Pere Ubu Tag Archive

Settembre ci porterà via con sé

Written by Recensioni

300 secondi o poco più di tanta roba!
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Pere Ubu in tour Italia, il 10 settembre a Monteprandone

Written by Eventi

I Pere Ubu, mitica creatura dell’eclettico e imprevedibile David Thomas, saranno in tour in Italia la prossima settimana per presentare il loro ultimo album 20 Years in a Montana Missile Silo, uscito a settembre dello scorso anno via Cherry Red Records.

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Recensioni #11.2017 – Protomartyr / Giulia’s Mother / Night Owls

Written by Recensioni

Pixies @ Flowers Festival, Parco della Certosa Reale, Collegno (TO) 21/07/2016

Written by Live Report

Ed eccoci giunti ad un altro appuntamento di grande rilevanza offertoci dal Flowers Festival dopo la data unica italiana di Anohni. Questa sera incastonati nella cornice del Parco della Certosa Reale di Collegno saranno presenti, anch’essi per la loro unica tappa italiana, i leggendari Pixies, una delle band più importanti ed influenti che l’Alternative Rock ricordi. Una band che nel suo periodo d’oro ha sfornato dischi che sono entrati nella storia della musica e che due anni fa, a 23 anni dall’ultimo lavoro in studio, è tornata a pubblicare materiale inedito ed oggi si appresta a dare alle stampe il suo settimo disco, Head Carrier, la cui uscita è prevista per il prossimo 30 Settembre. I Pixies si sono sempre contraddistinti per la loro grande varietà di linguaggio, per quegli arrangiamenti, molto spesso caotici, spigolosi, sfaccettati e contrastanti, fondati sulle grandi e folli doti vocali di Black Francis (unite alle ritmiche della sua chitarra), sull’ecletticità del cofondatore Joey Santiago alla chitarra solista, sulle sediziose ritmiche del batterista David Lovering, sulle splendide armonizzazioni vocali e sul basso robusto e letale di Kim Deal, che come tutti saprete dopo aver preso parte alla reunion nel 2004 ha lasciato la band nove anni più tardi, sostituita per brevissimo tempo da Kim Shattuck alla quale è a sua volta subentrata Paz Lenchantin che vedremo stasera sul palco. Una band che ha imparato e fatto sue le lezioni di David Thomas e dei suoi Pere Ubu (tra l’altro tra i due leader non manca anche una certa somiglianza) e che tra le sue fonti d’ispirazione annovera anche artisti dal calibro dei Violent Femmes e dei sempiterni Lou Reed e David Bowie e che ha a sua volta ispirato band come i Nirvana, i Pavement e tanto altro ancora di quello che sono stati buona parte degli ascolti di molti di noi dagli anni 90 ad oggi.

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Insomma questa sera l’attesa è sicuramente bella alta ed insieme ad un gruppetto di amici, tra i quali un’altra penna di questa webzine, la smorziamo con un paio di buone birre ed un piatto di gustosi agnolotti al ragù, certamente non esaltanti per quantità ma che comunque ci aiuteranno a non svenire durante il concerto. L’onore di aprire per la band di Boston spetterà ai Ministri che vedo dal vivo per la prima volta e (consideratemi pure un marziano) di cui non conosco nulla nonostante il loro nome abbia ormai un certo peso all’interno della scena musicale del nostro paese. I ragazzi offrono uno spettacolo di Rock dallo spirito Punk che si dimostra piuttosto godibile con musiche dal buon impatto (per quanto non arrivi mai niente di sorprendente) nelle quali la parte del leone è assegnata alle chitarre. La voce di Davide Autelitano per i miei gusti è sicuramente più piacevole quando urla o si fa bassa e cupa che durante il cantato classico e melodico che fortunatamente prende il sopravvento raramente, i testi sono destinati ad un pubblico decisamente più giovane del sottoscritto, pubblico che comunque non manca (sarà infatti facile vedere ventenni come ultracinquantenni) e che se li gode cantando a memoria ed a gran voce ogni singola parola. No, non è nato nessun amore, ma devo comunque dire che i ragazzi sono capaci di tenere il palco alla grande e che la scelta di far loro aprire il concerto dei folletti mi è sembrata meno assurda di tante altre, considerando che spesso i gruppi posti in apertura di serata sembrano selezionati da qualcuno che come unico suo scopo abbia la mia, tua, nostra (in)sofferenza.

