Marialuisa Ferraro Tag Archive

Nadàr Solo – Fame

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I Nadàr Solo sono tre giovani musicisti di Torino, città caratterizzata da un underground musicale vivace e fervido, sostenuto da un discreto numero di locali e realtà pubbliche e private, oltre che da un pubblico di giovani curiosi, studenti, appassionati. Una bella scena. E il terzetto non è di certo di primo pelo. Han ormai anni di carriera alle spalle, costellate di esibizioni, recensioni e collaborazioni di un certo pregio nel panorama musicale nostrano, come quella con Pierpaolo Capovilla. Non stupisce quindi di far partire Fame e trovarsi davanti a un disco ben fatto, ben registrato e ben prodotto. Naturalmente a una band non basta una buona confezione e una buona reputazione. “La Vita Funziona da Sé” ha quell’alone di precariato e instabilità tanto caro all’Alternative nostrano. I tempi sono quelli, in fondo, e non ci si può certo inventare una realtà diversa. Il cantato di Matteo De Simone è in rima, espediente che usa spesso nel corso del disco per la costruzione delle liriche, come anche nella successiva “Non Volevo”, dal tenore ben più scanzonato e canzonatorio. Dall’Alternative Rock arriviamo al Cantautorato con “Cara Madre”, che cede il passo a “Jack lo Stupratore” con le sue sonorità Post Punk anni 2000, pulite pur nella distorsione, le chitarre di contrappunto, ben utilizzate e la voce che sottolinea il sarcasmo su cui è costruito il violentissimo testo. Il ritornello è ridotto a una sola frase reiterata densa di significato ma risulta quasi svuotato dalla sua funzione mnemonica, perché sempre diversa. I testi dei Nadàr Solo sono articolati: lessico altisonante alla Marlene Kuntz e costruzione della frase in stile Il Teatro degli Orrori.

“La Gente Muore”, ha un incalzante andamento in levare scandito dall’intrecciarsi melodico delle chitarre sulla sezione ritmica, mentre colpisce il riff iniziale di “Piano Piano Piano”. Spesso i testi del trio non sono immediatamente intellegibili: i Nadàr Solo sembrano voler dire troppe cose, che non possono comprimersi nello spazio di un verso. Il risultato è un cantato con una scansione sillabica rigida e velocissima, poco ariosa e che non si concede mai un virtuosismo. E stupisce, da astigiana quale io sono, sentire un torinese descrivere la “Ricca Provincia” con tanta amarezza e tanto realismo: una riflessione lucida sulle piccole realtà cittadine, stereotipate e ancorate ai propri stereotipi per definizione stessa, condizioni e modi di fare d’uso, cristallizzati nel tempo e immutabili. Musicalmente ben costruita è “Akai”: sempre in tensione, come in un climax continuo che non trova mai risoluzione, se non forse, per continuità, nella seguente “Splendida Idea”. Davvero pregevole è “Shhh”, un crogiolo di stilemi Indie padroneggiati alla perfezione, in un risultato che richiama quasi gli ultimi Arctic Monkeys – che non saranno al top della forma, ma sono pur sempre gli Arctic Monkeys.

Il disco chiude in sordina, con le sonorità acustiche e Pop di “Non Sei Libero”. Fame val bene un ascolto. Non è il disco della vita e non piazza i Nadàr Solo in nessun qualsivoglia Olimpo musicale. Ma rende indubbiamente giustizia a tre bravi strumentisti, capace di cogliere il mood quotidiano di una gioventù precaria e instabile, in una realtà a volte stantia, a volte distorta, a volte violenta. Se vi capita, concedetegli mezz’ora del vostro tempo.

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Plus Plus – Psycho

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Decisamente non artisti di primo pelo questi Plus Plus, che con Psycho giungono al terzo disco dopo Evils del 2010 e Game Over del 2011. Nella loro biografia si legge che hanno origini inglesi ma che attualmente risiedono in Giappone. E certo è che la loro ultima fatica risente di un certo sapore internazionale, declinato lungo tutte le otto tracce interamente strumentali. Il disco, tutto sommato di durata contenuta, si apre con “This is Based Upon a True Story”, raffinata e solare, dettaglio che contrasta subito con la mia aspettativa, del resto assolutamente ingiustificata, di toni sommessi e atmosfere cupe. La sensazione prosegue con “Jail”, un richiamo all’Alternative Rock romanticone stile Coldplay, etereo e impalpabile, nel quale forse solo la reiterazione di una brevissima cellula melodica dà l’impressione di essere imprigionati. “Piano Song”, vuoi per il nome, è vagamente debussyniana. Ma non solo. Impossibile non ricordarsi subito del leggero tocco Pop pianistico di Yann Tiersen, ad esempio. Le sonorità cambiano leggermente, pur restando acustiche, nella successiva “Dieter Rams”, introdotta dalle corde pizzicate, incaricate di marcare il ritmo e definire la condotta armonica, ricreando un tappeto sonoro adatto ad ospitare, nuovamente, il timbro del pianoforte. Atmosfere visionarie, suggestioni più lisergiche che psicotiche, come vorrebbe invece suggerire il titolo, caratterizzano la traccia che dà anche il nome all’album, “Psycho”: espedienti strumentali che sembrano essere impiegati come musica colta descrittiva, finendo con pochi mezzi esaurienti, per costruire una perfetta scena sonora notturna.

E con la traccia numero sei, “Gentle Man”, la più lunga di tutto il disco, con i suoi cinque minuti e più, capiamo di essere davvero di fronte a fortunati e talentuosi eredi di artisti come Mogwai o Explosion in the Sky. “Plantopia”, a dispetto del nome, ha un non so che di marino: le sonorità sono ovattate e dilatate allo stremo, il tempo si congela in un vuoto capace di circondare e avvolgere l’ascoltatore, esattamente come ritrovarsi immersi nell’acqua circondati dal nulla, eppure sfiorati da tutto. Psycho chiude con “The Rolling Hills of England”, che forse è un richiamo alla terra natia, al passato epico e glorioso e dignitoso dell’Inghilterra che il titolo cita, come si percepisce dai movimenti melodici medievaleggianti che puntellano l’intero brano. Nel complesso è un album davvero ben fatto e che vale la pena ascoltare. Consigliatissimo.

