO HA DIRITTO DI ESPRIMERE IL PROPRIO PARERE. IO NON SONO UN RUFFIANO, NON FACCIO MUSICA PER ACCONTENTARE GLI ALTRI, FACCIO LA MIA MUSICA E BASTA, CON TUTTI I RISCHI E LA FATICA CHE COMPORTA. CHI MI OFFENDE FA BENE, PERCHè ANCHE IO OGNI TANTO OFFENDO ME STESSO! ANCHE GLI ALTRI PERò DOVREBBERO OFFENDERE SE STESSI!!

C’è molta più elettronica nella tua musica. Scelta dettata dalla necessità evolutiva o cosa?

L’ ELETTRONICA FA PARTE DELLA MUSICA DI OGGI, NON POSSO FARNE A MENO E HO ANCORA TANTO DA SCOPRIRE.

Pensi di aver avuto dalla musica tutto quello che ti spetta?

NO! VOGLIO FARE UN DUETTO CON JIMI HENDRIX!

Che musica ascoltavi da ragazzo e cosa ascolti oggi? L’ultimo disco ascoltato e il tuo preferito?

HO INIZIATO CON DURAN DURAN ALLE MEDIE, POI TANTO RAP AL LICEO, DA JOVANOTTI AI BEASTIE BOYS. POI IL ROCK AMERICANO E MAN MANO MI SONO FATTO ONNIVORO. ASCOLTO TUTTO RANDOM, SENZA PENSARCI TROPPO. L’ ULTIMO ALBUM CHE HO SENTITO E’ “COEXIST” DEGLI XX. UNO DEI MIEI PREFERITI, SE NON IL MIO PREFERITO, è “THE PIPER AT THE GATES OF DAWN” DEI PINK FLOYD.

Cosa ti piace e cosa odi della musica italiana, del sistema musicale e del pubblico, a mio avviso sempre meno capace di scegliere e condizionato da tv e radio, nonostante mezzi a disposizione molto più imponenti rispetto al passato (penso al web)? Siamo un popolo di pigri o di ignoranti?

SI, MA QUESTO NON è UN MALE SE RICONOSCIAMO DI ESSERE PIGRI E IGNORANTI.

Qual è il futuro della musica italiana? Come te lo immagini?

COME è SEMPRE STATA. DIVISA, OGNUNO A COLTIVARE IL PROPRIO ORTICELLO, NELLA SPERANZA CHE QUALCUNO PASSI E COMPRI I NOSTRI FRUTTI.

E cosa ne pensi della scena Indie? C’è qualcuno che non sopporti o che non merita il successo che ha? Ti avviso che a questa domanda mai nessuno ha fatto un nome. Sembra esserci molto rispetto reciproco, a “telecamere” accese.

AHAHA! IO NON SOPPORTO NESSUNO!! NEMMENO ME STESSO!

Ho notato una tua particolare attenzione all’aspetto estetico (vedi gli abiti che indossi nelle tue copertine) eppure questo non si riversa necessariamente nella tua proposta musicale, come accadeva per il Glam Rock. Che rapporto hai con l’apparire?

CI GIOCO, CON L’ APPARENZA. SE METTO UNA MAGLIETTA COOL DICONO CHE SONO UN FIGHETTO. POI METTO UN PANTALONE STRACCIATO DICONO CHE SONO UN BARBONE.  E’ TUTTO UN GIOCO.

Quale è il tuo sogno di musicista e la tua paura più grande?

NON VIVO DI SOGNI. LA MIA PAURA PIù GRANDE SONO SEMPRE STATO IO.

Pensi di dover dire grazie a qualcuno per essere quello che sei e di dover mandare affanculo qualche stronzo che ha provato a fermarti?

NESSUNO PUò FERMARTI, SE NON TE STESSO O LA MORTE. TROPPO FACILE DARE LA COLPA AGLI ALTRI.

Che rapporto hai con la critica musicale?

NULLO.

Qualche anno fa, hai suonato a pochi chilometri dal mio paese, nella suggestiva location dell’Eremo di Celestino V. Hai qualche ricordo particolare, bello o brutto che sia, di quella serata?

NON RICORDO NULLA!

Il tour “Qualcosa di più importante” è quasi alla fine. Il bilancio?

5 MORTI E 2 FERITI. LA MAGGIOR PARTE è SOPRAVVISSUTA.

Quali saranno i tuoi prossimi passi? Ora vivi in India con tua moglie, se non sbaglio. Dobbiamo aspettarci contaminazioni esotiche?