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Durante i venti minuti conclusivi di un cambio palco durato l’esagerazione di tre quarti d’ora, probabilmente anche per prendere qualche precauzione a causa della leggera pioggia caduta a metà del set dei Ministri, il pubblico delle prime file sul lato sinistro del palco viene intrattenuto da un ragazzone che pare disegnato da Matt Groening e che cerca disperatamente il suo amico Giancarlo uralandone il nome a gran voce e più passa il tempo più si irrita anche con i Pixies e con Black Francis, ma è un’irritazione giocosa e piena d’amore (o forse mi sbaglio, forse prevede il futuro) il giovane sa di alleggerirci la sfiancante attesa, dona abbracci a destra e a manca e quando la band entra sul palco si catapulta più vicino che può, il suo spettacolo è finito, adesso tocca a loro, adesso tocca ai Pixies. La band di Boston parte subito con l’incendiaria cavalcata di “Velvety” seguita da “Rock Music” che precede la sensualità dannatamente coinvolgente della splendida “Hey” con la chitarra di Santiago che brilla per eleganza. Tre brani che bastano per farci capire che passeremo quasi un’ora e mezza in compagnia di una band ancora in grandissima forma, l’energia che si respira è veramente tanta e salirà ancora.

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Oltre ad un paio di ripescaggi da quell’Indie Cindy che due anni fa segnò il loro ritorno (se vogliamo evitabili, per quanto live risultino nettamente più piacevoli) Francis e soci ci proporranno tutti e 4 i pezzi già ascoltabili del disco in arrivo, il Power Pop surfato di “Classic Masher”, “Baal’s Back”, potentissimo Hard Rock in pieno stile AC/DC, la power ballad “Head Carrier” ed il Garage “Um Chagga Lagga”, primo singolo estratto dal disco in arrivo, brani capaci di mostrarci come se la cava ai cori la Lenchantin su pezzi dove non possiamo paragonarla alla Deal, e si può dire che la ragazza ci sa fare e che supera l’esame anche sui pezzi dove il paragone è inevitabile, a voler trovare qualcosa che non va si potrebbe dire che forse in alcune occasioni il suo basso risulti meno potente e spigoloso di quello originale, ma mi sorge il dubbio che lo si potrebbe dire più per il dispiacere di non vedere sul palco la storica bassista della band che per come effettivamente lo strumento suoni. I nuovi brani dei Pixies live sono veramente trascinanti (ed immagino il nuovo disco piacerà più del precedente) ma ormai il loro segno distintivo non c’è più, mancano quella fantasia, quelle dissonanze, quella facilità complicata che avevano contraddistinto i loro giorni migliori, per quanto la title-track e “Um Chagga Lagga” due passi indietro nel tempo nel loro piccolo provino a regalarceli. Ma quei giorni stasera li ritroveremo ed alla fine andremo a casa felici di esserci stati, felici e bagnati (ma anche un po’ incazzati, scoprirete come mai più avanti) perché, come ad ogni concerto Rock all’aperto che si rispetti non mancherà, per una buona ventina di minuti, una pioggia torrenziale, portata, guarda caso, dal supereroe Tony (He’s got the oil on his chain, for a ride in the rain) non prima che la robusta e straziante violenza di “Dead” si sia occupata di oscurare il cielo.

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I Pixies andranno a pescare molti dei loro pezzi storici, in particolar modo dai due album che li hanno elevati a band culto: Surfer Rosa e Doolittle. Avremo così modo di godere di brani come l’ossessiva e nevrotica “Bone Machine” con l’ottimo lavoro della sezione ritmica, i riffoni di Santiago e la voce di Francis che volerà ovunque possibile, come della prorompenza sgraziata, tossica e liberartoria di “Gouge Away” e della demenziale “River Euphrates” con i suoi graffi Punk Rock (brani che manderanno il pubblico in delirio sotto il diluvio).