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Afterhours 27/08/2014

Written by Live Report

Il festival Contro, di Castagnole Lanze in provincia di Asti, marca, per i piemontesi, la fine dell’estate. E per me, con l’esibizione del 27 agosto degli Afterhours, chiude un cerchio iniziato tanti anni fa. Perché la band di Agnelli è stata la prima che ho visto dal vivo, in una di quelle occasioni assurde in cui sei ancora così piccola che tuo padre ti accompagna a vedere un concerto e sta fuori in auto a fumare per due ore, commentando fra sé quanto siano strani i tuoi amici. E sempre in piena adolescenza, il 27 agosto 2003 (chissà se gli organizzatori l’hanno scelta di proposito questa data anche per il 2014), ero a vederli per quella che era già almeno la terza volta della mia esistenza, esattamente a Castagnole, a urlare di volere una pelle splendida. Undici anni dopo, sulla soglia dei 30, posso dire che la mia pelle, nicotina e tutto, si difende alla grande. Ma su questo faremo bene a tornare tra una decina d’anni di sigarette, litrate di birra e vita varia. Gli Afterhours, in questo tour, suonano tutto Hai Paura del Buio, da cima a fondo con tanto di intro. Sono così filologici nella ripresa che sono persino vestiti come allora, con le loro camicie colorate dai colletti larghi e le giacche con un taglio di almeno una decade anteriore all’uscita del disco.

Ricordavo che la volta precedente, in piazza San Bartolomeo a Castagnole, Agnelli aveva censurato la bestemmia di “1.9.9.6.” per via della chiesa antistante. Nel 2014 ha vinto la filologia. Non crediate, nonostante l’adorazione brufolosa che avevo per la band, che io abbia passato gli ultimi dieci anni a farmi delle gran seghe mentali sui dischi degli Afterhours. Grazie a dio ho aperto i miei orizzonti e, se anche ho avuto modo di apprezzare alcune delle loro ultime fatiche, con I Milanesi Ammazzano il Sabato avevo smesso di seguirli. Ed ero veramente scettica sulle doti vocali di Agnelli che invece ci ha regalato esecuzioni di tutto rispetto e urla strazianti alla vecchia maniera su “Male di Miele”, “Lasciami Leccare l’Adrenalina” e su “Rapace”. Belle anche “Dea” e “Simbiosi”, intense come allora “Pelle” e “Voglio una Pelle Splendida”. C’è di che sentirsi vecchi a urlare la strofa di “Sui Giovani d’Oggi ci Scatarro Su” saltando come un’idiota e pensando che non cambia mai un cazzo, in fondo, in questa società. Finiscono il disco. Bravi bravi.

E ma che vuoi da gente che comunque suona da più di vent’anni. Escono di nuovo, si sono cambiati: tutti vestiti di nero, tranne quell’eclettico di Roberto Dell’Era che si è conciato in maniera del tutto improbabile, in un mix bianco ghiaccio tra Elvis e Elio e Agnelli annuncia che è venuto il momento di fare sul serio. Il pubblico, per altro poco numeroso (forse sconfortato dai venti euro di biglietto), è gasatissimo. Peccato che seguano venti minuti di rottura di palle devastante (“Spreca una Vita”, “Ci Sarà una Bella Luce”, “Costruire per Distruggere”, “Io So Chi Sono” e “Padania”). Aritadeci gli anni 90. E il secondo encore ci accontenta. Una “Strategie” tiratissima ci ricatapulta indietro nel tempo, giusto in tempo per far spazio a “La Verità che Ricordavo” e alla sempreverde “Non è per Sempre”. Mi stupisco di essere quasi la sola a cantare “Ballata per la Mia Piccola Iena”. Eppure quello era ancora un gran bel disco della formazione milanese. Seguono “La Sottile Linea Bianca”, “Quello che Non C’è” e, finalmente, “Bye Bye Bombay”. E su quella mi saluto. Saluto gli Afterhours che non credo onestamente rivedrò più nella mia vita, perché quell’epoca è finita, e saluto la piccola me, tutta fasci di nervi, incazzatura facile, grandi speranze, letteratura, ambizioni, speranze e psicodrammi che non sono un cazzo rispetto a tutto quello che viene dopo, nel bene e nel male.

Io non tremo, è solo un po’ di me che se ne va.

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Ludwig Van Bologna – L’Arte della Fuga

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Si sono scelti un nome altisonante i Ludwig Van Bologna, che richiama subito la musica classica -complice anche il titolo bachiano- ma anche la malattia distruttiva di Arancia Meccanica con le sue ambientazioni Pop e dettagli Glam. E questa macedonia ideologica si ritrova anche nei brani che compongono il disco: “Gino Paoli” apre con sonorità Indie alla Best Coast, per poi finire in un arabesque di linee melodiche dissonanti. “La Tosse”, invece, è tutta tarantiniana, retta da una linea di basso calda e ripetitiva. Con “Signori Signore” si cambia completamente registro, con un’apertura a filastrocca scandita dal declamato vocale sillabico e stacchi ritmici condotti dalla chitarra. Fin qui mettono sicuramente una certa curiosità, anche se bisogna ammettere che i nostri non stanno dicendo niente. Si nota, nei testi, una certa autoreferenzialità (sul ruolo del musicista, sul comporre canzoni, su partecipare a concorsi), ma la cosa si esaurisce subito e il cervello e il corpo di chi ascolta spostano la loro attenzione esclusivamente sulla componente musicale. “Niente” ricorda i Marlene Kuntz dei bei tempi che furono, il che è sicuramente un gran complimento: chitarre distorte e dissonanti avanti e voce relegata sullo sfondo caratterizzano anche la successiva “Solo Andata”, forse il brano più introspettivo di tutti nonostante, anche in questo caso, i testi non colpiscono se non per l’intellettualoide impiego lessicale, altro gran richiamo a Godano e soci. Il dialogo tra glockenspiel e basso che regge la traccia successiva, “Idee Balorde”, su cui, in crescendo si insinua un larsen rumoroso, dà prova della bravura strumentale dei Ludwig Van Bologna. Manca forse un po’ di spessore nel messaggio testuale o un po’ di convinzione nell’esprimerlo, ma questi ragazzi sono sicuramente buoni musicisti. Lo dimostra anche la sterzata alla Plastic Passion dei Cure che caratterizza l’intro della successiva “Happy Dee Dee”, a condire ulteriormente questa macedonia di ispirazioni Noise, sonorità fredde, parolone difficili alla CSI. “Parole Cose” è il climax di questo mèlange musicale: Pop, Funky, Surf, sfumature Punk trovano spazio in un’unica traccia che si spegne, letteralmente, in “Axolotl”, per pianoforte – con un trattamento ben più moderno di quello che avrebbe fatto Beethoven del suo strumento, più malinconico ancora se possibile, più cinematografico, alla Yann Tiersen – e voce, sillabica, monotona, greve.

