Silvio Don Pizzica Author

Era così tanto un bravo ragazzo. Poi ha conosciuto la trap.

Alanjemaal. Parte prima…

Written by Interviste

In occasione dell’uscita del loro primo lavoro, abbiamo intervistato Alberto Casiraghi, leader della band brianzola nata nel 1993 col nome di Rude Pravda ,oggi più enigmaticamente Alanjemaal. In questa prima parte sarà lui a raccontarci chi sono gli Alanjemaal, chi erano i Rude Pravda, cosa impedì alla sua band di pubblicare le dieci canzoni contenute in “ Dalla Ruggine” dieci anni fa, visto che allora furono registrate. Ci spiegherà cosa li ha spinti a pubblicare solo ora la loro opera. Ci rivelerà i loro rapporti con la grande scena alternativa italiana degli anni novanta e duemila e finiremo per chiacchierare del presente e del futuro della nostra musica. Tanta maturità, amore per la musica, disillusione e realismo.
Nella nostra home, trovate in ascolto un estratto dall’album. Allucinazione Ipnagogica.

Ciao a tutti. Per prima cosa, come state?
Ciao. A parte l’influenza, bene. Se poi intendi come stanno gli Alanjemaal artisticamente parlando, allora posso dire che si sentono giovani, nonostante gli “anta” conclamati. Ma appunto, la musica ha il potere di far dimenticare lo scorrere del tempo.

Chi sono gli Alanjemaal? Perché questo nome? Inizialmente la scelta era caduta su Rude Pravda. Poi cosa vi ha spinto a modificarlo?
Gli Alanjemaal sono principalmente una band rock (le varie declinazioni del genere sono secondarie).  Parallelamente, gli Alanjemaal sono una una specie di famiglia, con tutte le dinamiche complesse che essa comporta. Non potremmo definirci diversamente visto che il nucleo fondante si è riunito per la prima volta vent’anni fa con il nome di Rude Pravda. Perché abbiamo poi cambiato nome? Due ragioni: la prima è che venivamo accostati un po’ troppo spesso ai CSI e compagnia (colpa anche di una fanzine che parlava di loro, che però è nata tempo dopo di noi) e la cosa non ci piaceva,  visto che eravamo  molto distanti da quella scena musicale: soprattutto ciò creava equivoci. In secondo luogo, nel 1999 entrò nel gruppo Alessandro al posto del precedente bassista e la conseguenza fu una virata sul versante sonoro. E questa evoluzione doveva essere battezzata con un nuovo nome. Non è stato facile decidere quale. Non possiamo dire cosa Alanjemaal voglia dire. In realtà non vuol dire nulla, almeno non ha un significato comune, ma è intrinsecamente generato dal fatto che siamo assieme, noi cinque.

L’album uscito nel 2012 “Dalla Ruggine”, in realtà, è opera nata molti anni fa, nel 2001. Cosa vi impedì, allora, la sua pubblicazione e cosa vi ha spinto a proporlo al pubblico di oggi?
E’ difficile ancora oggi per noi capire cosa è successo e perché abbiamo perso tanti anni. Non che non ci siamo accorti che molte cose nelle nostre vite nel frattempo deragliassero o si complicassero, anche piacevolmente. Noi su questo disco puntavamo tantissimo. Ci ritenevamo una band matura che con il cambio di bassista era riuscita in poco tempo a fare un salto di qualità notevole, con idee nuove e con un suono, se non originale almeno molto personale. Eravamo convinti della via intrapresa e che attorno a noi ci sarebbe stato interesse. Non a caso Fabio Magistrali, che conoscevamo da una decina di anni, si era mostrato così interessato da riuscire a farci concretizzare quello che avevamo in mente. E quello per noi era un segnale, anche perché lui stesso, ai tempi dei Rude Pravda, aveva rifiutato di lavorare con noi perché non convinto della nostra proposta. Insomma, c’erano tutti i presupposti perché quel disco fosse un punto di partenza importante. Forse aspettative troppo alte – ma in realtà mica puntavamo alla fama e a i soldi…- che si sono infrante contro una marea di rifiuti da parte delle piccole case discografiche dell’epoca. Insomma, un sacco di feedback negativi che piano piano ci hanno smontato e ci hanno fatto perdere tempo, ma sopratutto perdere fiducia, tanto che per un po’ di anni quel disco non sono più riuscito ad ascoltarlo. Certo, si poteva puntare sull’autoproduzione, ma erano tempi un po’ diversi da quelli odierni. Non esistevano i social network, non era così facile distribuire un prodotto da soli se non lo supportavi con una buona presenza live. E in quel momento eravamo praticamente sconosciuti e trovare concerti era per noi difficilissimo. Insomma, abbiamo perso il momento giusto. Poi dal 2004 in avanti tutto si è complicato nel nostro privato e il disco è rimasto lì, sullo scaffale del mio studio.
Abbiamo poi deciso di pubblicare Dalla ruggine lo scorso anno per suggellare la nostra effettiva ripartenza: non dico rinascita, perché in realtà non abbiamo mai smesso di suonare. Ripartenza dall’ultimo momento in cui si siamo sentiti una vera band, con un progetto preciso, con un’identità precisa. Tutto quello che c’è stato nel frattempo, anche se non è da cancellare, è stata una lunga pausa creativa dettata soprattutto da elementi e avvenimenti esterni al gruppo. E’ la vita, una cosa di solito molto complicata.

Non avete paura che, ad orecchie poco attente, il vostro sound possa apparire vecchio, anacronistico, finendo per influenzare negativamente il giudizio relativo alla vostra futura produzione live e studio?
In parte sì, ma sinceramente non ci importa. Pensiamo che ci sia posto per tutti, e che ogni musica, se è suonata con sincerità e competenza, sia degna di essere ascoltata. E poi, siamo abbastanza vaccinati in confronto ai giudizi negativi o supposti tali, che sarebbe stato stupido esitare ancora. Del resto le poche recensioni pubblicate su Dalla Ruggine (mi rendo conto che non è così automatico dare spazio a un disco di dieci anni fa) dicono il contrario.

A proposito, ci sarà un nuovo disco, vero?
Certo. Il nuovo disco è già stato registrato e mixato sempre con il prezioso apporto di Fabio Magistrali. Tra qualche giorno andremo in studio per il master poi penseremo alla copertina e a trovare un’etichetta che sia interessata. Ma se non la troviamo questa volta lo pubblichiamo comunque, e in breve tempo.

I dieci brani che compongono la vostra suddetta opera prima sono stati registrati e prodotti da Fabio Magistrali (Afterhours, Marta Sui Tubi, Perturbazione). Come è nata questa collaborazione?
Conosco Fabio dal 1989 e ci avevo già lavorato assieme con gli I meet I per due session di registrazione al Window Studio, il posto dove lui lavorava all’inizio dei ’90. Siamo sempre stati in contatto, fino a collaborare con noi nel 2001, come ho raccontato sopra. Ora, dopo esserci persi di vista per quasi dieci anni, ci siamo incontrati di nuovo per finire questo nuovo disco che avevamo iniziato a registrare da soli un po’ di tempo fa. Lavorare con Fabio è sempre un’esperienza, soprattutto di vita. La stima reciproca e l’amicizia che ci lega è l’elemento fondamentale per il quale abbiamo deciso di lavorare ancora con lui. Questo al di là della sua competenza, della sua professionalità, ma soprattutto del suo gusto e della sua capacità di capire e di accettare quello che siamo e quello che suoniamo.

Il mercato della musica è cambiato radicalmente nel corso degli anni, con l’affermarsi del web, del P2P, degli Mp3. Se la musica sembra averci perso di qualità, di certo ci guadagna la voglia di conquistarsi il proprio spazio attraverso le esibizioni dal vivo. È questo che vi ha spinto a scegliere il download gratuito (ecco il link http://alanjemaal.bandcamp.com/) o ci sono motivazione diverse?
La motivazione principale è che per un gruppo della nostra dimensione (infinitamente piccola) è impossibile vendere dischi. In realtà i dischi non li vende quesi più nessuno, se non ai concerti. Oggi è fondamentale usare i primi per promuovere l’attività live. A questo punto della nostra carriera e della nostra vita per noi l’importante è che qualcuno ci senta e ci apprezzi. Se poi vuole comprare il disco a un nostro concerto perché quello che ha scaricato gli è piaciuto, tanto meglio. Detto questo, siamo consapevoli che economicamente saremo sempre in perdita. E questo, paradossalmente, potrebbe non essere il nostro problema principale.