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A pioggia terminata arriveranno due delle canzoni più meravigliosamente appiccicose e melodicamente irresistibili che la mia mente ed il mio cuore ricordino: la splendida, intensa e criptica ballata “Monkey Gone to Heaven” e l’adorabile Surf Pop di “Here Comes Your Man” coi loro ritornelli killer (durante la seconda quello che avrò davanti ai miei occhi sarà uno dei pubblici più puramente felici che mi sia mai capitato di vivere ed osservare nel corso di un live). Arriveranno ancora la coinvolgente “Levitate Me”, furioso e distorto mostro Pop Rock estratto dal disco d’esordio Come On Pilgrim, ed ancora il loro pezzo più sigificativo, col suo inesorabile riff, l’abrasiva ed allucinogena “Where Is My Mind?”, momento di puro delirio collettivo. Sarà grazie alla tenera demenza di “La La Love You” che godremo di un paio di minuti un po’ più calmi prima dell’arrivo della strepitosa, eclettica e appassionata “Vamos” dopo la quale la band, fin qui col pubblico niente più che qualche occhiata, arriverà al momento dei saluti, che saranno calorisissimi, un paio di minuti per un grande e reciproco abbraccio e finalmente anche qualche sorriso da parte del leader del gruppo. Non ci sarà bisogno di richiamarli sul palco, i Pixies dopo questa calorosa stretta torneranno immediatamente ai loro strumenti per far partire “Debaser”, ma cosa accadrà? Che Black Francis deciderà di bloccarla dopo pochi secondi quando tutti ormai stavamo godendo all’idea di gustarci quell’immenso brano, uno scherzo da prete più che da folletto che non andrà giù a me come credo a molti altri. Al suo posto la band suonerà “Planet of Sound” da quel Trompe Le Monde, ultimo capitolo della loro prima fase, che segnava il decorso della loro schizofrenia più accesa e accecante, per quanto l’episodio raccontato sopra dia l’idea di un cammino ancora lungo per una completa guarigione.

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L’amaro in bocca, sì. Che poi sarebbe semplicemente bastato non farla partire quella maledetta “Debaser” no? E chi si sarebbe lamentato in fin dei conti? Fin lì era stato tutto così bello, certo con lei sarebbe stato perfetto, sì sarebbe mancata “Gigantic” ma la sua è un’assenza evidentemente giustificabile, l’altra no, non dopo averla attaccata. Comunque, provando a mettere da parte la delusione per questo finale, quello che si può dire è che questa band dal vivo goda ancora di ottima salute. L’istrionica voce di Black Francis ha ceduto qualcosa di molto vicino allo zero, i musicisti sono ancora in un grande stato di forma con una Lenchantin inseritasi perfettamente nel’anima di questo storico gruppo. Questi folletti sono stati dei giganti e lo sono ancora per quanto incredibilmente attuali suonino le loro composizioni, veramente una ventata d’aria fresca, ancora oggi, stupefacenti. Però, mio caro signor Charles Michael Kittridge Thompson IV, questo non la giustifica minimamente per quanto combinato nel finale, dunque sappia che personalmente, almeno per qualche giorno, non potrò fare a meno di odiarla.

