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TOdays: giorno 3 e live degli Interpol

Written by Live Report

La prima edizione del TOdays Festival ha immerso Torino in un mare di musica. Non che il capoluogo piemontese sia sprovvisto di eventi musicali, sia chiaro. Ma vedere una così grande partecipazione ad un evento musicale in tutte le sedi in cui si è svolto (Spazio 211, Scuola Holden, Dox Dora, Cimitero di San Pietro in Vincoli e Museo Ettore Fico) fa pensare che sì, forse non è tutto perso, forse davvero c’è ancora speranza, forse la musica ci salverà, tutti. Forse. La terza serata del festival vede come protagonisti gli Interpol preceduti da una serie di artisti appartenenti all’etichetta torinese INRI (in ogni serata si sono esibiti sul palco dello Spazio 211 artisti ad essa appartenenti); domenica 30 agosto è stata la volta degli Anthony Laszlo, dei Dardust e Levante. I primi salgono sul palco intorno alle 20.00 e subito mostrano la loro potenza egemonica a suon di chitarra e batteria, anche se vengono relegati in un angolo del palco. Non c’è niente da fare, gli animali da palcoscenico restano animali sempre e comunque. Irriverenti, si presentano come gli Interpol, suonano la chitarra coi denti rievocando Jimi Hendrix e ci mostrano il culo quando al momento dell’inchino finale, invece di inclinare il viso verso di noi, lo fanno girandosi di 180°.

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A seguire subito i Dardust nelle persone di Dario Faini (piano), Vanni Casagrande (synth) e Pietro Cardarelli (visual e luci). Non è la prima volta che li ascolto, e dalla prima esibizione alla quale ho assistito (presso le Lavanderie Ramone di Torino lo scorso febbraio) sono cresciuti e migliorati parecchio. Nel live del TOdays hanno eseguito non solo i pezzi del loro album 7, ma anche un medley mash-up con “Born Slippy” degli Underworld, “Right Here Right Now” di Fatboy Slim, “Hey Boy Hey Girl” dei Chemical Brothers e “Aerodynamic” dei Daft Punk. Una performance carica di energia che ha catturato il pubblico, come sempre, nonostante qualche imperfezione.

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L’ultima ad esibirsi è Levante, cantautrice siciliana ormai trapiantata a Torino da anni, che dovrebbe essere la punta di diamante dell’esibizione degli artisti INRI, dato che ha l’onore di esibirsi appena prima degli Interpol. La sua invece è l’esibizione più sottotono di tutte, e con certezza si può affermare che se durante il concerto qualcuno ci dato una scarica di adrenalina, di certo non è stata lei. Tra i pezzi suonati c’è anche l’immancabile “Alfonso”, l’uomo sconosciuto che l’ha consacrata al successo. Sono circa le dieci, sul palco i tecnici in movimento, tra poco toccherà agli Interpol. Inutile dire che l’aspettativa era grande.

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La band capitanata da Paul Banks è famosa per riuscire a creare un gran muro di suono e trasmettere grande energia, pur nell’immobilità mimica totale e pur avendo dichiarato a luglio 2014 che avrebbero preferito non partire per il tour di presentazione dell’ultimo disco, El Pintor. Il live si apre con “Say Hello to Angels”, un romaticismo sommesso nei modi e tagliante nelle distorsioni. La band è tutto sommato in forma, come da previsione, e il frontman non sbaglia un colpo mentre impila “Anywhere”, “Narc”, “My Blue Supreme”. Il pubblico si scalda letteralmente quando parte “Evil”: l’impressione è che la folla si dividesse esattamente a metà tra i fan che conoscono ogni dettaglio, ogni versione di un brano, e chi conosceva solo certi successi e ascoltasse, comunque con grande attenzione e interesse, tutto il resto della setlist. Dopo “Lenght of Love” e “Rest My Chemistry”, la formazione esegue una caldissima “Everything is Wrong”: sarà l’ultimo pezzo cantato veramente bene da Banks, che forse dovrebbe fornire qualche spiegazione sulle sue corde vocali o sull’acustica del palco. Va ancora tutto sommato bene “The New” ma “My Desire” viene letteralmente massacrata. Per carità, il brano non è di semplice intonazione, ma le stecche sono state troppo frequenti e particolarmente marcate. Un vero peccato, specie se si considera che l’esibizione solista a cui avevo assistito qualche anno fa era stata seriamente impeccabile.