Che cosa ascoltavate dieci anni fa e cosa ascoltate oggi? Quali artisti vi hanno maggiormente influenzato?  In una mia recensione ho accostato il vostro lavoro, nei suoi diversi passaggi, a nomi come Umberto Palazzo e Il Santo Niente, P.F.M., Massimo Volume, Slint, Tortoise, Scisma, Ustmamò, Perturbazione, Virginiana Miller, Marlene Kuntz. C’è qualche intruso o qualcuno che non doveva mancare?
Domanda non difficile, ma che richiederebbe tutto lo spazio di questa intervista, anche perché siamo in cinque e mica ascoltiamo le stesse cose. Chiariamo un punto necessario per capire il perché è difficile dare un riferimento preciso: non abbiamo mai scritto, almeno consapevolmente, una canzone partendo da un preciso modello musicale. Ovviamente, quello che si ascolta quotidianamente influenza quello che poi le tue dita tirano fuori dalla tastiera, ma non abbiamo mai voluto suonare come il gruppo x o il musicista y. Abbiamo sempre cercato di buttare dentro le nostre passioni musicali infischiandocene degli steccati, una cosa per noi molto stupida. E quindi cosa ascoltavamo? All’epoca di Dalla ruggine ci mettevano d’accordo i Motorspycho, molta psychedelia sixties californiana, Husker Du, Fugazi, June of 44, Blonde Redhead, Don Caballero, Sonic Youth e migliaia di altre cose. Solo io ascoltavo l’ormai morente post-rock, ma sono sempre stato l’onnivoro del gruppo. Dei nomi italiani che hai citato mi sono sempre piaciuti i Massimo Volume, mentre i Perturbazione erano amici miei già da diversi anni. I Marlene Kuntz, per dire, io non li ho mai digeriti, mentre qualcun altro nel gruppo li ascoltava.
Oggi più o meno i gusti sono rimasti quelli, anche se ci mi piacciono anche altre cose, come gli Oneida più psychedelici, Akron/Family, Field Music, Low, per dire qualche nome tra i più noti. Tra gli italiani nell’ultimo anno mi sono piaciuti Gazebo Penguins, Verbal, Fine before you came. Ti posso dire che in questi giorni sul mio Itunes girano (in stetto ordine alfabetico): Bill Fay, Django Django, Extra Life, Father Murphy, Fucked Up, Godspeed You! black emperor, Hanne Hukkelberg, Japandroids, Moon Duo, Pontiak, Putiferio, Swans, Six Organ Admittance, Tu Fawning.

Fine prima parte.

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The Crooks – Atomic Rock

Written by Recensioni

Quello che avete davanti e spero tra le mani, non è certo il disco di una band esordiente in cerca di una fetta di pubblico disposta a seguirli in giro per l’Italia e fare guerrilla marketing nel ristretto giro di amici del paese. Loro sono The Crooks, formazione già nota al pubblico Punk’n Roll e Hard Core del tipo non troppo “incazzoso”. Nascono a Milano circa sedici anni fa, dalla mente di Fab O’ Loose che plasma l’asse portante della band, tra rimandi al punk newyorkese old school (New York Dolls, Johnny Thunders & The Heartbreakers, Ramones) ed echi di maleducato Rock’n Roll. Agli albori, la scelta principale ricade nell’esibizione live che regalerà loro la possibilità di condividere il palco e le esperienze, con Libertine, Happy Revolvers e Jackpot, e infine The Datsuns. Grazie alla loro voglia di esprimersi e di imparare, le diverse avventure con le band suddette diventano lo strumento migliore per la ricerca e il miglioramento dello stile del complesso lombardo. Da quel momento, i quattro sono pronti a incidere la propria vita e regalarvi la loro anima attraverso il quarantacinque giri You Make Me Feel So Sick, l’Ep The Dog, gli album Speed Kills, Nothing To Lose e High Society R’n’R, più diversi brani sparsi tra le più disparate compilation.
Nel 2012 ecco arrivare il momento di una nuova svolta per Brix (drums and percussions), Ette (guitar, vocal and percussion), Fab o’Loose (vocals and guitar) e Cool J Piteco (bass) che si manifesta con la realizzazione del loro quarto album, il lavoro che avrà l’obiettivo di consacrarne la maturità compositiva. Ancora una volta tra le loro influenze troviamo il punk a stelle e strisce di 2nd Chance, Victim Of The Circumstances ma il sound, particolarmente ammorbidito in alcuni passaggi, non disdegna rimandi a mostri sacri del Pop e del Blues come Beatles e Rolling Stones. Anche se non espressamente citata dagli stessi The Crooks, particolarmente evidente è anche la similitudine con un’altra grande band del passato, i Social Distorsion di Mike Ness, specie nei canali del Rock’n Roll. In realtà, più che il sound nel suo insieme che avrete capito essere notevolmente derivativo, quello che piace è l’idea di inserire strumenti solitamente non troppo congeniali al genere come fiati, pianoforte e maracas e farlo con naturalezza, senza ridondanti e cacofoniche forzature.
Atomic Rock è disponibile nel formato Lp e Cd. In quest’ultimo troverete le versioni Cd e vinile di “Smash It Up”, due versioni di “Victim Of The Circumstances” e l’unica traccia in lingua italiana “Piccolo Uomo”.
L’album parte a mille con “2nd Chance”, brano di Punk’n Roll della specie più classica, carico di riff mozzafiato, voce da inni generazionali e coretti coinvolgenti, del tipo che sta facendo la fortuna di un’altra band italiana che possiamo accostare per sonorità e non certo per collocazione territoriale, ai milanesi, gli One Trax Minds di Alex Maiorano, dei quali potete leggere, proprio su rockambula, la recensione al loro ultimo lavoro. In “989”, brano che allenta un po’ il ritmo rispetto all’inizio, ci manteniamo sempre su binari particolarmente classici, evidenziati anche da alcuni piccolissimi omaggi chitarristici ai Sex Pistols. Con “Smash It Up” fa la sua comparsa, il primo ritornello veramente azzeccato di questa prima parte d’album. Poche parole e cori a fare da contraltare bastano a creare un inno garage punk che si rispetti.  Passando per “Once Twice Millions Of Times”, ancora carica di distorsioni sociali, ci troviamo nella bellissima e irriverente “It’s Allright”, brano di Ettore ETTE Gilardoni (è lui che si divide con Fabrizio Cimolino per la stesura dei pezzi), che rimanda in alcuni passaggi anche ai padri del Punk Rock, i Ramones. Di forte matrice Hardcore anni ’80 e anche un po’, specie nel cantato, stile Guttermouth, è la feroce “Kneel Down”. Il primo vero gioiello è invece “Opportunities” nel quale si può notare tutta l’influenza del proto punk newyorkese, grazie al sensazionale e preciso inserto del sassofono di Dario Guidotti. Ancora Guidotti, stavolta con l’arpa, è protagonista, nonostante lo spazio limitato, del brano “F.F. R’n R”. Anche qui, è riproposto in maniera originale, un pezzo di storia della musica, che va dal CBGB’s fino alla City. Chitarre taglienti e voce acida, rullate potenti e giri di basso rancidi (in alcuni passaggi, l’accostamento con la band di Tim Armstrong e Lars Frederiksen non è per nulla azzardato).  Dopo “Jupiter’s Party” arriviamo all’ultimo brano in scaletta, “Victim Of The Circumstances”, senza ombra di dubbio il massimo dell’intera proposta. Dopo l’intro triste, malinconico che sembra presagire note deprimenti, il Sax di Guidotti inizia un assolo da paura, che in una manciata di secondi riporta i ricordi indietro di decenni. Grazie all’accompagnamento perfetto di tutta la band, il sound spazia dal Glam Rock e il Proto Punk di New York Dolls, T.Rex, Roxy Music, fino al Punk più classico, fatto di jeans e chiodo, e ancora ai più attuali Rancid e Social Distorsion. Il disco sarebbe finito. C’è spazio ancora per le già citate altre due versione di “Smash It Up” e “Victim Of Circumstance” che non aggiungono molto all’opera e l’unica traccia cantata in lingua italiana, “Piccolo Uomo”, che sembra più un semplice divertissement. Oltretutto, se nel complesso il brano potrebbe benissimo essere stato scritto dai primi Punkreas, all’interno troviamo due inserti che non capisco se voluti omaggi o riflessi incondizionati. Al secondo quarantotto (Sex PistolsAnarchy In The U.K.) e al minuto uno e trentuno secondi e nel finale (RamonesThe K.K.K. Took My Baby Away).
Nonostante la natura di The Crooks, il suo habitat, la sua massima espressione sia ancora rappresentata dalle esibizioni live, dove ovviamente meglio si riesce a caricare e coinvolgere il pubblico, devo ammettere che il loro quarto disco, Atomic Rock, è in grado di creare con efficacia la stessa atmosfera di sudore e grida che si respira sotto il palco. Ha un solo enorme difetto, che nulla ha a che vedere con il fatto che ci sia un’infinità di palesi influenze. Esclusa la sola “Smash It Up” nessuno dei brani riesce a mantenere la melodia valida e avvincente per tutta la sua durata. Dove il ritornello è spettacolare, il resto è piatto e viceversa. La stessa “Victim Of The Circumstances”, che per tre quarti non continuativi adoro, presenta strappi che sono addirittura fastidiosi, inseriti nel contesto del pezzo. Senza di questo, sarebbe stato un grandissimo disco Punk’n Roll. Per ora è solo una bellissima conferma.