Non è un disco imbecille. Non è un disco che si ascolta una sola volta e si cestina a cuor leggero. Al contrario è un disco che si sente più volte alla ricerca dei numerosi pregi. Per poi tirare le somme, però, e passare ad altro.

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Dagomago – Evviva la Deriva

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Comodo definirsi Indie Rock quando si sa bene che vuol dire tutto o niente. E così i Dagomago contornano il loro genere di nessuna specifica e ci obbligano o ad ignorarli per quell’etichetta o ad ascoltarli per forza per giudicare. Evviva la Deriva è il frutto di poco meno di due anni di collaborazione del trio piemontese, eppure è un disco già supportato da un’etichetta, da un bel packaging, da una bella squadra di promozione. “Male”, la traccia di apertura, promette male come il titolo sembra preannunciare visto che apre con una serie di versi in rima, immagini depresse stereotipate, vocali aperte alla Manuel Agnelli. Sembra la solita roba nostrana, già sentita. Ma la band si riscatta con “Le Cabine del Telefono” che si rivela, invece, ben più particolare, con un cantato acido alla Francesco-C e un non so che dei Dari. Questa sensazione prosegue con “Cucinami Se Vuoi”, una canzone d’amore finito che ha più il sapore Punk di un vaffanculo che quello di una ballad di addio. Bella, mi ha fatto ridere. E anche con la successiva “Cervello in Fuga” capiamo che i Dagomago non sono la solita band nostrana che si piange addosso. Anzi: sembrano di proposito riprendere nei titoli tematiche care al Rock di protesta italiota per farne una bella caricatura, come in questo caso, in cui il testo recita “Il mio cervello è in fuga e io non gli sto più dietro” mentre la musica è una scanzonata serie di passaggi accordali delle tastiere, direttamente dagli anni 80. E si gioca con gli stereotipi anche in “La Vita Acida”, tra musicisti che suonano davanti a nessuno, Roma ladrona, la Milano da bere. Ok, non è che siamo di fronte a degli idioti o a dei ragazzotti leggeri che scherzano su tutto e non riescono a prendere niente sul serio. Evviva La Deriva è un album lucido, che affronta semplicemente da un altro punto di vista e con un altro piglio. E la faccenda è evidente in “Apprendista a Tempo Indeterminato”, un insieme di malessere diffuso che attraversa longitudinalmente la sfera privata e il contesto sociale, la vita professionale e l’amore. Il tutto condito con una bella chitarra sanguigna che finalmente esce fuori, più che nelle altre tracce, rivelando una certa bravura tecnica. Le tracce confluiscono con molta naturalezza una nell’altra, così “Viva Salsedo!” inizia quasi senza essercene accorti e lascia spazio a “Maninalto”, una marcia che apre a singhiozzo, elettronica e freddissima. Il disco prosegue con “Iocnr”, forse la traccia meno immediata di tutte, complessa nell’arrangiamento, non immediatamente incasellabile in nessun genere, con uno stacco dissonante, artificiale, confusionario. Quando inizia “Tenera È  la Notte”, quindi, la differenza stilistica è notevole: accordi in deelay e cantato soft e fumoso, puntellato da effetti strumentali e doppie voci che danno subito un tocco di etereo al brano. Una bella parentesi o più semplicemente il climax di una maturità che la band sembra andare acquisendo man mano che le tracce scorrono, come in un percorso di formazione. Il cerchio non può che chiudersi con la smentita della prima traccia: “Non Fa Male” è un’altra ballata, che richiama vagamente i Perturbazione per l’arrangiamento e gli Eva Mon Amour per il mood delle liriche.

Nel complesso è un disco che si fa ascoltare e che può rivelare anche qualche bella sorpresa. Ve lo consiglio, e, se vi capita, andate a vederveli dal vivo già che sono in tour.

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Pearl Jam 20/06/2014 e 22/06/2014

Written by Live Report

I Pearl Jam si sono esibiti in un doppio live in stadio lo scorso weekend: il 20 giugno a San Siro, Milano, il 22 giugno al Nereo Rocco di Trieste. Per la precisione il mio concerto numero 6 e numero 7 della band di Seattle. E io sono una dei membri del Ten Club (il fan club ufficiale) che probabilmente li ha visti dal vivo meno volte.

Andare a un loro concerto è un rito: si fanno scommesse sulle canzoni di apertura, sulle cover che suoneranno, si incrociano le dita sperando di sentire qualche rarità che al massimo negli ultimi venti anni hanno suonato live negli Stati Uniti, a casa loro. I più sfegatati si piazzano in coda la notte prima, si scrivono sulla mano un numero che indica la loro posizione in transenna. Il premio di questa giornata sotto il sole è un plettro, una scaletta, la possibilità di essere sputati da Vedder. Io sono fuori ma non così tanto fuori, mi accontento di un angolino ben dietro rispetto alle posizioni di questi temerari, ma pur sempre nell’inner circle, l’anello che raccoglie i fan dei Pearl Jam, una famiglia, dove non importa quanto sei alto o basso, quanto puzzi di sudore, quanto fai schifo a cantare, quanto urli coprendomi lo show, quante volte fermi il cingalese per comprarti l’ennesima birra a sette euro. Ti piacciono i Pearl Jam, quindi per forza sei come me, almeno un po’.

