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“Diamanti Vintage” Franco Battiato – Pollution

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La spallata avvenne quando il siciliano Franco Battiato – già riconosciuto aviatore pazzoide delle sperimentazioni off e avantgard oltre il consentito – prese la decisione di alzare il tiro della sua creatività, il perno centrale di una qualitativa vena aurifera che vedeva nelle elucubrazioni messe in musica e nei “disturbi” effettati di nuovissime macchine soniche come il VC7, Mellotron, Squize ed una infinità di ammennicoli esorbitanti, la nuova frontiera della musica, il nuovo cosmo rock da interpretare, e senza  lasciarsi suggerire nulla il capelluto catanese dette anima e fiato al nuovo capolavoro “Pollution” che darà razza al suo predecessore, quel Fetus algebrico e smagliante che aveva già ammaliato, stordito e diviso gran parte della platea alternativa degli anni Settanta.

Una stupenda commistione metafisica di rock, delirio, classica, campionature, sangue e fegato, e tutta la psichedelica che si può raccogliere da letture di miti e gloriose evoluzioni che riempiono tutto un immaginario, ancora un tutto di eleganti retrogusti e azzardi riusciti che Battiato giostra e impiastra con un modus operandi mai sentito – se non in certe stralunate gassosità Floydiane – , un sensazionalismo alterato alla pari di un viaggio sotto peyote; il misticismo impera, la convulsione ed il pathos sbranano l’ascolto e la dolcezza taglia a meraviglia, ma è anche la consapevole “rottura” con una certa visione della musica che si acclamata e dove  da li a poco più in la il progressive di stampo italiano prenderà il suo volo personale, la sua apertura alare si amplierà fino alla fine della decade.

Sette episodi passati alla storia della storia, il walzer di Strauss spaccato a metà dal rumore esplosivo di un tuono lacerante ed il rock che spunta aggressivo da dietro l’epilettismo di una eco riverberata e di organo prog “Il Silenzio Del Rumore”, “31 Dicembre 1999 – Ore 9”, il mantra di “Areknames”, il potere di un Mellotron pomposo in “Beta”; un disco disegnato alla perfezione, un trip culturale diabolico che il musicista siculo rilascia come un testamento ai posteri, al centro di una epoca che fa vittime ed eroi in una violenza inaudita “Plancton” e poi ancora quel walzer di Strauss che ritorna, inesausto con la conseguente esplosione d’effetto, quel senso puro, nudo e di svuotamento che in due scenari non contrapposti, la titletrack e “ Ti Sei Mai Chiesto Quale Funzione Hai?”, chiude un lavoro discografico, un grande capitolo di ieri che ancora oggi insegna e fa sognare, magari da ascoltare più di una volta, ma che una volta “agganciato nella mente” vi alzerà di due metri da terra. Garantito!
http://www.youtube.com/watch?v=kOunIHp31Jc

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“Diamanti Vintage” Inti Illimani – Viva Chile!

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O bene o male tra i solchi di questo disco, una parte della nostra giovinezza strapiena d’inni, eroi, miti, credo e tutto quello che poteva fare “essere di sinistra”  ci ha lasciato cuore e fegato; gli Inti Illimani facevano parte della nostra vita quotidiana, non si poteva fare una riunione militante, avere un pensiero pesante o ritrovarsi con gli amici dentro uno scantinato a bere vino, fumare canne e adulare il Sol dell’Avvenir senza che questo Viva Chile! non strombazzasse a tutto volume il suo animo focoso, ribelle, e pure romantico, con quel candore  Guevariano intriso dentro.
Esiliati in Italia dopo il golpe di Pinochet in Cile nel 73, il gruppo – cileno anch’esso – si stabilì come sede ideologica da parte di tanta sinistra organizzata su barricate, fuochi accesi e manifestazioni parada da guerriglia urbana, ma le loro canzoni erano di tutto altro tipo, erano canzoni della loro tradizione andina, popolare e contadina; ritmi bellissimi che facevano ballare al soffio di flauti di pan, bombi, chitarrone a battente, e ai mille colori che la loro stupenda terra, in quel momento insanguinata dalla dittatura, proiettava come arcobaleni verso il mondo intero.
Presi come vessillo sonante della lotta per la libertà, gli Inti Illimani di Horacio Salinas, vanno a godere di una popolarità straordinaria, si ritrovano a suonare ovunque – dalle feste dell’Unita alle balere di provincia – e alcuni dei loro pezzi, come “Alturas”, va a siglare centinaia e centinaia di programmi televisivi; canzoni che quasi tutti imparammo a memoria, come lo slogan che si urlava ad ogni corteo “El pueblo unido jamas serà vencido” o il romanticismo battagliero di “Venceremos”, che andava a riempire i cuori tremebondi di quelli che allora si definivano “compagni”.
In questo disco ci sono alcune delle più belle canzoni che il combo cileno abbia mai scritto, basta citare “Hacia la libertad”, “Cantos a los caidos”, la già citata “Alturas”, “Simon Bolivar”, “Fiesta de San Benito” e “Cancion del Poder Popular”, e tutto questo accadeva tra il 73 e il 75 dello scorso secolo, in quel frangente di tempo dove ancora credere ad un socialismo reale era possibile. Ora ascoltare questi dischi, e precisamente questo, da un senso di gioia e smarrimento, tristezza e commozione per un  tempo che non tornerà più, ma anche un coraggio che ci stringe il cuore per essere tra i fortunati ad averlo percorso e poterlo raccontare.

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