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A. Hawkins – Demo 2012

Written by Recensioni

A volte non è questione di fare il critico stronzo, saputello ed egocentrico. A volte è veramente complicato giudicare il lavoro di artisti o pseudo artisti che magari si fanno il culo tra un “lavoro vero”, come lo definirebbe un padre un po’ all’antica e la loro passione. Il fatto è che, per quanto si possa apprezzare l’impegno e tutta la grinta di chi non ha nessuno alle spalle a pompare la loro carriera, è impossibile giudicare in maniera corretta se lo stesso musicista non riesce, per mancanza di mezzi, a esprimere completamente la propria idea di musica. Non è sempre questione di peculiarità artistica ma anche di qualità di registrazione. Non è una cosa da poco, perché influenza la proposta in maniera decisiva. Un conto è desiderare un suono decisamente lo-fi, un altro è esserne forzatamente costretti. L’importante è non fare l’errore di confondere la validità del musicista con quella della musica.
Probabilmente Alberto Atzori, alias Albert Hawkins, è uno che di musica ne capisce parecchio. A cinque anni comincia a suonare il pianoforte, a tredici la batteria e a quindici è già pronto per formare le prime band “adolescenziali”, punto di partenza obbligato di tanti che poi di musica hanno vissuto. È una di quelle persone che nascono con la melodia nel sangue, ma la cosa, molto spesso, non basta a regalare l’Olimpo. A diciannove anni decide di cimentarsi anche con le sei corde e l’anno successivo stabilisce che è ora di provare a fare tutto da solo. Da qui prendono piede l’idea del progetto solista A. Hawkins, l’idea delle quattro tracce del demo di cui stiamo parlando, l’idea di cercare qualcuno disposto a produrre il giovane artista. Dentro il demo c’è tutta la tragedia della musica italiana, c’è tutta la sofferenza di chi si fa il culo sperando di poter esprimere al meglio quella che è la propria vita, c’è tutto un mondo di talenti che non possono emergere e di merde col bel faccino che qualche pappone ha piazzato nel programma Tv giusto.
Nell’ascolto dei quattro pezzi, nel quale troviamo oltre ad Atzori, la sola partecipazione di Stefano Gueli per l’assolo di chitarra in “From A Storm”, brano d’apertura, emerge una disomogeneità preoccupante tra la varietà di strumentazione, quasi come se ogni elemento fosse un’entità a se stante che se ne fotte del fatto che si trova incastrata in una canzone. E cosi la chitarra, che dovrebbe aver nella musica di Hawkins un ruolo chiave, diventa quasi un accessorio incapace anche solo di esaltare la sezione ritmica. Nel secondo brano “I’m Here”, nel suo andamento più sfumato, inquieto e intimo, si può notare la banalità esecutiva del basso e della batteria, cosa che ritroviamo in realtà in tutto il lavoro, anche se con meno enfasi. In “Rain To Rest”, sembrano risolversi alcuni dei problemi ascoltati in precedenza, la chitarra prova a riprendere corpo e la voce, di cui tra poco parleremo, riesce a mescolarsi con maggiore efficacia al sound di Alberto Atzori, anche se seguendo una linea più precisa e monotona. Il tutto si chiude con “Rock’n Love” e il suo pseudo blues acido da strisce bianche e malinconie sixties.
Stavamo parlando della voce, se non erro. Ripeto che la qualità è scadente e quindi ogni giudizio va preso con le pinze ma di certo non stiamo parlando del nuovo Freddie Mercury. Il timbro non ha alcuna particolarità che possa rendere il suo suono unico, non ha estensione invidiabile, spesso l’intonazione non è perfetta. Diciamo non è la voce di uno che possa fare il cantante. A meno che…
C’è un’altra cosa che non mi torna. Una persona che ha studiato cosi tanto la musica, che strimpella da prima che iniziasse ad andare a scuola, che sa suonare tanti strumenti, che decide di non aver bisogno di una band che lo aiuti a esprimere le proprie idee, si mette inevitabilmente sulle spalle un grosso carico di responsabilità. Quello che ci si aspetterebbe è un uomo che utilizzi tutta la strumentazione in maniera irreprensibile e brillante e magari che sia capace di creare melodie superbe. Pensate a multistrumentisti come Nicola Manzan e la sua Bologna Violenta ad esempio, oppure, in ambito internazionale, a Luis Vasquez, in arte The Soft Moon. Invece, ad Alberto Atzori non riesce nessuna delle due cose. Basso, batteria e chitarre sono suonati in maniera elementare, quasi dozzinale, spesso senza che riescano a legarsi tra loro. Le linee di basso, in particolare, sono al limite di una prima lezione di corso per principianti e inoltre, anche a livello di melodie, non c’è traccia alcuna di qualcosa che possa dirsi sufficientemente orecchiabile oppure ricercata. Su una cosa sono sicuro. Con altri mezzi, A. Hawkins avrebbe fatto tutt’altra figura ma non possiamo ridurre a questo la scarsa proposta dell’artista. La piattezza del sound, la voce mediocre, le melodie assenti, le poche idee messe sul piatto, non sono cose che dipendono dalla qualità di registrazione. Forse A. Hawkins avrebbe bisogno di una band più di quanto lui stesso possa pensare.

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Lactis Fever – Lactis Fever

Written by Recensioni

“In provincia di Como fa freddo quasi tutto l’anno.
Non c’è molto da fare la sera.
Noi, da qualche anno, ci troviamo in una saletta prove,
beviamo e ci picchiamo.
Altre volte ci capita di immaginare posti in cui non viviamo,
gente che non conosciamo.
Che sia sempre estate.
Che sia sempre natale”

Lactis Fever
 
Ecco a voi la dimostrazione che la musica Pop non è necessariamente un rompimento di coglioni piano e voce oppure un’accozzaglia di banalità musicali e liriche ma qualcosa che stimola la nostra vita, la nostra anima, cercando di ridare con intelligenza, voglia di esistere e ridere, gioia, spensieratezza e voglia d’amare.
La band comasca che sta girando nel mio Hi-Fi nasce nel 2005 e dopo diverse esibizioni live, incide il primo Ep per l’etichetta romana Peteran Records. A due anni di distanza la loro carriera di poppettari incalliti e svergognati comincia a prendere una certa forma, con la partecipazione a Operazione Soundwave su Mtv nel 2007, la vittoria al Cer.Co Top Band e l’uscita, nel 2010, del primo Lp intitolato The Season We Met, registrato a La Sauna d Varese e prodotto dalla Tubular Records, che inizia a far conoscere la band ad un pubblico più ampio grazie alle positive recensioni di alcune webzine di settore. Come cantava Caparezza “il secondo album è sempre il più difficile” ed ecco a voi l’omonimo Lactis Fever, prodotto con Matteo Cantaluppi (Bugo, Edipo, The R’s, The Canadians), disco che si pone proprio l’obiettivo di lanciare uno sguardo al mondo e all’esistenza senza piangere troppo per le sue brutture ma piuttosto sorridendo alla bellezza, anche quando si analizzano con intelligenza aspetti bui della vita.
Le nove tracce composte da Luca Tommasoni (voce e chitarra), Giovanni Morganti (Basso e cori), Roberto Tagliabue (batteria) e Riccardo Borghi (chitarra e cori) sono un inno alla beatitudine ed alla purezza. Già sotto l’aspetto estetico, nel colore tenue e le forme rotonde dell’artwork rosa pastello curato da Valerio Bianchi, si evince la necessità di non aggredire il pubblico ma più che altro di cullarlo senza comunque spegnergli il cervello. I circa trenta minuti che vanno da “The Worst Thing You’ve Ever Done” a “Tomorrow” sono una cavalcata nel mondo dell’Indie Pop di lingua inglese, con infiniti rimandi alle grandi band moderne del genere (a un passo dal plagio la sezione ritmica di “Shadows Of Doubt”) senza le solite divagazioni (stra abusate) nel mondo Jangle Pop e Twee Pop di grandiose band come The Smiths o Belle And Sebastien, come accade costantemente più spesso nella scena popular nordeuropea sempre più in fermento e soprattutto senza pomposità Chamber Pop o Piano Pop ma piuttosto con un occhio di riguardo per lo spirito Rock che evidentemente pervade la mente dei quattro ragazzi e che trova riferimenti più validi nei nomi del Britpop e del pop/rock statunitense stile Killers, Glasvegas, Editors, ecc…. Il singolo di lancio “The Sun Is Shining” sembra invece un palese riferimento, specie nella parte vocale, alla maniera di Billie the Vision & The Dancers. Se è vero che si tratta di Pop, non troppo originale e con continui riferimenti, volenti omaggi o nolenti errori non sappiamo, a grandi artisti della scena, la cosa non deve assolutamente sminuire il lavoro bellissimo dei Lactis Fever che mostrano una capacità compositiva, esecutiva ma soprattutto di ricerca melodica che sarebbe invidiata da tanti di quei giganti di cui parlavamo sopra, spesso alle prede con carenze d’ispirazione demoralizzanti. L’aggiunta dei cori all’interno delle canzoni non fa che aumentare l’impatto emotivo dei pezzi dando loro una carica che solitamente solo un certo tipo di rock “da stadio” riesce ad avere. Anche quando il sound diventa più languido e intimo, come in “Oh Lord” o “To Be Loved” le note e le parole di Luca Tomassoni non scendono mai nel patetico, anzi danno ancora più cuore alla musica dei Lactis Fever.
Se devo cercare qualche difetto, oltre alla poca originalità che sfocia in alcuni passaggi nella apparente ingenua scopiazzatura, direi che puntare sulla accessibilità, anche se questo è il palese obiettivo della band, rischia di sfociare nella eccessiva appianamento del suono, che alla lunga potrebbe risultare noioso ma solo il tempo potrà dare risposta a questa critica. Forse qualche idea in più si poteva inserire, pur sempre senza dare troppa ampollosità ai pezzi e quindi distruggerne il cuore stesso. Inoltre non mi sembra ci sia niente di eccezionalmente interessante sotto l’aspetto stilistico dei quattro ma ovviamente non hanno neanche fatto molto per dimostrare il contrario perché tutto fila liscio senza nessun eccedenza ne nella sezione ritmica, ne nella parte vocale e cosi via. Se non avessi trovato nulla ma proprio nulla da ridire, se gli arrangiamenti fossero stati eccelsi e ricercati, se la voce fosse ai livelli di un Jeff Buckley, se…se…se…
Non ragionate con i se ma godetevi un disco assolutamente meritevole e soprattutto apprezzabile da chi non ama troppo le spigolature di un certo tipo di Rock eppure non vuole continuare ad ammorbarsi con le frociate del Pop, del tipo che piace anche a vostra mamma.