PUò DARSI, è PRESTO PER DIRLO.

Dimmi quello che avrei dovuto chiederti e non ti ho chiesto. Poi, se vuoi, rispondi.

COS’ HAI MANGIATO STASERA? RISPOSTA: PASTA AL BURRO!

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Staggerman – Don’t Be Afraid And Trust Me

Written by Recensioni

L’uomo che barcolla è tornato. Non abbiate paura e fidatevi di lui. Non è più il tempo di essere piccoli, “Tiny, Tiny, Tiny” (album d’esordio datato 2010), non è il tempo dei campi verdi ma Staggerman è comunque lo stesso vecchio diavolo di sempre. Il lombardo Matteo Crema germoglia col mito della musica e dei Nirvana e scopre i sui superpoteri da Staggerman nel 2009. Nello stesso anno esce autoprodotto l’album “Tiny, Tiny, Tiny” e critica e pubblico, anche grazie a diversi passaggi radiofonici (Radio Rai su tutti) e tv (trailer Mediaset) dimostrano di apprezzare oltre ogni auspicato desiderio. Due anni dopo, un’altra congiuntura decisiva nella carriera del giovane cantautore lombardo, si ha con la compartecipazione alla compilation “OndaDrops Vol. 4”, realizzata in collaborazione con una nota webzine del settore. La raccolta, realizzata da diversi songwriter e folkster contemporanei, si propone di rimaneggiare il sound outlaw country statunitense dei padri del sogno, come Hank Williams, Kinky Friedman, Johnny Cash o Guy Clark. Di fianco al nostro, troviamo nomi importantissimi della scena, quali i grandi Great Lake Swimmers di Tony Dekker, Pwolf And Avi, Caleb Coy, West Of The Shore, Buster Blue e tanti altri delinquenti e cowboy in viaggio tra la polvere del Texas nella strada per Los Angeles. Insieme con Laura “Lalla” Domeneghini, Staggerman presenta il duetto Lee Hazlewwod e Nancy Sinatra di “Summer Wine”, proposta in versione Wilco. Da qui l’avventura inizia a divenire cosa seria. Altri brani sono inseriti in note compilation Indie Rock e nel 2012 arriva finalmente il secondo, difficile lavoro, Don’t Be Afraid And Trust Me. E il bello è che è tutto ancora più bello di quello che è stato. Più spirituale. A partire dai disegni minimali di Matteo, del bellissimo artwork.

Il disco si apre con “Maybe I Won’t”, e la chitarra e la voce di Staggerman ci regalano momenti di solitudine e malinconia in perfetto stile The Black Heart Procession (il brano sembra assolutamente uscito dalla penna di Pall Jenkins e soci). Pare di ascoltare le ultime parole di Staggerman che seduto a una sedia davanti ad una bottiglia di vino attende l’ingresso della Morte che ogni minuto, scalcia ballando alla porta, pronta a fare il suo nero ingresso trionfale. Un brano bellissimo che ha la pecca di essere davvero troppo somigliante al sound dei suddetti americani di San Diego. Poco importa alle nostre orecchie, tuttavia.

Con “(Not) The Man I Used To Be” la musica prende tutta un’altra piega. Una via di mezzo tra il solito genio di Wilco e il Neil Young più spensierato. Un pezzo dall’armonia fenomenale e arrangiamenti eccelsi, tanto che sembra di spiare il nostro Neil (esclusa la voce non molto affine) accompagnato, invece che da un’armonica, da fiati, corni (Marco Romele, Emanuele Guizzetti e Diego Filippi) che esaltano la potenza melodica del pezzo. In “Morning Walk” si vola nella più classiche e segrete atmosfere Folk d’oltreoceano, tra parole d’amore guidate con delicatezza dal piano di Guglielmo Scarsi (che con Lorenzo Colosio alla batteria e Salvatore Lentini al basso formano la struttura portante della band di Staggerman nelle esibizioni live).  “Can’t Stand Up” è il primo momento Indie Rock del disco. La batteria pulsa come un cuore impazzito mentre il basso scandisce un ritmo ossessivo in contrapposizione alla melodia Pop. Una miscela di Arcade Fire e Okkerville River con una spruzzata di sano santo Folk e motivo quasi jangle alla Belle & Sebastien. È la volta del Blues. “The Night I Saw You Stripping” è la manifestazione acida di Staggerman che abbraccia I moderni idoli della musica del diavolo, The Black Keys, con una mano, mentre con l’altra stringe i favolosi e psichedelici anni sessanta di The Doors e Jimi Hendrix. “Skinny Pretty Freak” vi rapirà già dall’intro che sembra lo spiraglio di una porta socchiusa di una dance hall anni ottanta. Poi il basso diventa il protagonista esclusivo prima che la voce di Staggerman si riveli in quella che era una delle sue manie dei lavori precedenti (Sour Times è l’esempio perfetto) ovvero l’omaggio, l’imitazione, il sacrificio a, l’atto di riverenza a. Insomma, chiamatelo come volete, ma quello che ascoltate è quanto di più analogo possa fare un ragazzo dal nord dell’Italia al mitico Mister E, in altre parole Mark Oliver Everett e alla sua creatura Eels.