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Pere Ubu 19/02/2015

Written by Live Report

Pere Ubu @Spazio 211, Torino, 19/02/2015

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Non c’è davvero bisogno di presentazioni per i Pere Ubu. La band di Cleveland, OH, United States, è attiva ormai da quarant’anni nel panorama musicale internazionale. Risale al 1978 infatti il loro capolavoro “The Modern Dance”. Molte cose sono cambiate da allora, ma altre sono rimaste invariate, come la presenza di David Thomas (unico superstite della formazione iniziale), o come la voglia di continuare a ballare una danza moderna di suoni, senza lasciarsi invadere dalla nostalgia per i tempi che furono. Dopo quarant’anni, dopo aver rappresentato il trampolino di lancio per la New Wave partendo da elementi di Blues e Punk, la loro parola d’ordine sembra essere ancora sempre e solo una: sperimentazione. Ed è proprio a questo aspetto che viene dedicata la prima parte del concerto, mentre la seconda si concentra sui brani tratti dagli ultimi lavori in studio; l’ultimo, Carnival of Souls, è dello scorso anno. La nostalgia resta in disparte anche per ciò che riguarda la performance live. Ok, Thomas ha bisogno di un bastone per camminare. Ok, canta seduto. Ok a volte il suo sguardo ha la stanchezza di chi ha visto tanto e pure troppo nella vita (o forse è solo brillo), ma questo non gli consente di evitare una performance brillante, pazzesca, ironica e inquietante allo stesso tempo. Si dimena, anche da seduto, in movimenti ed espressioni facciali tra rabbia e disperazione, e si lancia in monologhi carichi di ironia: ci confessa ad esempio che avrebbe desiderato essere un cantante Soul circondato da belle donne come Barry White. Ne segue tanto di spogliarello che si limiterà ad un solo calzino, sfilato dal piede e fatto volteggiare per aria prima di ritornare al suo posto. È mezzanotte e mezza, dopo due ore la bottiglia di Barbera accanto a David Thomas è a metà, ma il concerto è finito. Giusto il tempo di salutare e rubare la scaletta dal palco. Poi i Pere Ubu si dissolvono e a noi non resta che tornare a casa sulle note di una danza moderna ancora molto attuale.

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Pixies – Ep-1

Written by Recensioni

Questa è una recensione disillusa e triste. Se vi aspettate belle e rassicuranti parole sui Pixies di Ep-1 non le troverete qui, oltretutto oggi piove e questo non aiuta. Ma tant’è.

Questa è una recensione sui Pixies che però di Pixies hanno ben poco. Nata nel 1986, la band di Boston inizia da subito a farsi notare grazie al suo nuovo modo di fare musica che creerà un inedito e alternativo linguaggio sonoro di cui faranno tesoro numerose band dagli anni Novanta in poi. Il loro sfaccettato e personalissimo Garage Rock misto all’Hardcore nato dalla lezione dei Pere Ubu, The Stooges, Velvet Underground e Clash è un composto eccezionalmente frenetico, acido e distorto ma nello stesso tempo melodico. È il 1988, esce Surfer Rosa disco che resterà definitivamente tra i capolavori del Post-Punk e porterà i Pixies ad essere ricordati come una delle colonne portanti dell’Indie Rock degli anni Ottanta. Ma quel che è stato è stato, torniamo su Ep-1 loro ottavo album, autoprodotto e realizzato senza l’indispensabile presenza di Kim Deal, basso, voce e chitarra del gruppo che,dopo ventisette anni di permanenza, decide di lasciare Black Francis & Co.

L’Ep di quattro tracce, si apre dolorosamente con “Andro Queen” 3.24 minuti di noia portati a spasso da pallide chitarre e da una nebulosa batteria; pezzo che va avanti per inerzia, un ibrido ascolto inadatto sia all’amante del Rock più energico che al pacato ascoltatore Pop. Le cose non migliorano affatto con “Another Toe”, brano annacquato, dal retrogusto americano che si trascina a fatica per tutta la durata. I nostri provano a rialzare le sorti con “Indie Cindy”, (che di Indie non ha proprio nulla) ballata flemmatica inutilmente rockeggiante. L’unica nota positiva di questo lavoro è l’ultima traccia, “What Goes Boom” dove finalmente torna a farsi sentire qualche schitarrata come si deve e Black Francis pare gridare: “Sì ragazzi, ce la possiamo ancora fare!”. Ma, in sostanza, dell’originario ritmo sincopato e delirante nessuna traccia, niente resta di quei riff vigorosi e abrasivi, nessun Punk dal ritmo sfrenato e selvaggio, solo piattume. Ascoltarlo più volte non aiuta, anzi testimonia il lavoro di una creatura ormai arrugginita il cui estro creativo sembra essersi dissolto.Primo di una serie di release che attendiamo con ansia (sperando siano migliori), Ep-1 è un lavoro sfibrato, palesemente forzato edi una staticità snervante. Un disco che mentre lo si ascolta si è già dimenticato.