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Death By Pleasure – Wasted, Wasted Ep

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Sabato 8 Dicembre.
Da ieri Pescara è invasa dall’onda anomala dell’Indierocket. Quest’anno niente location fisse. Una grandiosa festa itinerante come un serpente striscia per la città con la sua scia di ragazzini ubriachi, dal cuore di Manthonè fino alle discoteche (se cosi si possono definire) delle zone più periferiche. Per qualcuno sarà una serata memorabile. Altri si chiederanno chi cazzo sono Delawater, Sam Mickens, New Candys, Disquieted By, ecc… Molti rimpiangeranno quei bei sabato di merda passati a sbronzarsi, scazzottare, vomitare e ballare all’ombra di quattro Dj e basta. Io mi scolo l’ultima latta al sapore di piscio caldo e mi fiondo nella mischia. Stasera si va all’Orange, uno dei pochi locali di genere, di quelli da cui gli hipster, di solito ma non sempre, stanno alla larga, pieno di metallari incalliti, con barbe incolte e capelli unti tipo nani da Fantasy Movie. Non mi sembra di aver mai visto nessuno con grossi martelli medievali ma sono sicuro che nel bagagliaio delle loro belle monovolume debbano essercene. Mi fermo a pisciare sotto a un ponte, dove quattro ragazzetti ben vestiti, con petto villoso in vista nonostante il freddo, si fanno la loro sniffatina prima di iniziare la serata a caccia di figa con i soldi di papà. Li mando a cagare quando iniziano a sbraitare come cani che difendono le loro troie dalla vista del mio cazzo e continuo la mia odissea tra le anime dei dannati che lamentosi si accalcano all’ingresso di una discoteca Reggaeton dove rumeni strafatti in mutande litigano con sbirri annoiati e pieni d’odio. Io vado all’Orange.
Stasera tocca al duo trentino (Mirko Marconi a voce e chitarra e Lorenzo Longhi, sostituto di Marco Ricci, alle percussioni) Death By Pleasure. Arrivo davanti al locale e il pubblico è esattamente quello che ti aspetti. Metallari cronici che vanno al concerto, anche se dovesse suonare una cover band dei Pooh, qualche punkettone impenitente, universitari con pochi soldi in tasca, puttanelle dark, trentenni con la fobia di crescere ed Io.
È abbastanza presto e mi isolo cercando di fumare una Pall Mall 100’s e bere una Peroni comprata da un pakistano, senza che nessuno venga come al solito a rompere le palle per una sigaretta o per vendere un cazzo di accendino che domani avrò perso. Tutti sono in fermento ma non ancora abbastanza. È presto, vi dicevo e gran parte di questi sconosciuti compagni di sbronze è ancora troppo serio perché abbandoni le proprie timidezze disadattate. Un tossico (almeno cosi mi sembra) comincia a fare il gradasso, urlando e ridendo, sbraitando verso i deboli sobri convinto della propria essenza di unico essere libero della terra e della serata. Entra ed esce dal locale come il cazzo di un eiaculatore precoce e alla fine, proprio quando do i soldi al negro per l’accendino con un culo sopra (il mio l’ho perso, puttana Eva) quel cazzo di tossico mingherlino fionda un cazzotto a braccio teso sul volto di una tipa, di quelle stile universitaria che ce l’ha solo lei, la figa alla francese. È talmente moribondo e scheletrico che il dolore fisico non è niente. Deve averla ferita dentro però e lo manda a fare in culo in maniera molto stravolta. Lui si dilegua, ridendo, il coglione mentre spengo la centos e bevo un altro sorso di birra gustandomi la scena del ragazzo frocio di lei che non fa assolutamente nulla, finendo per farla incazzare ancora di più. In realtà nessuno ha fatto niente, non solo il frocio (che comunque probabilmente se la scopa, quando lei vuole e quindi avrebbe avuto motivi migliori per non farla incazzare). Voglia di sopravvivere, menefreghismo, la tipa sarà stata sul cazzo a tutti? Chi può dirlo. In fondo neanche io faccio niente, oltre che accendermene un’altra e stappare sessantasei. Bella serata di merda la loro. Stasera niente pelle per il frocetto.
Faccio un’ultima pisciata dietro al vicolo e sono pronto a entrare. I Death By Pleasure hanno appena iniziato. Una bomba; una cazzo di fottuta figata, porco il nostro grande signore delle tenebre Satana. Lo dico ad alta voce e sono costretto a scusarmi con gran parte dei suoi adoratori presenti. Il locale puzza di testosterone. Anche le fighe puzzano di testosterone e capisci perché il Rock non è roba da checche. Qui anche le donne sembrano avere le palle. Inizia un lento pogo violento e mentre cerco di prendere un bicchiere di vino a buon mercato (altro che prezzi da Milano da bere come per il corso) mi arriva un pugno dritto sugli occhi e ciao ciao.
Domenica 9 Dicembre.
Mi sveglio alle dodici nel letto di casa a sessanta chilometri dall’Orange e da Pescara. Che cazzo è successo? Non ricordo niente e non ho nessun livido se non allo stomaco. Forse al concerto non sono mai andato? Sono mai uscito da qui? Mi alzo dalla culla e vado direttamente in cerca di cibo. Prendo Wasted, Wasted, l’Ep dei Death By Pleasure e comincio a ingozzarmi di Garage, Lo-Fi, Punk, Shoegaze, Psichedelia Sixties che non ci metto più di quindici minuti a divorare tutto. Il mio corpo non regge ed esplode in un sound da paura, come se le budella mi fossero uscite dal deretano e si fossero infilate in un tritacarne. Wasted, Wasted è una cazzo di fottuta figata. Ho sentimenti discordanti verso le accoppiate solo chitarra/voce e batteria. Mi sono rotto le palle di cloni che scimmiottano White Stripes o Black Keys per fare poi la fine dei Bud Spencer Blues Explotion.
Ma loro sono di un’altra pasta.
Già l’inizio di “Spontaneous Combustion”, il suo intro Hard Rock acido, il proseguimento punk garage che sembra uscito da una vecchia cassetta anni settanta, la potenza della sezione ritmica minimale e devastante, mi aprono il cervello. Il cantato di Mirko per quanto tecnicamente non sia niente di eccezionale è perfetto nel suo essere volutamente anarchico. Le note si trascinano violentate dal fragore, ricalcando la nuova ondata rumoristica alla No Age o Clockcleaner senza dimenticare le influenze del buon vecchio shoegaze britannico, specie nella fantastica “Points Of View”.  Se tutta la componente data dall’influenza dei suddetti generi è rimescolata con violenza nella prima parte dell’Ep, con “Shy, Shine”, i trentini riescono quasi a dare una struttura melodica al loro garage multicolore, partendo da un intro di scuola barrettiana per finire proprio rielaborando armonie tipiche stile The Piper At The Gates Of Dawn (il primo album proprio dei Pink Floyd) chiudendo in una valanga sonora devastante.
Con “Find A Fire That Burns” un sospetto precedente trova la sua conferma. Dentro questo Ep ci sono tanti ascolti dei grandissimi Nirvana. Più di quelli che chiunque abbia ascoltato l’Ep potesse immaginarsi. Come se quel Grunge primordiale fosse riproposto con ancor più grinta, mescolato allo Shoegaze e al Noise. Anche nella voce c’è una sorta d’involontario omaggio al modo di cantare di Kurt Cobain e all’esplosione del suo cervello.  Le sperimentazioni sonore di “Waiting, Wasting” anticipano alla perfezione LBMB che, se non convince pienamente nella parte iniziale, poi diventa un ordigno vero e proprio nel finale.  Nel complesso qualche assonanza con il Blues di White Stripes e Black Keys c’è ma non è mai egemonico rispetto al resto che è pura adrenalina!
Lunedì  10 Dicembre (forse)
Mi sveglio con un mal di testa da paura. Che cazzo. Accendo la luce e mi guardo intorno. Dove cazzo sono? Non è la mia camera, anche se la forma è la stessa. Fa un caldo infernale. Lo stereo non c’è più, non c’è il giradischi, nessun vinile, nessun libro, nessuna bandiera dei Sex Pistols, non c’è niente. Apro la porta della mia camera e mi accorgo che tutto sta bruciando. La casa è in fiamme ed io sono in trappola. Ed ho anche un cazzo di occhio nero.