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Noi, da bravi invasati, avevamo studiato per bene le scalette delle due date di Amsterdam che hanno aperto il tour europeo: attaccano con due ballate e una veloce. E sapevamo cosa aspettarci. Niente di strano quindi nell’apertura con “Release”, a parte il brano da brividi in sé e con la sua prosecuzione con “Nothingman”, ma certo “Sirens” proprio non pensavamo di sentirla in quella posizione. E meno che mai “Black”, La canzone d’amore per eccellenza, urlata e straziante come probabilmente solo “Best of You” dei Foo Fighters e “Please Bleed” di Ben Harper riescono ad essere, il preludio di ogni chiusura o quasi dei loro concerti, il commiato triste a cui i Pearl Jam ci hanno abituato. Quattro ballate in fila e sappiamo tutti cosa vuol dire: che per la prossima ora e mezza non faremo altro che saltare. E così è stato: “Don’t Go”, “Do the Evolution” e la magnifica “Courduroy” con quel primo verso “the waiting drove me mad, you’re finally here and I’m a mess” che praticamente è quello che penso di me, così impreparata, così trepidante, così sudata dinanzi a queste mie divinità. E si continua: “Lightning Bolt”, la title track dell’ultimo album, “Mind Your Manners”, il primo singolo dello stesso disco, la vecchissima “Pilate” e “MFC”. Sulla velocissima “Given to Fly” Vedder sbaglia l’attacco, sbaglia le parole, fa un bordello assurdo e si dà dello stronzo in italiano, mentre noi gli perdoniamo tutto e cantiamo per lui, ridendo del lato umano del vate della nostra religione. E via con “Who You Are”, “Sad”, “Even Flow”, la recente “Swallowed Whole”, “Not For You”, “Why Go” e una delle mie preferite di sempre, “Rearview Mirror”. Ormai sono certa che perderò l’utero a forza di saltare. O che mi collasserà un polmone. Tanto per darmi il colpo di grazia approfitto dell’uscita di scena per girarmi una sigaretta. Neanche il tempo di finire e i nostri sono già di nuovo sul palco, in set acustico: contrabbasso per Ament, chitarra acustica e sgabello per Vedder e Gossard. Attaccano con “Yellow Moon”, uno dei brani più controversi dell’ultimo album, troppo in stile Vedder solista per alcuni, tematiche già sentite per altri. Pochi cazzi, un brano da brividi sentito dal vivo. Segue l’intramontabile “Elderly Woman Behind a Counter in a Small Town” e non c’è una sola persona di fianco a me che non sappia le parole (Hearts and thoughts they fade, fade away). Direttamente da Binaural arriva “Thin Air” che prepara a un discorsetto super romantico di Vedder a quella giga sventola di sua moglie, presente nelle quinte con le due adorabili figlie: “Qualche anno fa ero sotto un treno. Ho suonato qui a Milano e ho conosciuto la donna della mia vita. Lei è la mia Eva Kent”. Stacco. Inquadratura dai maxi schermi su di lei in lacrime (chi non lo sarebbe con una dichiarazione d’amore del genere di fronte a 60mila persone?) e si intona “Just Breathe”. “Daughter”, così fresca, e poi “Jeremy”, all’opposto, emblema del disagio degli anni 90, “Betterman”. Tre icone della produzione dei Pearl Jam che uniscono così tanto involontariamente noi microscopici esserini laggiù nel parterre. Cose che solo se ci sei puoi davvero capire. E allora, adesso che siamo ancora più uniti, rompiamoci le rotule con “Spin the Black Circle”, “Lukin” e “Porch” che tra l’altro mi dicono Vedder abbia intonato prima del calcio di inizio della partita dei mondiali trasmessa preconcerto (io non c’ero, seguono bestemmie). La band esce di nuovo. C’è ancora un encore, lo sappiamo. Speriamo facciano “Baba” (“Baba O’ Riley”, una delle due cover degli Who che i Pearl Jam fanno divinamente; l’altra è “Love Reign O’er Me” che forse è fin più bella dell’originale), speriamo facciano “Alive”, e fanno “Alive”. E “Rockin’ in a Free World” di Neil Young, con il figlio di Matt Cameron alla chitarra solista al posto di McCready, un terrorizzato adolescente buttato sul palco di San Siro che scuote a mala pena la testa con dissenso quando Vedder gli propone di attaccare l’assolo, prontamente salvato dall’intervento di Gossard, che come al solito è composto in un angolo a fare pochissime note piene di groove e di gusto. E poi “Yellow Ledbetter”. Tripletta a luci accese. A saltare e a urlare. Sono tre inni più che tre canzoni. Un inno alla vita la prima, un cogito ergo sum urlato nel dichiarare di essere ancora vivi, nonostante tutto. Vivi e felici. Un inno al Rock, la seconda, in un mondo libero, liberato dalla musica, liberato da spiriti consapevoli della loro natura, del potenziale della vita stessa. Un inno a noi, la terza. Perché “Yellow Ledbetter” è forse la più ermetica delle canzoni dei Pearl Jam già solo perché non c’è una frase di senso compiuto con un soggetto verbo e complemento che abbiano un senso. Ma tutti la conoscono, tutti la urlano e le note finali del tema reiterato da McCready, solo sul palco, sono una goduria immensa.

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E questo era Milano.