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“Diamanti Vintage” Pixies – Surfer Rosa

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Senza i Pixies noi Nirvana non saremmo mai esistiti, è la pura verità. Questo è quanto affermato da Kurt Kobain in una lontana intervista riferendosi specialmente a questo album dell’88, Surfer Rosa, l’album ufficiale che Black Francis, Joey Santiago, Kim Deal e David Lovering vollero a tutti i costi per fare sentire l’emblematico manifesto sonoro del loro stile, una eccezionale dinamite di Power-Pop, Garage e stimmate Hardcore, in modo di inibire  le altre garage band al loro passaggio. E la cosa riuscì alla perfezione, tanto che il magico Steve Albini lo produsse e lo lanciò nel mondo come un frisbee impazzito.

Sebbene solo un primo disco di carriera, i Pixies già esprimevano l’autentica folgorazione e una irrefrenabile urgenza di liberazione di andare oltre e contro, ed il loro tutto sommato Garage-Rock rodeva sotto sotto le irruenze. i riff e certe mutazioni psichedeliche di una caratterizzazione abbastanza spavalda quanto alternativa per l’epoca, fatto sta che questo disco arrivò alle orecchie di mezzo mondo, mondo che in pochissimo tempo li innalzò a “totem” di una nuova definizione musicale, ovvero i paladini del Noise-Pop. Una tracklist dalle infinite congetture, mille angolazioni d’ascolto e altrettante fusioni soniche, tredici umori elettrici brillanti e grezzi nel contempo che catturano anche- e soprattutto – per la loro anfetaminica pulsione che si  avvinghia tra melodie ed esplosioni.

La voce della Deal media dolcemente con gli amplificatori e pedaliere focose “Gigantic”, “River Euphrates”, mentre il resto della band coglie i campioni dettagliati di certi Pere Ubu, la nevrosi degli Stooges e Violent Femmes, “Bone Machine”, “Broken Face”, “Tony’s Theme” e senza farsi mancare uno spiraglio allucinato punkyes “Vamos”che stordisce per il nonsense che carica. Sconfinato successo ed un nuovo lessico amplificato, bambagia di fuoco per le fun-up  radiofoniche dei college Usa e un mix estemporaneo di lucidità, follia, alienazione e forte senso dell’humor che si impadronirà del globo rock lasciandoci sopra bei ricordi.

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Pere Ubu – Lady From Shanghai

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La storia decennale dei Pere Ubu continua, David Thomas e i suoi se ne escono con Lady From Shanghai, album, l’ennesimo, che canalizza in se la visione Dance che hanno della musica o almeno così dichiarano. I Pere Ubu sono una delle più importanti e significative band della scena New Wave, hanno sempre cercato e lavorato per oltrepassare i dogmi della musica Rocksin dagli albori, nel 1978 con The Modern Dance. La personalità di Thomas, front man del gruppo, tormentata e quasi schizofrenica, fa da identità alla band e ne delinea timbrica e sonorità concettualizzandole in ritmiche turbate da se stessa, come se fosse rimasto incastrato in uno stato confusionale tra sogno e realtà.

Lady From Shanghai è un album che cerca di uscire dai soliti paradigmi della musica Dance ma il risultato, come comprensibile, è la strana visione che ha Thomas di essa. Undici tracce contorte che hanno lasciato la mia razionalità confusa e stordita al primo ascolto. Si passa, dall’infernale prima traccia “Thanks” al mondo meraviglioso di “Free White”, andando per filastrocche martellanti “Feuksley Ma’am, The Hearing” fino ai sobborghi di “Mandy”. Infelice David Thomas in “And Then Nothing Happened” fino ad arrivare a dire “Musicians Are Scum” i musicisti sono feccia. Storie disastrate “Another One (Oh Maybellene)”, incomprensioni in “The Road Trip of Bipasha Ahmed”. Il risveglio dal sogno con l’imperdibile “414 Seconds” e la chiusura onirica con “The Carpenter Sun”.

Un album sicuramente Avant-Garage che ci mostra dei Pere Ubu cresciuti ma non diventati grandi, un album in linea con i precedenti che non aggiunge nulla di più alla band ma la lascia alla sua naturale stranezza.