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Leaves & Stone – The Dancer

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Il progetto di Giacomo Manfredi denominato Leaves  & Stone (letteralmente Foglie e Pietra), nato nel 2011, parte dall’idea di fare musica essenzialmente per emozionare, in maniera languida e sentimentale, senza esasperazioni, esagerazioni o voglia di stupire. Si parte, a detta dell’autore, da influenze che vanno dai Coldplay ai Sigur Ros, passando per The Cinematic Orchestra fino a Damien Rice. A essere sinceri, delle atmosfere gelide e sognanti, dei muri di chitarra Post Rock e del cantato incantevole degli islandesi non c’è quasi traccia. Qualche similitudine con la banda Bassotti altrimenti detta Coldplay ci sarebbe anche. Solo che gli inglesi, a differenza del nostro compatriota Leaves & Stones, riescono ogni tanto a indovinare qualche melodia orecchiabile (per ora lasciamo perdere il fatto che, di solito, tali melodie, Chris Martin e soci le copiano spudoratamente da altri. Sapete la storia di “Speed Of Sound”, di “Computer Love” e del fatto che i Kraftwerk dovettero essere aggiunti  tra gli autori? Andate ad ascoltare, è da ridere). Anche il paragone con il Nu Jazz e Downtempo dei The Cinematic Orchestra non è facile da reggere mentre forse la maggiore vicinanza è proprio con l’irlandese Damien Rice, il quale però punta su elementi Folk qui totalmente assenti.
Non basta a Giacomo il circondarsi di validi elementi, come Enzo Fornione a piano e chitarra, Andrea Scano a chitarra e basso, Marco Ricotti alla batteria, Daniele Valentini a chitarra ed electronic set ed Elena Bonanata e Deborah De Pasquale alla voce. E non sappiamo quanto gli apporti di Ruggero Frasson al piano e Emanuele Fiammetti al violoncello possano bastare nelle esibizioni live. Bastare a cosa, vi chiederete.
Io parto sempre dal presupposto che, il primo elemento critico da prendere in considerazione per valutare l’opera di un artista, sia il capire quello che è l’obiettivo e individuare quanto vicino a quell’obiettivo si sia andati. Nel nostro caso, è evidente che la scelta sia quella di colpire al cuore, commuovere, appassionare, far piangere l’anima. Per farlo si punta essenzialmente su due elementi, piano e voce, lasciando al resto solo sprazzi inutili (le chitarre convincono solo in “Summer Sky”, il cui intro è l’unico momento che può far tornare alla mente la band di Jonsi). Puntare su piano e voce non è scelta facile. Ancor più quando il primo è suonato in maniera tanto semplice ed elementare. Tutto il compito finisce per appesantirsi sulla voce, sia di Giacomo Manfredi che delle due donne che lo accompagnano in “Untitled”. L’unica via d’uscita per salvarsi dalla catastrofe sarebbe il possesso di due corde vocali con le palle quadrate. Non è il nostro caso. La voce non regge il peso, non presenta capacità straordinarie, non è abbastanza profonda ne espone ampiezza buckleyana. Non ha un timbro memorabile, non ha lacuna particolarità che possa tirarla fuori dal calderone del “già sentito”. Non c’è nulla che possa  distinguere Leaves & Stone da tutto il resto. Semplicemente una voce discreta e poco altro. Non ho mai dato troppo peso a gente come Elton John o Tori Amos e questo The Dancer espone in modo preoccupante la stessa attitudine, la stessa impostazione, lo stesso stile, pur se in maniera meno pregiata. Non è il classico disco brutto, fatto male, mal registrato, con parole senza senso, stonature, melodie inascoltabili, scopiazzature senza vergogna. Non lo è. Eppure non mi piace perché non riesce ad accompagnare la mia mente e tenerla per mano attraverso la nostalgia dei miei ricordi. Sul mio volto, non c’è nessun “malinconico sorriso”. Provate voi e mandatemi una foto.

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Space Paranoids – Under The King Of Stone

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Nati nel cuneese nel 2006, l’attuale compagine degli Space Paranoids prende forma solo lo scorso anno, dall’incontro tra Simone Rossi (voce e percussioni), Cristiano Rossi (basso), Luca Bruno (batteria) e Andrea giostra (chitarra e voce). Da quel momento in poi, lo spirito dei quattro li porterà verso la ricerca di un possibile futuro per certe sonorità in fondo forse anche troppo datate per le orecchie di noi divoratori di dischi. Partendo dall’universo Stoner che fu terra di grandi quali Kyuss, Queens of the Stone Age e Clutch e dal mondo psichedelico e spaziale di Monster Magnet, Colour Haze ed Earthless il loro obiettivo sembra essere quello di trovare la strada per unire il passato con i luoghi del loro presente fatto di scabri territori di montagna, pinnacoli imbiancati, macchie inviolabili, specchi d’acqua tersi e culture morenti, con l’unico scopo di cercare la catarsi attraverso la decantazione spirituale. Una sorta di viaggio allucinogeno nei deserti della California trasportato nei territori del nord dell’Italia. Il tutto registrato in presa diretta per dare maggiore convinzione alla durezza del suono.
I sette brani che compongono Under The King Of Stone sono un tripudio alle contaminazioni, ai rimandi, alle citazioni (spudorata quella in “Called Goblins Haze”. Avete indovinato?) eppure il loro non è per niente un lavoro spiacevole. Trasuda la consapevolezza di un background culturale musicale di un certo spessore e l’esecuzione dei quattro è impeccabile (senza dimenticare la partecipazione di Tommaso Fia e la sua Hammond nei brani “Under The King Of Stone” e “Blind Cyrus”) oltre che energica e potente, come si conviene per il genere, pur senza l’apporto della seconda chitarra (se non in casi rari). I quattro riescono a produrre esplosioni sonore imponenti che non sfociano mai in distorsioni eccessive e l’ampio spazio lasciato alla strumentazione di contorno, basso e batteria su tutti, non fa altro che intensificarne la furia.  Veramente interessante il lavoro alle quattro corde di Cristiano che riesce a reggere le ritmiche anche nei momenti di pausa necessari alla fluidità della narrazione sonora.
Non si può non applaudire inoltre la voce di Simone Rossi che per quanto manipolata, detto tra virgolette, riesce pienamente a rendere l’idea di quello che è l’obiettivo della musica degli Space Paranoids e soprattutto riesce a evocare paesaggi torridi e gelidi nello stesso tempo e a saltare dalle diverse variazioni sul tema con estrema convinzione senza mai diventare prevaricatrice nei confronti del resto.
Tra i sette passaggi del viaggio, parecchio avvincente è “Black Salamander”, in cui la chitarra di Andrea Giostra si presenta acidissima e pesante nello stesso tempo, quasi sfiorando giri funky.
Il mio brano preferito (di questi primi ascolti) è invece “Blind Cyrus”, il meno Hard e più Blues del disco, soprattutto per il suo ritmo soffocante e ossessivo in contrapposizione con la voce carnale, calda, spirituale e profonda di Simone. Interessanti anche i passaggi di chitarra e Hammond, che danno al brano un senso di esplorazione psichica molto sixties.
Chiarito che non ritengo un problema, la scarsa originalità quando il lavoro è ben fatto, ci sono alcuni punti però che non convincono. Per prima cosa, credo che sarebbe stato opportuno dare un’impronta ancora più acida e lisergica al sound dell’album. I passaggi psichedelici di vecchio stampo sono molto pochi e non riescono a dare quel necessario senso di completezza. Molto più marcata, è la natura Hard Rock che, in combutta con le ritmiche e il cantato Stoner, finisce per tagliare fuori quegli aspetti psico-space, oltretutto richiamati evidentemente già dal nome stesso della formazione, che avrebbero certamente dato maggiore corpo a Under The King Of Stone. Penso ad esempio alla title track, che per quanto eseguita con una certa intensità, finisce per durare fin troppo (oltre sei minuti annoiano senza opportuni cambi di ritmo) in relazione all’idea di base del pezzo.
Molto più interessante invece, sotto quest’aspetto, “Electric Rotor Crossroad”, che col suo intro strumentale e il muro di chitarre che segue, finisce per ricordare anche un tipo di Post Rock stile Mogwai, anche se presto reindirizzato verso i lidi bollenti dello Stoner.
Un altro problema che ho trovato troppo seccante e vitale per essere ignorato è quello della registrazione. Preciso che registrazione e mixaggio sono opera di Massimiliano “Mano” Moccia al Blue Records di Mondovì e la masterizzazione di Niklas “Mr. Dango” Kallgren al Bombshelter Studio di Orebro. La cosa è evidenziata soprattutto dal brano “Deadmouth Monk” che oltretutto presenta un ritmo di chitarra tanto semplice quanto straordinario. Rispetto ai primi brani, il suono sembra farsi ancora più fumoso e i toni della registrazione sembrano perdere colore, tanto che, se ascoltati attentamente, alcuni pezzi non sembrano poter far parte dello stesso album. L’effetto non è, evidentemente, voluto.
Ultimo necessario riferimento al brano che chiude l’album, “Ordesa Sky Hunters”, il momento più soffice, intimo, rilassante, narcotico, anche se l’impeto torna prepotente già dalla fine del secondo minuto.
Under The King Of Stones è l’album perfetto per chi ha amato quei gruppi cui ho fatto riferimento nella prima parte, perfetto per chi non guarda di buon occhio chi esagera ed esaspera le innovazioni, per chi ama la musica ben fatta, possente, impetuosa e vigorosa, per chi ama il South statunitense, i suoi deserti e la sua magia.
Gli Space Paranoids, decidono di puntare sulle loro origini per arrivare a voi. Origini territoriali, montagne, freddo e alberi e origini musicali, soprattutto anni novanta. E poi, pura e semplice espressione artistica. Sono questi gli ingredienti di Under The King Of Stones. Origini ed espressione artistica. Solo da qui è possibile raggiungere se stessi.