Su Trieste vi risparmio il viaggio della speranza, la traversata longitudinale della pianura Padana che mi sono fatta in pullman per un totale di 16 ore di mezzo per assistere a tre ore di concerto. In realtà molte canzoni del live di Trieste sono in comune alla scaletta di Milano, in un ordine diverso. Fatte meglio, incredibilmente meglio. Persino Vedder sembra esserne consapevole quando inizia a raccontarci, in italiano (è solito farsi scrivere e insegnare la pronuncia di alcune cose che vuole dire ai fan in modo che tutti capiscano), che a Milano aveva bevuto troppo. E ce lo conferma il fatto che questa volta, per esempio, “Given to Fly” venga intonata con una perfezione accademica. “Black” e “Sirens” restano in cima, stavolta dopo “Elderly Woman” e la splendida “Unthought Known” presa da Backspacer. è una scaletta che parte romantica e triste. Chissà perché. Il succo resta, si salta per la prossima ora e mezza abbondante, con punte eccezionali con “Animal”, potentissima, tiratissima e la tamarrissima “Getaway”. Sono in brodo di giuggiole. E all’apice della mia gasatura, a tradimento, parte “Come Back”. Me la sentivo, l’avevo detto ai miei compagni di viaggio. Qualcuno aveva addirittura ipotizzato che sarebbe stata la prima canzone eseguita. Pecora nera tra le tiratissime “Deep” e “Even Flow”, “Come Back” commuove tutto lo stadio. Uno splendido gioco di emozioni condivise per pura empatia che porta tutte le gradinate ad accendere i cellulari, offrendo a noi, brulicanti nel pit, uno spettacolo meraviglioso. Una notte stellata, un cespuglio pieno di lucciole. Mi si riempiono gli occhi di lacrime. Non è il testo, che basterebbe di per sé, ma il momento commovente, quella compresenza di persone tanto diverse eppure tanto simili. Lo dice il brano stesso: “And the strangest thing today, so far away and yet feel so close”. Mi rifanno “Rearview Mirror”, mi rifanno “Betterman”, mettono il carico da undici con “Let Me Sleep” e “Chloe Dancer / Crown of Thorns” in tributo ai Mother Love Bone. “State of Love and Trust” è sempre una botta. Ci sono brani dei Pearl Jam come questo che ti riportano direttamente agli anni 90, che poi per me erano quasi i 2000 perché in fondo sono giovane. Ma ero disagiata tanto quanto i miei coetanei di una decade prima del Grunge di prima mano. Il concerto chiude allo stesso modo di Milano, lo stesso trittico, ma senza l’ospitata di Cameron Junior. L’assolo di “Rockin’ in a Free World” torna tra le sapienti braccione tatuate di McCready, che sarà pure invecchiato e avrà la pancia, ma sticazzi come se la sente. Briciolo di amarezza: scoprire a fine concerto, quando le prime linee del Ten Club postano su Instagram la foto della scaletta autografata, che in realtà in previsione c’era “Baba O’ Riley”. Chissà perché non hanno voluto regalarci un finale leggermente diverso.

Fa niente, motivo in più per andarli a sentire ancora una prossima volta, in questa riunione di famiglia a cadenza regolare.

Due curiosità, tanto per: i Pearl Jam hanno scoperto l’importanza di luci e scenografia. Roba di gusto ed essenziale, niente a che fare con i loro colleghi inglesi: una struttura ritorta di materiali riciclati, semovente, piena di luci, a cui vanno ad aggiungersi delle sfere che cambiano colore, scendono dalle americane, ondeggiano fra le teste dei musicisti che interagiscono con questi oggetti. A Trieste addirittura su una era montata una telecamera che proiettava in diretta sui maxi schermi le immagini psichedeliche che catturava. Su queste sfere Vedder è stato solito arrampicarsi per le prime date del tour americano. Questo potrebbe spiegare il tutore che aveva al ginocchio destro e la zoppia che comunque non gli ha impedito di saltare portandosi dietro l’asta del microfono da schiantare contro le assi del palco all’occorrenza, in occasione degli stacchi finali d batteria. Ultima chicca: a Trieste Cameron e McCready avevano su delle t-shirt dei Soundgarden. Sarà che Cameron, che nel 2012 si divise senza battere ciglio i tour europei delle due band, quest’anno ha paccato Cornell e compagnia per suonare coi Pearl Jam lasciando le bacchette a Matt Chamberlain? Bella pippa mentale potreste rispondermi. Fiera della mia nerditudine da Pearl Jam, vi dico io.

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Der Noir – Numeri & Figure

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I Der Noir sono tre e sembrano cento: merito delle sonorità elettroniche, certo, delle drum machine e dei sintetizzatori, merito delle collaborazioni (Luca Gillian alla voce, Hannes Rief alla tromba, Anna Martino al violino elettrico, Pierluigi Ferro al sax, per citarne solo alcuni), ma merito anche della loro capacità di costruire intrecci musicali complessi, vere e proprie stratificazioni melodiche e suggestioni Noise.

L’album si apre con “Carry On” che subito ci catapulta in atmosfere New Wave rivisitate: una lettura più Dance, forse, con echi alla Depeche Mode. La title-track, “Numeri e Figure” ha un testo in italiano che si muove su sonorità anni 80 freddissime, retto da una linea melodica complessa, capace di un andamento sillabico e momenti più ariosi e sospesi. Segue “Zero”: vaghe reminiscenze dei Massive Attack per un testo nuovamente in inglese e un brano che predilige la pulsione ritmica alla costruzione armonica. “L’Inganno” è forse la canzone più bella del disco: liriche interessanti, un cantato sillabico, chiaro che si staglia pulito su un arrangiamento composito, tra suoni sintetici e il calore dello strumento a fiato. “Sunrise” è quasi tribale, “Kali Yuga” dà una sfumatura mediorientale che subito viene abbandonata per una visione più Industrial, oscura e suburbana, che prosegue nella successiva “Metamorfosi”, in un crescendo malinconico e ansiogeno. Con “She’s the Arcane” si torna a parlare al corpo in quel modo subdolo e indiretto di cui i Joy Division erano maestri: non è una canzone da ballare, ma è una canzone che sicuramente vi farà muovere la testa con compostezza. Il disco chiude con una meditabonda “The Forms” che sancisce la fine dell’album addensando le suggestioni tracciate nei brani precedenti, una bella summa di quello che i Der Noir sanno dare. Il disco non è perfetto, forse i momenti più cinetici sono anche i più bassi, mentre i brani più riflessivi tradiscono una capacità compositiva su cui la formazione dovrebbe concentrarsi maggiormente, ma è un bel disco, che vale la pena ascoltare.
Fatelo.