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“Diamanti Vintage” Killing Joke – S/t

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Il  loro è stato – sin dall’inizio – un gioco al massacro, una delinquenziale proposta elettrica ogni oltre limite che andò a “disturbare” in maniera oltraggiosa i malcostumi e le svenature tardo romantiche della new wave, la loro proposta – mai studiata a tavolino come si potrebbe assurgere – non era altro che frutto copioso di una schizofrenia sociale che batteva i pugni della rabbia ovunque. I Killing Joke di Jaz Coleman, in questo loro omonimo debutto infiammabile, stilano rasoiate che sanguinano un concentrato tossico di decadenza punk, Garage dei bassifondi ed un funky trasversale che abbraccia in un sol giro Pere Ubu, Siouxsie And The Banshees e quant’altro, nove tracce, nove tribalità che andarono a graffiare le pelli delicate di tantissimi gruppi refrattari al cambiamento.

Ovunque senso di ossessione, destabilizzazione, mal di vivere e disagio, una matrice elettrica quadrata di ritmi, scatti nervosi e la fredda intemperanza delle zone periferiche di una Londra sempre più in rivolta, sempre più coinvolta in cambiamenti rutilanti; le distorsioni si sprecano, la marzialità impera e lontani appannaggi percussivi africani si fanno audaci e battenti, come a rivendicare una sceneggiatura messianica, woodoo, ma sono sensazioni che schiaffeggiano e poi vanno via, ma la carnalità è tanta come pure le accelerazioni che la band inglese cerca di inserire anche in un abbozzo di una dance robotica “Bloodsport”. Coleman, Ferguson, Geordie e Glover – questi gli eroi dannati – partoriscono questa struttura primitiva di rock contaminato che è una esplosione di interesse e di critica, un disco negativo che attira positività da ogni parte, e tutto ciò da la spinta vitale a una falange di band che si vogliono –  e lo faranno –   appropriare dello stile e relativi dettagli.
Una parabola – appunto –  che farà anche scuola per marchingegni sonici come futuri Ministry, NIN, Deftones e similari, una sequenza industriale di chitarre  a machete, ritmi epilettici e voce sguagliatamente cool che crea atmosfere quasi luciferine, il battuto di “Tomorrow’s World”, “The Wait”, la wave saltellante “Complications” e il rock militante di “Primitive”, per arrivare al delirio finale di “Change”, brano in cui tutto si fa ancor più scuro, asciutto e pronto per un uso spasmodico delle pedaliere.

La loro musica diventa un must e che ancora fa cattedra, una formazione ed un disco che ha definito nuovi confini dove riferirsi una volta ingaggiata la lotta con la modernità.

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“Diamanti Vintage” Shellac – At Action Park

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Non sazio di aver dilapidato e destrutturato tutto quello che vagava nel rock senza guinzagli nell’America fine 80 e inizio 90, con due delle band al vetriolo che più rappresentavano il disagio delle moltitudini urbane ovvero Rapemen e Big Black, Steve Albini – dopo una pausa per motivi ideologici – riprende in mano la situazione, ed insieme ad altri due gran “casinari”, Bob Wetson e Todd Trainer fonda gli Shellac, una delle formazioni USA dove  atmosfere brutali, storte e squadrate erano la normalità.
Siamo in pieno Post-Core, Slo-core, rimasugli di Math-Rock e alle spalle il ringhio in lontananza dell’Hardcore, e da questo immenso guazzabuglio distorto e malato viene partorito “At Action Park”, il disco in cui tutto il sistema fradicio delle nuove stilizzazioni viene inglobato e masticato senza remore, un disco (dieci tracce) in cui scorre veleno, controtempi, una geometria angolare da far paura – tanto precisa –  noise lancinante e zigrinato e una costante riproposizione di temi sociali infastiditi dalla insofferenza dei poteri di allora; quello che ne viene fuori all’ascolto è alienazione sonora che si fa portavoce di un sound a matrice industriale, urla, ossessioni e oppressione sono il filo elettrico portante di questa tracklist a maglio, una estremizzazione di pedaliere e feedback che per tutta l’esecuzione di questo lavoro vengono registrate dal vivo, per dare quella sofferenza in più a chi porge l’orecchio.