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Milkshake 103 – What Comes Next

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“Che bravi.”
Anonimo emo
“Se loro sono punk, io sono jazz.”
Anonimo punk
“Ma che ooooooooooooooh!”
Germano Mosconi
“Vero old school punk.”
Poser
 
(cit. Nonciclopedia sui Blink 182)

 

L’unica cosa ben fatta di questo What Comes Next dei cinque di Pontevico (settemila abitanti, nei pressi di Brescia) è la scelta dell’artwork che punta sulle multicolori pinzette per i vestiti da stendere al sole. Mette allegria, non c’è dubbio. Potrei troncare qui, penso di essere stato chiaro su quanto abbia apprezzato il loro lavoro. Qualche altra frase posso dirvela però.
La storia dei Milkshake 103 incomincia nel 2001, proprio nel paesino lombardo dove, il tredici gennaio dello stesso anno, fu smascherato il primo caso di encefalopatia spongiforme bovina sull’animale numero 103. Dalla “mucca pazza” alla scelta “originale” del nome il passo è brevissimo. Oltretutto l’opzione di termine english e numero diventa anche il pretesto per prendere spudoratamente spunto da una band di coglioni che fa finta di essere punk, distruggendo ormai da anni, anche all’inferno (terreno e non), la vita di Joey Ramone, Sid Vicious e Joe Strummer. Mi fa schifo anche nominarveli, ma devo. Blink 182. Se i Green Day sono la colica renale del Punk, i Blink sono Aids. Ovviamente, facendo musica Pop e spacciandosi per alternativi, molti giovani ci cascano (spesso sono gli stessi che poi vanno al concerto di Cesare Cremonini) ed è anche il caso dei nostri Milkshake 103. Almeno dovrebbe esserlo. Perché c’è anche peggio dell’Aids.
Undici anni dopo quel fatidico giorno, Andrea Pirazzoli (voce, chitarra), Luca Gennari (voce, synth), Angelo Nava (basso) Mirco Posenato (chitarra) e Davide Gennari (batteria) scelgono di estremizzare e mettere in luce, invece che sottintendere, come nel caso dei sopracitati, l’animo Pop di band di questo tipo. Scelgono ritmi e armonie semplici, il meno possibile disturbanti, si fanno la fotina da nerd un po’ Weezer (Buddy Holly) e cercano di accaparrarsi quel pubblico di adolescenti che si rispecchiano negli sfigati alla riscossa tipici dei college movie estivi statunitensi (avete presente quei film, dove c’è il perdente intelligente innamorato della ragazza pon pon, fidanzata col quarterback, che alla fine diventa una storia d’amore?).
Già dal primo giro di basso e chitarra di “Without Your Smile” l’influenza degli innominabili è palese e si sente anche una certa vena Flower Punk, ormai ricordo di tanti anni fa. La melodia è discreta, niente di eccezionale ma almeno non è cacofonica o, al contrario, melensa e quindi disturbante. Con “Our Simple Life” entra risolutamente in scena il synth, nel tentativo di attualizzare un sound che davvero non ha più niente da dire. Il suono non ci guadagna granché e soffre anche per la scarsa vene inventiva dei componenti e per la voce, a tratti strozzata e sofferente. Il terzo brano “Epicuro Dice” è il primo della coppia cantata in italiano. Ancora una volta il synth prova a dare corpo alla musica ma la melodia è assolutamente antipatica. La lingua tricolore diventa un’arma a doppio taglio che si rivolge contro gli stessi. Oltre a suonare male nell’insieme con la parte strumentale, parla anche come un inutile testo da bimbominkia.
La situazione è critica.
“My Music” cerca di dare una sferzata Indie Pop-Rock al disco ma ogni tentativo di variazione sul tema è comunque un superfluo ripetersi, l’inutile sforzo vitale di un’animale morente. Anche nella parte introduttiva di “Maybe Will Be Yes” lo impegno è volto a distaccarsi dal finto punk di cui sopra, o quantomeno di non somigliargli troppo. Finisce invece per strimpellare come un pezzo brutto e lento dei Meganoidi (dopo i trenta secondi) ma già dieci attimi dopo, soprattutto col cambio di tonalità vocale, si torna a scimmiottare Mark Hoppus e soci. “Trattenere Il Fiato” è, ovviamente, l’altro, inutile, brano in lingua madre mentre “Goodbye”, per un attimo, ci illude che il quintetto lombardo abbia deciso di mettersi a suonare sul serio. Mera utopia. L’album si chiude con “Still Again”, traducete il titolo e pregate per un no.
È finita. Rilassatevi.
Ripeto un concetto.
Già copiare una band come i Blink UaneitiTU! significa farsi del male e volere male a un genere che io invece amo e desidererei fosse maggiormente rispettato. Riuscire anche a fare peggio di loro non era facile, specie quando si parla di giovani ovviamente vogliosi di suonare ed esprimersi.
I Milkshake 103 invece riescono non solo a copiare e imitare il loro agnello d’oro. Riescono a fare musica in maniera scialba, mettendoci ancora meno carica. Riescono a eseguire i loro pezzi come un insieme di strumenti e non come una sola anima. Riescono a essere ripetitivi anche in relazione a loro stessi, tant’è che in alcuni brani paiono auto plagiarsi. E riescono anche a non trovare alcuna melodia orecchiabile e accattivante che possa infilarsi nella mente dei ragazzini, cosa che invece ai Blink è riuscita bene, in più di una circostanza. Mi dispiace essere duro, ma questa cosa non mi piace e credo che possa deliziare veramente pochi. Già ci stanno sulle palle i Blink, ci mancavano i cloni sintetici.

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Stop? – Del Mio Respiro

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Inizia un minuto prima, note folk tenui e delicate preparano l’ascolto del mio respiro. Bugie.

La band modenese Stop? capeggiata dalla voce di Daniele Paganelli e arricchita da Eronne Bernucci alla chitarra, Enrico Maria Bertani alla batteria e Michele Zanni al basso e rhodes, prova a fare le cose in grande ma finisce per perdersi tra le sterili note pompose e dozzinali al tempo stesso e le parole belle e poetiche che fanno da cuore dell’intera opera, tanto affascinanti quanto poco esaltate dalla musica. Momenti Hard Rock estremamente educati e inefficaci, intervallati con pezzi Pop Rock sconcertanti, finiscono per frantumare quella che poteva essere, sulla carta, una gemma di valore assoluto.

Il motivo è banale. Quando si parte da un presupposto che sembra consigliarti di dover necessariamente apprezzare, la delusione è la conclusione più ovvia. Un artwork ammaliante incastona i testi che si uniscono a creare un’unica lettera, come versi d’una poesia che si chiude con le parole Aiutami tu.
Dopo l’ukulele che folleggia nell’intro strumentale “Un Minuto Prima”, creando un contrasto a mio avviso sovrabbondante, inizia la parte vera del lavoro degli Stop?, col brano “7:55”. Passaggio sparato a mille che, anche per la vocalità di Daniele Paganelli, ricorda sia la miscellanea dei Quintorigo di John De Leo, sia l’energia degli Jane’s Addiction di Perry Farrell, senza dimenticare anche alcuni strappi molto Faith No More, specie nei cambi di tonalità. Con “Come Dimenticare Le Mie Paura” si abbassano i toni e l’atmosfera si fa più intima. Poche parole echeggiano sopra una melodia non troppo azzeccata, finendo per suonare come un brutto pezzo Pop/Rock di un B-Side di Francesco Renga.

Ho ascoltato solo un intro e due pezzi e già non si capisce un cazzo di quello che vogliano suonare gli Stop?. L’unica cosa che sembra chiara è che, se da un lato dimostrano di avere puntato molto su testi e arrangiamenti, dall’altro sono veramente poco bravi nella creazione di melodie che siano orecchiabili o, per contro, sorprendenti.
Con “Splenderai (Aria Vergine)” si mantiene la stessa linea carnale del brano precedente ma le chitarre riprendono quel retrogusto folk presentato nell’intro che altrimenti non avrebbe avuto veramente alcun senso. Il ritmo è semplice e cadenzato e il tutto sembra un tentativo malriuscito di mettere in risalto le parole che, per quanto interessanti se lette come fossero poesia su carta, risultano fumose nel complesso dell’opera.

Con “Lasciamo Il Tuo Odore” e il suo attacco in crescendo le cose paiono migliorare ma bastano pochi secondi per capire una cosa che forse avevo solo avvertito in precedenza. Questa è roba che di certo piacerà a tanti, non ho dubbi. È proprio la musica che tanta gente va cercando. Ma non io. Mi ritorna continuamente in mente Renga che canta un pezzo del cazzo a Sanremo e se da un lato la colpa è della piattezza della musica, il vero colpevole è (non me lo aspettavo) la voce di Daniele Paganelli. Una bella voce, che si esalta nei cambi di tono e che sembra perfetta per il Pop da prima serata di Rai Uno. Ma sono troppo vecchio e ancora troppo giovane per queste cose. Vorreste mai che vostra figlia uscisse con uno di loro? Erano queste le espressioni con le quali presentarono I Rolling Stones nel 1963. Questo era e dovrebbe essere la musica, almeno per come piace a me. Per gli Stop? La mia risposta sarebbe un tranquillo “Sì, ce la porto io”. A me, però, non interesserebbe mai un tipo che io farei uscire con mia figlia.

Basta divagazioni, torniamo alle canzoni.