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Stereoscrash Mode – Stereoscrash Mode

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Può succedere che ti arrivi tra le mani un cd perfetto sotto più punti di vista, ben confezionato, con una bella presentazione per la stampa (che è un fenomeno più unico che raro), una super produzione tecnico-sonora con nomi illustri a far da garante laddove l’orecchio non coglie certe sottili paternità produttive, eppure non ti piace. La situazione delineata è esattamente quella che mi sono trovata a fronteggiare con gli Stereoscrash Mode e il loro omonimo album. I pugliesi sono attivi da parecchi anni, hanno all’attivo numerosi live e tanta esperienza e, in ultimo, hanno avuto la fortuna di farsi notare da quell’Enrico Cacace nominato ai Trailers Music Awards per la colonna sonora di Gran Torino di Clint Eastwood, che ha deciso di prendersi cura del loro disco. E una sovrapproduzione in studio è evidente nel brano di apertura “Quella che ti Gira”, un mix di Rock e ariosa Elettronica su cui si staglia un cantato alla Ligabue che ha l’unico pregio di essere tutto, rigorosamente, in italiano. “Se Mai”, manco a dirlo, ha sapore tutto cinematografico d’oltreoceano, con un apertura lenta e cadenzata, contrappuntata da chitarre elettriche riverberate: ancora una volta, però, è la voce a non avere nulla di originale. Gli Stereoscrash Mode fanno un Pop Rock ben concepito ma molto poco originale, che prosegue anche in “Adesso Ormai”. La traccia successiva, “Cercare più in là”, si discosta per arrangiamenti dai primi brani del disco, tutta costruita su sonorità Elettroniche e artefatte, appesantite però dal testo in rima, croce e delizia della nostra lingua, tutte incentrate su parole tronche alla fine del verso. “Sogni della Mia Vita” è deliziosamente Pop: niente da invidiare a un singolo di Ligabue, ma proprio per questo, al di là del gusto personale, decisamente poco personale. Un tentativo di ispessimento lirico caratterizza il testo di “Alessia”, in cui la voce, per una volta, sembra abbandonare il Liga tra i riferimenti stilistici e si ispira più al Cantautorato per tematica e scelta lessicale, sostenuta anche da un arrangiamento più particolare, con uno splendido pianoforte che strizza l’occhio alla dissonanza spesso e volentieri.

C’è dell’Indie Rock americano nell’intro di “Quello che C’è” che cede subito il passo al Rock nostrano del cantante di Correggio. Il disco chiude con “Sono Nato in Italia”: può non piacere l’arrangiamento onirico ma sicuramente si apprezza, come già nella precedente “Alessia”, una maggior cura del testo e una cifra stilistica più personale. La questione insomma è questa: puoi anche scrivere un numero di brani sufficienti per fare un disco, puoi essere intonatissimo ma purtroppo non avere un timbro personale, puoi essere circondato di musicisti validi e avere un produttore della madonna, ma se manca il messaggio, difficilmente riuscirai a distinguerti nella folla di band emergenti che ogni anno la nostra penisola sforna e dà in pasto al mercato underground. Non resta che augurare agli Stereoscrash Mode di capire il proprio limite e farne un punto da cui partire per individuare il proprio carattere personale, che, al momento, manca.

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7Years – Psychosomatic

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Non è semplice fare qualcosa di nuovo nel panorama musicale nostrano e non solo. Spesso sembra che tutto sia stato detto, spesso non si hanno i mezzi tecnici per andare oltre, spesso si manca di creatività o ci si accontenta di suonare qualcosa che piaccia senza chiedersi se possa piacere ad altri o se possa aggiungere qualcosa a quanto tanti hanno già detto prima di noi. E quest’ultimo punto sembra riguardare i 7Years che si sono coraggiosamente autoprodotti il loro Psychosomatic, disco di tredici tracce e tanta energia, che fin da subito si colloca a gamba tesa in un genere più che quotato, il Punk Rock, e non si schioda mai da lì se non, in parte, sull’ultima traccia.

“Run Away” apre le danze (o meglio il pogo): super tiro, cazzutissimo un po’ alla Backyard Babies, vien subito da chiedersi come dev’essere un concerto di questi ragazzi. Segue “Kill me Now” e neanche mi ero accorta che avessero cambiato traccia, grossa pecca, che già dovrebbe far riflettere sul poco margine che il genere lascia tra i suoi stilemi e sulla poca personalizzazione dello stesso da parte della band. “Breeding Grounds” è velocissima, tiratissima e sempre portata avanti: sicuramente molto bravi dal punto di vista tecnico, sarebbe facile a questa velocità tirare indietro i pezzi e perdere gradatamente di tensione e invece non mollano mai la presa. “Drown” è più ariosa e orecchiabile, con un bel riff alla Hardcore Superstar, “Still Lake” suona iper iper americana, mentre la title track “Pychosomatic” è caratterizzata da un palm muting delle chitarre che si alterna ad accordi pieni e giochi di voci, a tratti con qualche reminescenza dei Soundgarden di Superunknown. Quando si arriva a “Just You and I” bisogna proprio riconoscere che non hanno smesso un secondo di tirare mitragliate di note senza sbavature e incertezze, pur tra tutti i cliché del genere, che alla lunga possono annoiare chi non è proprio uno sfegatato cultore. “A Reason to Smile” è ben fatta, sicuramente, e dal vivo probabilmente rende molto di più che in studio; “Sons of a Beach” bel riff che gioca sulla modalità, ma il discorso resta: ormai abbiamo capito tutto dei 7Years e non c’è più niente da scoprire già da qualche traccia. “Never Alone” inizia con una voce registrata, un dialogo tra una madre e un bambino piccolo, e poi parte durissima, cattivissima e distortissima, quasi accelerata per tutta la strofa. “Remove” prosegue sulla falsa riga della precedente, mentre in “Animals” c’è la registrazione dell’intervento di Silvio Berlusconi sulla bandiera americana, in cui sfodera un inglese più che maccheronico. “Faith” ha un intro stranamente diverso da tutto il resto del disco, sonorità molto più meditate e atmosfere ariose e aperte, che, naturalmente, cedono subito il passo alla distorsione e all’energia, questa volta più in stile Foo Fighters.

I 7Years sono dotatissimi dal punto di vista tecnico e sguazzano ormai nel loro genere, padroneggiandone bene tutti i tratti stilistici caratterizzanti. L’augurio è di non accontentarsi e sapere andare oltre, chiedendosi cosa possono aggiungere di proprio e trovando una dimensione più personale. In bocca al lupo.

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Sanremo 2014: grazie al cielo è finita.