La parte terminale del disco inizia con la bellissima ballata “Everything Is Nothing”. Poi torna la carica di “Too Hot To Die” prima di “Turtles”, tutta dedicata al solo piano di Scarsi. Il finale è invece assegnato alla nenia “If I Could Only Live My Life Twice” che si scioglie come neve al sole, come sangue tra le mani bagnate di lacrime. Parole che si disgregano in un tripudio di distorsioni che chiudono il brano e l’album, ricordandoci che “Days and years are passing by sooner than we would expect /i giorni e gli anni passano prima di quanto ci si aspetterebbe”. Oltre alle canzoni, il disco contiene una traccia video, che si apre con le parole Diesel 24062. È lo studio di registrazione di (in parte) Don’t Be Afraid And Trust Me. Il video, presenta le immagini dei musicisti e dei luoghi che hanno reso possibile questo lavoro (il disco è stato registrato oltre che con tre diversi batteristi, anche in tre diverse sessioni di registrazione, in tre punti diversi), con sottofondo la loro musica e alcune parole che compaiono di tanto in tanto a dare indizi su come sia nato l’album. Da un punto di vista prettamente musicale non ha assolutamente rilievo ma ne ha tantissimo per aiutarci ad apprezzare le persone che si nascondono dietro le note e le parole, per apprezzarne lo spirito e i sacrifici, la passione. Un bellissimo regalo per chi ha amato le canzoni di Matteo Crema e per chi ancora non l’ha fatto.

Un disco seducente ,nato dal cuore di chi ama la musica oltre ogni cosa e fatto per chi ama la musica, specie quando è capace di portarci a sognare in luoghi troppo spesso divorati dall’avanzata del progresso. This is Folk, this is Country, this is Staggerman.

 

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Doppia Goccia – Per La Gloria

Written by Recensioni

Pochi cazzi. Ci voleva un album cosi, una band cosi, in un’estate cosi, cosi. Calda, bollente e focosa. Ci volevano proprio queste undici canzoni, non tanto per combattere l’afa che tanto è ogni anno la più terribile di sempre (e quest’anno ha anche nomi da pelle d’oca, giusto per prenderci per il culo un po’ di più, ogni anno di più) ma più che altro per riuscire ad apprezzarla e sfruttarla come si deve, magari al riparo di rigogliose fronde o bianca calce, con l’aiuto di un fresco estivo bevibile Gin Lemon o una Corona gelata. Ci voleva “Per La Gloria” per aiutarci a riscoprire la bellezza del sudore d’estate, dell’ozio della controra e della spensieratezza dei balli e dei bagni di notte.

Il duo Amos Villa (voce, armonica e chitarre) e Gabriele Pezzini (voce e percussioni) nasce dieci anni fa e da allora la festa a tutta tequila non è mai finita. Il primo piccolo grande passo è l’album “D’Essenza E Speranza” datato 2004 che segna la svolta artistica della band brianzola che li porterà dal duro mondo del live (innumerevoli e da maratoneti) al più cervellotico lavoro in studio.

Nel 2007 esce l’album “Sulla Linea Di Confine” seguito, come nel loro stile degli esordi, da innumerevoli apparizioni dal vivo, in Italia come all’estero, in compagnia di Gang, Crifiu, Mercanti Di Liquore, Inti Illimani, Baba Sissoko e Marcio Rangel.

Nel 2010 il duo registra nel circolo Arci di Osnago La LoCo, l’acustico live tratto dal lavoro precedente e nel 2011 si torna in studio, con l’apporto del fonico Lorenzo Caperchi (Bluvertigo, Mercanti Di Liquore) per questo bellissimo, pungente, energico, essenziale “Per La Gloria”.