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Onestamente questa brutta resa di una delle loro canzoni più belle e appassionate mi ha smontata. Su “Take You on a Cruise” riesco ancora ad emozionarmi per l’intenso stacco voce e batteria, ma “C’mere”, “Pioneer to Falls”, “Slow Hands” e “PDA” mi vedono più attenta a cercare altri errori nella linea vocale che non a lasciarmi trasportare. E non è bello che questo accada a un concerto. L’encore si apre con la splendida “Untitled”. È uno dei brani che preferisco, viene eseguito per altro magistralmente e quindi posso dirmi soddisfatta. Seguono “Leif Erikson” e “All the Rage Back Home”, forse la migliore di tutto il live, che nel complesso è stato molto piacevole, seppure macchiato -troppo per una band di questo calibro- da troppe imprecisioni del vocalist.

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“Diamanti Vintage” The Prodigy – Music For The Jilted Generation

Written by Articoli

Rivoluzione mastodontica in campotechno, gli inglesi The Prodigy fanno tracimare e conoscere nel mondo la controcultura rave, il clangore fulminante dell’elettronica, il mega big beat che, con i Chemical Brothers, The Crystal Method e Fatboy Slim, riempirà le tempie di più di una moderna generazione. Nel 1994  il dj Liam Howlett e soci danno alle stampe “Music For The Jalted Generation”, e nulla fu come prima, un disco che scoperchiò per sempre la teoria che l’ingegno creativo era cosa da invasati, drogati del mega sound.

Distorsioni sonore e vocali, intelligenze artificiali e tappeti di samplers a tutto volume, ritmi, Jungle, Dance-Punk, Techno e Break Beat, Alternative Dance con accelerazioni repentine, sterzate energiche ed organiche di disturbi sensoriali; poi una volta miscelati a dovere si danno ai livelli volumetrici del suono che, sparato a decibel assurdi, diventano la meccanizzazione alternative della goduria ottundente. Un disco che si è guadagnato in poco tempo la posizione di chiave di volta della techno di massa, la variazione e lo sciame dei suoni di nuova generazione e che va a scalare vertiginosamente hit parade e chart di mezzo mondo con la forza della sua ragione “contro”.

Regno di Drum & Bass e di una stupenda mescolanza d’inserti Hip-Hop e Metal a profusione, le tredici tracce che costituiscono l’ossatura al tungsteno del disco sono un potenziale mostruoso di hooks-hit che faranno la fortuna di palinsesti radiofonici, e porteranno la band alle più alte vetta di notorietà, simbolo e dannazione di milioni di ravers in cerca di jump-lives per abbandonarsi alle frenetiche onde di altrettanti mega sound-system armati di tonnellate di watt e watt; questo era il primo passo della formazione britannica alla notorietà di base, poi col successivo The Fat Of The Land tutto prenderà ancor più fuoco e suggellerà definitivamente la storia del quartetto. Brani come “Voodoo People”, “Poison”, “Their Low” – traccia quest’ultima che portò terribili tensioni con i Cypress Hill per via di certe assonanze molto vicine – a loro detta – al plagio di un brano proprio dei CH – e la sarcastica risata che rimbomba dietro il ritmo convulsivo di “Clautrophobic Sting”, sono pezzi di storia che ancora girano a mille, che ancora sono profezie cui molte giovani formazioni chiedono consiglio.

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