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Ogni anno mi tocca il commento finale sul Festival di Sanremo, non certo senza compiacermi della quantità di veleno che posso meritatamente rigettare, in una sorta di catartica liberazione interiore. Niente pagelle quest’anno, credo sarebbe come sparare sulla Croce Rossa e preferisco lasciare perdere. Sanremo è come i Giochi Olimpici per l’antica Grecia: non si ferma mai, piuttosto sono le guerre che vengono messe in stand by perché lo spettacolo possa avere luogo. Oramai è un dato di fatto e bisognerebbe semplicemente prenderne atto. La macchina economica che si muove dietro all’organizzazione della rassegna ha respiro così ampio da essere inarrestabile. E questo vale sia per la spesa mostruosa a fronte della crisi economica e soprattutto di un’offerta qualitativamente scadente, quanto per la scelta degli artisti in gara che hanno alle spalle case discografiche compiacenti e ben immanicate. Partiamo dal principio. Il Teatro Ariston, evidentemente, non è dotato di sicurezza: i primi minuti sono stati “macchiati” dall’intervento di due lavoratori che volevano a tutti i costi far leggere una loro lettera (dal tema importantissimo, per carità, quello della condizione lavorativa), minacciando di buttarsi dalle impalcature. Già visto, già fatto e per altro con un eroico Baudo, non con un freddissimo Fazio che legge poi la lettera in questione lamentandosi anche per la calligrafia. Si poteva e doveva fare diversamente, sia da parta di chi protestava, sia da parte dello staff, che avrà preferito lasciare che lo spettacolo circense gratuito andasse avanti pensando che a casa l’italiano medio si tenesse incollato allo schermo peggio che in una puntata di The Walking Dead. Arginata la tragedia, inizia lo show: l’orchestra disposta in una scenografia a metà tra Il Gioco dei Nove e Macao, soluzione che avrebbe già dovuto farci capire che saremmo stati catapultati nel Festival delle Cariatidi. Sul palco, infatti, per cinque giorni si sono alternati corpi riesumati dal passato. Tommy Lee, le gemelle Kessler, Claudio Baglioni, Laetitia Casta, Raffaella Carrà, Ligabue, Renzo Arbore tra gli ospiti, Antonella Ruggiero (in una mise a cavallo tra Robert Smith, cosa notata da tutto il pubblico dei social network e su cui lei stessa ha poi iniziato a giocare dal suo profilo Facebook e Sean Penn in This Must Be the Place), Francesco Renga (cavolo, ma ancora?, tra l’altro cantando una canzone di Elisa e cercando pure di cantarla come avrebbe potuto e forse dovuto fare lei), Ron (santiddio!), Giuliano Palma (un artista tutt’altro che sanremese), Frankie Hi- Nrg (che ha sbagliato tutto, da look a canzone, fino al fatto di non essersi ancora dato all’ippica), tra i “big” in gara. Ma big de che? Sarcina ex Le Vibrazioni sarebbe un big? Lui e i suoi capelli da mafioso di Little Italy anni 80 e i denti gialli? E Sinigallia ex Tiromancino (ma ex da mo’ oltretutto), che si presenta pure con una canzone carina ma già suonata che gli vale la squalifica? Ma Riccardo: sono solo sessantaquattro anni che ce la menano, non avete ancora capito tu e il tuo entourage che non si possono suonare i brani in gara prima della gara? Ma che davero?  E comunque quella poteva tranquillamente essere una canzone dei Tiromancino, quindi già eseguita o meno, era sicuramente già stra-sentita.

Un Festival di disadattati sociali (e basta vedere la classifica finale dei vincitori) per disadattati sociali a cui, di nuovo, come l’anno scorso, bisogna fare i discorsini materni e affidarli alla voce della Litizzetto: gay è bello, il diverso è bello, il bambino down è bello perché se non insegniamo queste cose ai nostri figli, allora, è normale che poi brucino i Rom o i senzatetto nel parco. Sacrosanto, in un’Italia decerebrata che ci sia bisogno di pagare milioni una ex comica asservita allo showbiz per dire queste cose. E allora poi facciamo suonare Rufus Wainwright per far vedere che anche i gay sanno fare grandi cose e facciamo ricordare da Crozza che persino Michelangelo era gay. Perché se non lo dicevano loro, là fuori c’era ancora gente convinta che gli omosessuali fossero solo gli untori dell’AIDS, gente che ti aspetta per la strada di notte per violare de retro la virtù di qualche bravo uomo di famiglia. E, perché no?, invitiamo un disabile a fare la breakdance con le stampelle. Perché magari intervistare un laureato, un avvocato, un medico, un architetto, con un ADHD certificato non faceva spettacolo. Ma va bene, lasciamo stare, c’è evidentemente bisogno di affrontare queste tematiche e, rivolgendosi a un pubblico mediocre per educazione, cultura ed etica, bisogna anche servirglielo in una certa confezione. Torniamo quindi alla musica, quella almeno sarà stata bella. Certo, come no. La sagra del Reggae riciclato, da Frankie Hi-Nrg a Giuliano Palma fino al vincitore della categoria giovani, Rocco Hunt che viene dalla terra del sole e del caffè (e pizza, mandolino e mafia no? un testo pieno di cliché partenopei da far venire la pelle d’oca) e non dalla terra dei fuochi. Si, ok, ma i baffetti puberi potevano tagliarteli invece che lasciarli per intenerire qualche mamma italiota che ha appena imparato a mandare sms e ne dedica proprio uno a te per il televoto. Canzoni pallose allo stremo tra Noemi e la ex cassiera dell’Esselunga Giusy Ferreri (che fa incazzare non tanto perché, novella Cenerentola, è passata dal registratore di cassa della grande distribuzione, al palco prestigioso della rassegna musicale più nota italiana, ma perché quella aveva un lavoro da cassiera e là fuori c’è tanta gente che riempie le file dei Centri per l’Impiego), passando per il Premio della Critica intitolato a Mia Martini, andato al figlio d’arte Cristiano De André che, poveretto, ha fisionomia e voce identiche a quelle del padre ma non ne ha certo l’arte e l’estro, per quanto abbia presentato un brano anarcoide e ateo in pieno stile paterno. Ma veniamo pure ai vincitori (non certo morali, ti piace vincere facile con quella rosa di concorrenti lì): Arisa, che si era arruffianata il pubblico con il suo look pre-hipster da brutto anatroccolo sono davvero così, sguardo basso di fronte ai giornalisti e voce da topolino, torna giunonica e panterona sexy sbattendoci in faccia che erano tutte cazzate (Sincerità un elemento imprescindibile…), vi ho gabbati tutti. Avesse poi portato con sé una super canzone ci saremmo pure passati sopra ma la sua “Controvento” era un mero esercizio di stile, buono solo a qualche scuola di canto per indottrinare aspiranti quattordicenni ché se ce la fa quella posso farcela anche io. Gualazzi e Bloody Beetroots erano due tarantolati: il primo a contorcersi dal pianoforte, a sudare in una fintissima tensione orgasmica e a cannare ogni maledetta nota da intonare, il secondo tra tastiere e chitarre (due note per ciascuno strumento, oltretutto) con la sua maschera da Uomo Tigre (ndr in realtà è di Venom, lo sappiamo bene). Inguardabili e insentibili. Renzo Rubino, poi, ma chi cavolo è? L’ho già detto l’anno scorso credo: assolutamente anonimo con la sua orrenda cravatta verde mela.