“Divertiti” è forse il primo brano che mette voglia di riascoltarlo. Un’ ipnotizzante cantilena, con una voce monotona e cupa in stile Giovanni Lindo Ferretti, chitarra ebbra  e sezione ritmica ossessiva. Voci che si sovrappongono e crescendo che sfocia in un vortice sonoro lisergico assolutamente incantevole.
Niente da fare. Con “Ti Sopporto Più” (mai parole furono più indovinate) tutto torna a tediarmi l’anima. C’è un po’ di energia in più e alcune distorsioni chitarristiche fanno venire un minimo di acquolina alle orecchie ma ormai è chiaro che non c’è niente che possa defibrillare questa piatta morte. C’è di buono che il pezzo risponde, almeno in parte, alla mia postuma domanda: “Che cazzo c’entra “7:55” con tutto il resto?”.

Mi rendo conto con “Insensibile” che la seconda parte è indubbiamente più Rock (per modo di dire) ma siamo sempre in quell’universo del Rock, dove i campioni sono Le Vibrazioni, per cui non mi sembra troppo il caso di insistere. Il penultimo brano, puntando su atmosfere cupe e angosciose stile Piano Magic, da il titolo a tutto il disco e ne rafforza la robustezza spirituale pur non aggiungendo molto allo stile, mentre è l’ultimo brano, “Lettera Bianca” a dare un senso a tutto questo. Non c’è musica, semplice Spoken word. Teatro e parole che, per la prima volta, oltre ad essere intriganti e musicali come pura poesia, sono anche incisive e coinvolgenti. Se solo ci fosse stato un minimo di musica, come vento a riempire gli spazi vuoti tra le lettere…

Vi giuro che non lo dico tanto per stroncare senza stroncare. Gli Stop? hanno tutte le carte in regola per sfondare in mondo popular che non mi riguarda e per presentarsi a Sanremo e vincere, magari, nella sezione emergenti e poi andare in radio e far gridare al miracolo Mollica dopo il Tg1. Possono farcela. Ma siccome io non sono la Maionchi e del successo di un gruppo non mi frega un cazzo, per me è no!

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Too Late To Wake – Slaves Without Chains

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Veramente è troppo tardi per svegliarci? Siamo veramente schiavi senza catene? Un uomo servo che si crede libero come può comprendere la necessità di spezzare manette che non vede?
La premessa dalla quale muovono i cinque abruzzesi (Spoltore e Pescara) è tutto un programma. Un’accusa diretta senza essere troppo esplicita. Il dito puntato contro un modo di essere, contro una vita fatta di accettazione passiva, rassegnazione e disillusione. Contro quel mentirsi continuamente per non ammettere una verità che può far piangere, più di un pugnale nel petto.
Ma la loro non è un’insinuazione nichilista al sistema ma piuttosto (cerca di essere) una scintilla che vuole far scoppiare la bomba della nazione. Smettere di essere quello che gli altri vogliono, smettere di fare quello che chiedono, smettere di credere a quello in cui in realtà non crediamo. Essere l’opposto di quello che è cool per continuare a sperare. Essere schiavi della voglia di libertà.

Tutto è iniziato solo due anni fa, nel cuore dell’Abruzzo e dell’Italia, quando Gianni Vespasiani (voce e chitarra) forma la parte embrionale di quella che sarà la band Too Late To Wake con Simone Del Libeccio (chitarra e voce) e Riccardo Ruiu (batteria). Inizia la fase in cui si prende coscienza di quelle che sono le idee da proporre, sia musicalmente sia concettualmente e il gruppo diventa come un corpo solo che cresce, matura, sceglie, decide, giudica e combatte.
L’anno successivo, entrano nella band anche Palo Gioacchini (voce) e Francesco Cetrullo (basso) e finalmente tutto è pronto per l’Ep d’esordio Guiding Light. Le cose sembrano indirizzate verso la strada giusta ma com’è ovvio che accada in un corpo in fermento, pronto a ogni forma di esperienza e avventura, qualcosa si rompe. E qualcosa è destinato a rinascere. Come sempre, nel peggio può nascondersi una nuova vita. È il 2012 quando torna nella band quello che ne fu il primo frontman, Patrizio De Luca (sostituendo Paolo Gioacchini) e finalmente arriva il momento tanto sognato da ogni artista emergente della produzione del disco. Arriva Slaves Without Chains.
Un concentrato autentico di Post Grunge, reminiscenze di puro Grunge e Post Grunge old school stile Puddle Of Mudd, Blind Melon, Live, Our Lady Peace, Hey, Local H, The Presidents of the United States of America, Alter Bridge, Foo Fighters, Mayfield Four e Smashing Pumpkins e una spruzzata di sonorità più moderne, tipiche della nuova scena alternativa. In tutti gli otto brani, l’aspetto predominante è dato dal contrapporsi tra la crisi esistenziale dell’individuo e il contesto socio-culturale nel quale è inserito. Se da un lato si attacca il sistema, il capitalismo bancario, la politica del non fare, il cinismo e la cupidigia istituzionale, dall’altro si mette in scena il rancore, la carica, la brama di trasformazione, la voglia di resistere, il rinnovamento collettivo, per palesare a tutti come un mondo migliora sia possibile. Quello che si mette in mostra è l’avvicendarsi del ruolo di predatore e preda tra la società capitalista e il popolo o meglio è il grido di quei pochi che vogliono che siano tutti a urlare per ribellarsi al pescecane e al loro ruolo di vittima.
Su una cosa possiamo essere sicuri. I Too Late To Wake hanno le idee chiare su come indirizzare la loro storia. Sanno cosa dire e sanno come dirlo. Purtroppo non basta questo a renderti un profeta. Per un motivo molto semplice. C’è la musica di mezzo; è la cosa che più conta. È qui che sorge un problema. Se da un lato le melodie di brani come “Smoothbody” o “Grey For A Day” possono essere piacevoli e si fanno ascoltare senza problemi, è altresì vero che il sound dei Too Late To Wake risulta talmente antico che sembra essere più vecchio di quelle che sono le band prese come punto di riferimento. E se la musica con colpisce l’anima, difficile che lo facciano le parole (oltretutto i testi sono in inglese). Anche in fase esecutiva, non c’è niente che sembra poter porre i nostri abruzzesi sopra la concorrenza e alcuni brani (“Dorothy’ End” ad esempio) sfiorano piuttosto le banalità musicali New Romantic che non il tanto amato Grunge. Neanche la voce di Patrizio De Luca sembra riuscire a risollevare le sorti di sonorità cosi scontate. Quando si parte dal presupposto di cui parlavo nell’incipit, credo sia opportuno aspettarsi qualcosa di spiazzante anche dalla musica. Difficile inventarsi qualcosa oggi, ma è fin troppo facile eseguire il proprio compitino, citando e banalizzando tutto. I Too Late To Wake hanno perso un’occasione perché di persone che hanno voglia di dire e reagire, di gruppi che siano interessati a utilizzare uno strumento (un tempo tanto potente) come la musica, per far risvegliare le menti atrofizzate dei nostri cari compatrioti, non ce ne sono tante. La musica perde sempre più il suo ruolo sociale e artistico e diventa sempre più intrattenimento. Se chi prova a salvare quel ruolo, finisce per essere poco credibile, possiamo dirci spacciati.
…e intanto mentre io scrivo, mi accorgo che per Roma e gli Italiani, non è mai troppo tardi per svegliarsi se c’è da fare lo Gangnam Style di Psy.

Fratelli d’Italia

L’Italia s’è desta…

Booooooooooooooooommmmmmm!!!!!!!!!!!!!!

 

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Udde – Fog 2012 Ep

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I musicisti sono artisti, creativi.
I musicisti non “mettono i dischi”.
I musicisti sognano di farci sognare.
I musicisti non fanno cover, al limite copiano.
I musicisti rischiano di non piacere.
I musicisti non ascoltano Giovanni Allevi.
I musicisti sanno cosa amano.
I musicisti sanno cosa li ucciderà.
I musicisti sanno cantare l’amore e la morte insieme.
I musicisti non sono Amici con l’X-Factor
I musicisti sono puttane che non si vendono.
I musicisti sono ninfomani puttane…