Molti definirono il disco una enorme bocca dentata dove dentro ci andava di tutto senza cognizione di causa, ma il successo ottenuto invece lo consacrò tra le produzioni alternative più “slegate” dell’intero panorama americano, e loro, questi scalmanati dalla personalità delirante vinsero la capacità di gridare senza vergogna tutta la brutalità e disumanità che la macchina yankee produceva sulla pelle di chiunque;  accordi di chitarra asfissianti, volutivi, basso bastonante e voce ossessa, sullo sfondo i fumi neri di Fugazi, Jesus Lizard, Pere Ubu, e tutto l’ascolto procede come in un campo minato, le seghettate note che “Pull The Cup” e “My Black Ass” vanno a tranciare i coni stereo, la magnifica visione drogata di “Song of Minerals” o il tribale busso che “Crow” tramuta in una danza  industriale/ipnotica, o il recupero nostalgico delle nervature sclerotizzate del punk che in “Dog And Pony Show” si spaccano in mille rivoli di sangue rappreso; poi con la finale ed impenetrabile jungla orientalizzante e schizofrenica che abita“Il P***o Star”, il disco esplode in un presagio, quello della certezza di un imminente capolavoro di irrefrenabile maledizione.

Atroce e mai addomesticato, agitare con cautela.

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Questi Sconosciuti – S/T Ep

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Spesso – o sempre – mettere d’accordo vecchio e nuovo non è sempre sintomo “volpino” per tenere (a filo del proverbiale escamotage) il piede in due staffe, cioè non prendere una posizione fissa e strutturata su quello che si vuole fare, molte delle volte è una accorta ed onesta velleità a fare le cose bene e senza far finta di essere “migliori”, e l’onestà intellettuale è la base di tutto, poi nella musica è la prima cosa che si riscontra, tanto vale non provarci nemmeno per un secondo. La lezione pare essere stata assorbita bene da questa band pugliese, i Questi Sconosciuti che con l’esordio senza titolo, ma con altri bei titoli da ascoltare, arrivano a prefigurare un trespass di ieri e oggi maturo e rimbombante, un indie-pop che interpreta una eccellenza sonora della quale sentiremo parlare in futuro.

Dodici tracce che tra sferragliamenti chitarristici, malinconie euforiche di stampo Battistiano “Due di Due”, “Me Tapino”,  in azione di congiungimento con irruenze degli anni Novanta di tempra Pere Ubu e Violent Femmes “Ciao, “Tutto il giorno” stilano una tracklist fumigante e radicalmente tormentata, un cammino sonoro che – ci ripetiamo – è una gran bella scommessa e che sorprende se non altro per lo scatto atemporale che porta in dote: Alessandro Palazzo voce/chitarra, Giuseppe Bisignano chitarra/voce, Francesco Lenti basso e Marcello Semeraro alla batteria, sono l’espressione di una “emergenza” che è già matura, una di quelle band sconosciute che già pare conoscerle da sempre, il loro stimolo sonoro è nella densità dei suoni e degli arrangiamenti, un Ep che a suo modo rinfresca la scena indipendente attuale con la semplicità e l’atmosfera artistica che già si fa  respirare avidamente dalla copertina.

Un ascolto di immediata accessibilità per la rivelazione di una band dalla personalissima cifra stilistica, melodia e pedaliere scoppiettanti che disegnano una piacevolezza delle forme e una rilettura del pop in maniera innovatrice, dalla intimità grigia di “Carah” alla punta di penna di “Perdonami Niente”, allo scatto imprevedibile ed epico di “Tutto Il Giorno” fino allo shake puntato di “Prove di Rivoluzione”, ending scalpitante e radiofonico a mille, nonché sintomo di un Sud sonico più che mai pronto a cariche di suoni verso l’alto dello Stivale, la riscossa che tocca e raggiunge il cuore di chi ascolta Questi Sconosciuti e già mette paura a tanti!

 

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