I coraggiosi si contano su una mano: Perturbazione, che (a parte l’ospitata di Violante Placido) sono stati magnifici, The Niro (gran bella voce, bella canzone) e Zibba (che se l’è cavata con grande dignità e ha portato un brano pianamente conforme al suo stile, senza sputtanarsi per il palco del’Ariston ). Di questi, solo i Perturbazione sono stati premiati con il Premio della Critica intitolato a Lucio Dalla. Accontentiamoci.

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Egokid – Troppa Gente su Questo Pianeta

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Il tre è il numero perfetto. E gli Egokid tornano dopo tre anni dall’ultimo disco e giungono al terzo full length della loro carriera. Numeri importanti che creano una certa aspettativa con cui è difficile avere a che fare. Troppa Gente su Questo Pianeta apre con “Il Re Muore”, traccia cantautorale con un’impronta vocale alla Max Gazzè. “La Madre” è Indie Rock puro con le chitarrine plin plin, aperture ariose, tempi dilatati e poco slancio (purtroppo). Gli Egokid si apprezzano particolarmente nella terza traccia, “In un’Altra Dimensione”, con un arrangiamento introduttivo quasi da cantautorato Jazz alla Paolo Conte e fini inserimenti strumentali per brevi incisi melodici gustosi e reiterati con un certo autocompiacimento. Anche qui, però, il pezzo non aggancia l’attenzione.

Ne “Il Mio Orgoglio” echeggia la lezione di Miles Kane e in “Solo Io e Te” quella dei Muse, mentre “L’Alieno” è una ballatona delicata con un arrangiamento abbastanza scontato, costruito su una chitarra arpeggiata e lunghi accordi delle tastiere in sottofondo.  Il Pop Italiano, un po’ datato e dal sapore vintage è alla base di “Che Tempo Fa”, ma le troppe rime finiscono per svilire una canzone potenzialmente bella, fresca e frizzante. “Frasi Fatte” è il brano in cui il cantato mi ha convinto di più: è quasi un recitativo teatrale, come se il pezzo fosse estrapolato da un musical. Un certo gusto parodico si trova in “Non Balliamo Più”, siparietto elettronico all’interno di un disco Alternative e colto, come una citazione estemporanea di una certa Dance nostrana che decisamente (e fortunatamente) non c’è più. “La Malattia” ha un arrangiamento molto complesso e molto ben curato e reso, con un tono sommesso e battagliero che ricorda “Solo un Uomo” di Nicolò Fabi. Niente comunque, che basti per convincere che gli Egokid abbiano sfornato un disco che suggelli meritocraticamente la loro carriera. Troppa Gente Su Questo Pianeta è un album pregevole, ma poco accattivante, colto ed elitario ma poco coinvolgente, ben arrangiato e strutturato ma poco comunicativo. Davvero peccato.

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Bachi da Pietra – Festivalbug

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Tornano i Bachi da Pietra a far parlare di sé. Un Ep, questo Festivalbug, di tre sole tracce, stilisticamente affini, per certi aspetti, alla produzione antecedente del duo eppure lontanissime per altri. Colpisce soprattutto una maggiore intimista attenzione cantautorale non solo nella costruzione dei testi, ma anche e soprattutto nella resa musicale. Se in Quintale la formazione aveva colpito soprattutto per la potenza acustica, qui impressiona per la ricerca essenziale e minimalista del suono, che lascia spazio al racconto. Sin dal primo brano, “Tito Balestra”, si sentono echi di Paolo Conte, in particolar modo per la vocalità parlata e declamata, più che cantata. Uno stream of consciousness di suggestioni visive e riferimenti letterari, una piemontesità autoreferenziale cronologicamente distante, tanto quanto metaforicamente attuale. C’è anche Fenoglio, che viene inserito di tanto in tanto, come un antecedente con cui ci si confronta naturalmente, non certo come un riferimento culturale vuoto di cui vantarsi e da impiegare per darsi un tono. Le tracce sono lunghe pennellate di immagini, come nel caso di “Madalena” (e come non ripensare, di nuovo, alla “Madeleine” del cantautore astigiano?), maliziosamente costruite su doppi sensi accennati e presto risolti in una narrazione casta. Una donna forte, una casalinga probabilmente, tanto pratica nelle azioni quanto in grado di suscitare desiderio e scatenare passione: non è un caso che l’arrangiamento si faccia più fumoso e Blues.

E ci sono il Moscato e le mucche e il piccolo paese di Calamandrana: di nuovo un Piemonte antico, che, per me che provengo da quella regione, è immediatamente rintracciabile anche nella modernità quotidiana. “Baratto Resoconto Esatto” è un diario visionario di scambi di prestazioni, pieno di riferimenti a precedente disco Quintale e alle sue tracce. Il cantato è ancora declamato e l’arrangiamento è più simile a quelli a cui la band ci abituato. Sentiamo di nuovo un trattamento Noise che li avvicina tanto ai conterranei Marlene Kuntz. Qualsiasi cosa i Bachi da Pietra stiano preparando per il futuro anticipata da lavori di questo tipo, aspettiamoci una nuova sorpresa e una maturazione stilistica e narrativa davvero impressionante. Bravissimi.

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