Il sound della band alterna il Folk Rock a stelle e strisce più robusto, stile 16 Horsepower e Two Gallants, al Tex Mex velenoso dei Calexico passando per le sbronze gongolanti da “Messico e Nuvole”. Una miscela esplosiva di percussioni afro caribbean, Reggae, Folk a non finire, Country e qualche passaggio Pop.

Si parte subito a mille con “Rock In The Aia”, eccezionale ululato alla luna, un inno alla voglia di libertà che mescola pelli nere con chitarre folkeggianti e un cantato impetuoso. Colpisce da subito la naturalità della musica di Amos e Gabriele che riescono a percuotere il cuore senza bisogno di superare i limiti, grazie anche a testi indovinati che fanno sognare. Nella successiva ballata “Radici Non Ne Ho” continua la strada presa dalle parole nel brano precedente mentre il ritmo decelera, evidenziando gli aspetti vocali del Folk dei Doppia Goccia, che, pur non spiccando per qualità, presentano un timbro e un’empatia assolutamente straordinari. “La Strada Di Bea” parte con l’armonica di Amos Villa e si capisce subito che qui c’è da ballare. Un ritmo travolgente, una melodia Pop alle spalle del solito King of the U.S.A. e, everything is gonna be alright, ti ritrovi in un attimo in pista a cantare con Bea. Un momento più leggero rispetto all’accoppiata iniziale e che rappresenterà uno dei momenti più divertenti delle loro esibizioni live. Con “Dirti Amore” si passa al momento più popular del disco (non è casuale l’aggiunta del synth di Simone Pirovano). E di cosa parla il Pop se non di Cupido, delle sue vittime e i suoi discepoli. Ma ancora una volta il testo, scritto con la collaborazione di Flavio Ciceri, coglie nel segno perché riesce a essere lineare, senza essere insipido, aiutato da una melodia febbrile, e gradevoli schitarrate Vampire Weekend (tanto per farvi capire). Curiose le note iniziali del brano che, non so quanto volutamente, sembrano essere fuse col pezzo precedente. Quindi “La Notte Che Gio Rivolta Tornò In Città” ci riporta al Folk- Country americano già dal titolo, particolarmente spaghetti western. Il brano non convince come il resto, non riesce a colpire né musicalmente, mancando di quella sobrietà mista di trascinante ritmo che è la peculiarità degli altri brani, né nel testo, poco riuscito nel tentativo di essere evocativo e moderno al tempo stesso. “Al Fianco Delle Stelle” abbassa ancora i ritmi aggiungendo il contrabbasso ad arco di Roberto Benatti che aiuta a rendere l’atmosfera più innamorata possibile. “Il Manovale” somiglia al più classico Folk Rock italiano, nello stile di Modena City Ramblers, The Gang e Bandabardò nei loro episodi più malinconici e impegnati. “La Stella Dei Monti” al contrario ci porta dritti a ballare nel Texas di qualche secolo fa mentre le parole, come a intavolare uno splendido piatto agro dolce, ci parla di oggi e di monti in un ironico e azzeccatissimo accenno a cori jodel. “To Ramona” e la tromba di Giulio Cereda ci riportano nuovamente ai confini del Messico insieme a un vecchio tizio di nome Bob Dylan (qua c’è da ridere felici) mentre “Ti ricordi Del Mare” ci propone una poesia in musica sarcastica ma con un retrogusto malinconico. Siamo quasi alla fine ma niente lacrime. Perché ci pensa proprio “Lacrime”, cantata insieme ai Water Tower e alla loro tromba (il testo è scritto proprio da Cecco e Water Tower), a scaldarci ancora il cuore. Se non dovesse bastare il sole.

Questo “Per La Gloria” è davvero bello. Sardonico quanto basta, melodico, innamorato, torrido, carico, brillo e gioioso, mai piatto, mai noioso nonostante il non facile terreno nel quale si cammina. Semplice e comunque denso grazie ad un uso puntuale ma mai ridondante di voce, chitarre, banjo, ukulele, armonica, djembe, cajòn, tamburi, timpano, piatti, udu, shake, maracas, karkabou, bongos e guiro. E dal vivo devono spaccare il culo ai passeri (non me ne vogliano gli ambientalisti).

Non mi resta che lasciarvi con le parole del pezzo finale perché fa un caldo bestiale e ho bisogno di un Gin Lemon o una Corona gelata, un po’ di fresco e solitudine.

Volere tutti e nessuno
Stare bene cosi
Felici e spensierati
Quasi come ubriachi
Ubriachi d’amore
Ubriachi di gioia
Ubriaco di te!

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