Il polistrumentista autodidatta sardo (di Sassari) che si fa chiamare Udde germoglia musicalmente, col ruolo di chitarrista, nel 2001, quando fonda la band psych-prog wave Soyland Green. Con loro incide l’album promo Final Superstereo ma nel 2010, quando ormai appariva pronta la prima vera uscita discografica, l’avventura s’interrompe improvvisamente. È la fine di un ciclo e l’inizio di una nuova vita. Nel suo studio privato, Udde decide di fare tutto da solo, imbracciando ogni strumento necessario al suo potenziale espressivo e artistico. Lo sforzo compiuto porta alla messa in scena di questo Ep di tre tracce, dall’ emblematico titolo Fog, letteralmente traducibile con Nebbia, 2012. Il suo si presenta subito come un lavoro minimale, già nel confezionamento. Tanto spazio alla musica e poco all’estetica, evidentemente. Eppure la copertina è già qualcosa di strepitoso. Un’affascinante foto in bianco e nero che ritrae un freddo paesaggio metropolitano, in cui si vede confusamente l’avanzata del progresso, sottomessa da una nera nebbia, come una notte fredda e avvolgente. La povertà della foto esprime pienamente le atmosfere gelide che ritroveremo all’interno dei tre brani e per questo si pone come il perfetto punto di partenza per analizzare il lavoro dell’isolano. Per quanto essenziale, la copertina diventa una sorta di amuleto incantatore che mi spinge a un ascolto instancabile. Il primo brano è “Northwestern”. Un pezzo di puro e oscuro Synth Pop in stile Depeche Mode, con una melodia sui generis dal sapore anni ottanta, (non quelli della dance ma della disperazione emotiva dell’underground metropolitano). Un ritmo da Trainspotting soundtrack, al sapore di Londra o Berlino e una melodia appena accennata, che se fosse stata più incline al Pop e meno screziata, avrebbe certamente incantato anche i più scettici. Le diverse stratificazioni sonore si sfiorano e si avvinghiano creando proprio quella surreale atmosfera cruda già assaporata nella copertina. Nella successiva “White Inn” si presenta ancora la sezione ritmica tremante, opprimente, lineare, secca e battagliera, che mette in mostra una certa similitudine con i ritmi mogwaiani, mentre la chitarra schizza riff e assoli di matrice prog e psych rock. Anche nel secondo brano l’atmosfera è tetra e misteriosa e la mescolanza di sintetico e carnale diventa ora la palese prerogativa imprescindibile del sound di Udde. Nell’ultimo brano “Welder’s Flash” si parte con un intro che ricorderà a qualcuno quel folle di Scott Walker, già richiamato più volte nel cantato del sardo. Il resto del brano è invece sulla falsariga del binomio sonico precedente e anzi, diventa più pop e meno audace, grazie a chitarre più chiare e perspicue e una melodia più naturale. Nell’insieme, i tre pezzi riescono ad amalgamare alla perfezione l’inferno del succitato Scott Walker, con le chitarre (a tratti psych-prog seventies, a tratti quasi shoegaze), le sezioni ritmiche essenziali in stile Mogwai, con le atmosfere languide di Brian Eno, presentando l’insieme nella forma più semplice possibile. Sintetico Pop. Assolutamente indovinata la scelta di mantenere quest’ultimo come l’unico elemento portante, attorno al quale ruotano le diverse contaminazioni prog, dark, ambient, psych, post rock. Niente è mai troppo invadente e si evita di mostrare un sound apparentemente incompiuto quando invece la scelta sembra abbastanza precisa. Il tutto suona esattamente come se fosse esattamente quello che Udde voleva suonare. L’unica pecca concerne le melodie vocali. Sembra troppo una via di mezzo. In alcuni passaggi l’orecchio pare pronto ad ascoltare qualcosa di armonioso, che farebbe la fortuna di ogni radio del pianeta, ma nel giro di pochi secondi si vira verso passaggi meno orecchiabili e più macchinosi. In questo modo non è chiaro quale fosse lo scopo e quali siano le reali capacità, in tal senso, del nostro artista. Più semplicemente, le melodie non puntano troppo su facili e orecchiabili accostamenti di note ma, nello stesso tempo, non azzardano mai più di tanto, come per paura di oltrepassare la misura. Siccome vi ho citato Scott Walker, provate ad ascoltare Tilt o The Drift se volete qualcosa di più attuale e forse il mio pensiero sarà più chiaro. Nel complesso, questi pochi minuti, mi hanno aperto la strada per quella che potrebbe essere una bella scoperta da fare a breve, quando sarà finalmente pronto il primo lavoro sulla lunga distanza. Intanto una cosa è chiara. Udde è un musicista, sincero come la nebbia di Londra.

 

…e soprattutto, brutte merde che l’avete mandato al primo posto delle classifiche dei singoli infangando il nome dell’Italia, il Pulcino Pio non è musica.

 

Questa è musica.

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Non Violentate Jennifer – Non Violentate Jennifer Ep

Written by Recensioni

Non so se vi è capitato di dare una scorsa a quell’articolo di tale Mr. Tambourine (Claudio Delicato, credo sia il suo vero nome) pubblicato sul blog ciclofrenia.it. L’intento era quello di punzecchiare l’indie italiano sviluppando e cercando di dimostrare la tesi che, per costruire un disco di sicuro successo, è sufficiente seguire alcune semplicissime consuetudini. Tralasciare completamente l’aspetto musicale, parlare solo di cose inutili, essere completamente incapaci a suonare, non cantare ma parlare, scrivere canzoni tutte uguali e ideare un particolare curioso completamente a caso. Lasciamo stare il fatto che il testo finisce per essere grossolano e inconsistente, almeno ai miei occhi, tanto quanto tanta della musica che proprio l’articolo aggredisce (mettere nel pentolone i Massimo Volume è oltretutto intollerabile). In realtà, qualche pretesto stimolante lo fornisce. Soprattutto offre a me lo spunto per ciarlare dell’Ep dei Non Violentate Jennifer, trio composto da Zà (voce, piano, organo), Max (basso) e Al Bin (batteria). Partiamo da un punto che manca nell’articolo. Inserite nel nome della vostra band quello di una donna. Piacerà, anche se qualcuno, come il sottoscritto, comincerà una bestemmia lunga fino al 2025 perché non se ne può più di sentire nomi del genere. Marta Sui Tubi, Christine Plays Viola, Non Voglio Che Clara, Valentina Dorme, ecc… (la lista è veramente lunga). Mai che si legga un Bruno Caga Nei Prati, Fausto Scoreggia In Chiesa, Ubaldo Fa Sesso Anale Passivo. Non Violentate Jennifer è, come posso dire, già un modo per partire con il piede sbagliato. Ora, può anche essere vero che il loro sia solo un omaggio al revenge movie I Spit on Your Grave, diretto da Meir Zarchi nel 1978, ma che ne sanno i poveri mortali di queste cose? Lasciamo andare il nome e passiamo alla musica. Quanto questa musica può portare al successo?

Una band che si offre con un Ep cosi disadorno, con poche notizie che circolano intorno, che sembra una bestia difficile da scovare, forse vuole proprio puntare tanto sull’aspetto musicale a dispetto del problema iniziale di cui sopra (più sopra, verso l’inizio). E il punto uno va a farsi fottere. I testi non sono certo banali e semplici e di sicuro non parlano di cose inutili; non puntano su ironia o leggerezza e anzi hanno bisogno di una certa dose di attenzione per essere elaborati oltre il semplice legame musicale con le note. Anche il punto due va a puttane. Sulle loro capacità di suonare è difficile esprimersi. Non sembrano fenomeni ma nemmeno incapaci. Il punto è che la musica si sviluppa per linee estremamente semplici (come ascolterete, questa è la sua forza) e dunque è arduo capire quanto siano validi. Quello che conta è che fanno bene quello che devono fare. Cazzo, se ne va anche il punto tre. Non cantare, ma parlare. Qui, forse ci siamo, perché il modo di cantare di Zà molto capovillano è uno strumento che si piazza in una terra di mezzo che ha anche più probabilità di successo dello spoken word tipico ad esempio di Emidio Clementi (Massimo Volume) o Max Collini (Offlaga Disco Pax) che nel loro modo di vocalizzare hanno trovato il principale ostacolo all’apertura verso un pubblico più copioso. Il successo per Non Violentate Jennifer si avvicina? Basta questo? Purtroppo le canzoni, per quanto mantengano una linea guida abbastanza precisa, non suonano tutte uguali e qui non ci siamo proprio. Infine, per il particolare completamente a caso, non mi sembra di trovare nulla. Forse….anzi…no. Niente.

Volete un bilancio, prendendo per buone le regole sopra indicate? Questa band è molto lontana dal successo. Non hanno niente a che vedere con i compatrioti I Cani, Lo Stato Sociale, Dente, Brunori e compagnia delle indie.

I quattro pezzi sono invece un’interessantissima miscela di sonorità psichedeliche sixties, pesantezza tipica stile di Nick Cave/Nick Drake, energia alla Jesus Lizard nelle loro virate meno estreme, slowcore folk blues come i Black Heart Procession (la band alla quale più somigliano), intermezzi pseudo sintetici, affascinanti note di piano e ritmiche ossessive caratteristiche di un certo post punk vecchia scuola. “Terza Persona”, “Nel Paese Degli Umani”, “Tutto Finisce All’Alba” e “Naufragheremo” sono il perfetto punto di partenza per una band che voglia fare un grande disco, oltre il successo. Quei gioielli che conoscono in pochi e ti fanno sentire figo perché delimitano la differenza tra te e il resto della gente che hai intorno. Forse troppe sono le influenze e poche le idee innovative ma per tutti i quasi diciassette minuti dell’Ep si respira una cupa aria trascinante che ti mette voglia di ascoltare e stare male, ma di quel male di cui abbiamo bisogno per stare bene. È  una nebbia misteriosa, Non Violentate Jennifer. “È un grido rivolto al mondo, è una preghiera, è la richiesta che il mondo si fermi ma già consapevole che questo non accadrà, è una minaccia, un ultimatum alla natura distruttiva dell’uomo, è una condanna ai pochi uomini che si contendono il potere piegando le masse ad una colpevole forma di schiavitù involontariamente volontaria. Non Violentare Jennifer è un urlo disperato che non può fare niente da solo. È un canto di guerra che insieme agli altri può fare tutto”.

Non avranno successo, sono sicuro, perché il pubblico che ti porta al trionfo è un pubblico di merda. Tante delle puttanate dette sopra (più sopra, quasi all’inizio), se ci pensate, sono vere. Fare buona musica non porta alla fama. Ma credo che la cosa non interessi i Non Violentate Jennifer più di tanto. Del resto, ascoltate l’Ep e ditemi se ci vedreste bene un tipico ascoltatore de I Cani, a un concerto dei NVJ?

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